38 – Dicembre ‘87

dicembre , 1987

Aspettando Godot di Samuel Beckett, scritto nel 1950 e andato in scena nel 1952 a Parigi, è un testo fondamentale per la storia del teatro del nostro secolo.
Di fronte ad un albero scheletrito, l’umanità gioca con la propria disperazione: due poveracci aspettano Godot, che arriverà sempre, forse, domani. La dinamica eterna del servo e del padrone che lottano fino a scannarsi si svolge ugualmente nello stesso spazio, vicino ad un albero che potrebbe proiettare l’ombra della croce. Godot è un padrone anche più padrone di tutti gli altri, probabilmente con una gran barba bianca e un triangolo a mo’ di berretto e parla soltanto attraverso il suo tenerissimo e terribile messaggero che può solo dire «sì» oppure «non so». Tutte le situazioni della vita umana sono rappresentate da cinque personaggi in un’atmosfera senza tempo. Disperazione, allegria, odio, amore, paura della morte e voglia di morire, su tutto stagna l’attesa, che opprime e schiaccia ma che sola dà significato alla vita. Assunti così impegnativi è quasi inevitabile che vengano rappresentati con pettoruta e tronfia magniloquenza e noi abbiamo assistito a decine di tali rappresentazioni stucchevoli nelle quali i sentenziosi profeti dell’assurdo si sentivano in diritto di imporre l’incomprensibilità e la noia distruggendo la ricchezza poetica di questo testo, ridotto così a melensa ripetizione di slogan pseudo-esistenzialistici. Non c’è nulla di assurdo in quest’opera possente di teatro, che è sbalorditivamente simile ad un’altra coeva opera teatrale, ugualmente a torto considerata «assurda», La cantatrice calva di E. Ionesco, appena un po’ più spigliata e scanzonata, ma non meno graffiante nella sua realistica bizzarria. Nella realizzazione andata in scena al Teatro Valle, Antonio Calenda ha scelto gli attori giusti per abbattere ogni apparato pseudo-intellettualistico con un risultato davvero eccezionale. Fiorenzo Fiorentini e Mario Scaccia, rispettivamente Estragone e Vladimiro, sono stati perfetti nella loro diversità e specularità: uomini e non simboli, ci hanno fatto partecipi delle loro gioie e dei loro dolori, delle loro illusioni e della loro meschinità. Più stralunato e chioccio, con l’efficacissima voce, Fiorenzo Fiorentini, perfidamente astuto e paurosamente debole, sotto l’ostentata prepotenza, Mario Scaccia. Entrambi sono stati capaci di recuperare a fianco della giusta drammaticità anche quel che altrettanto giustamente ci deve essere di umoristico e divertito. Cesare Gelli nelle vesti di Pozzo ha reso le sfumature contraddittorie del padrone tiranno e vittima, passando dall’impettito sussiego tonante della prima parte al pietoso e spregevole vittimismo dello sconfitto nella parte finale. Aldo Tarantino, il servo Lucky, ha costruito il personaggio con la precisissima cura di ogni gesto e di ogni smorfia ed ha saputo trovargli anche una voce che usciva da quel corpo, come scissa e irreale, quasi persona nella persona. Pietro De Vico, nelle sue due brevissime comparse, ci ha dato veri brividi di ammirata commozione. Germano Mazzocchetti ha affidato alla fisarmonica qualche manciata di note sparse qua e là, con buona efficacia. Le scene e costumi erano di Riccardo Berlingeri. Di Calenda notiamo come sia suscettibile di esiti diversi, anche eccellenti come in questo caso dove ha saputo amalgamare movimenti, parole e silenzi con estrema sapienza.

Pianola meccanica è il titolo dell’opera tratta da Cechov che Nikita Michalkov ha messo in scena all’Argentina rielaborando insieme con Aleksandr Adabascian Platonove alcuni racconti. Questo mastodontico spettacolo ci ha fatto pensare a quella montagna che, dopo tanti sforzi, partorì un topolino. Non si può dire che non si veda un lavoro quanto mai minuzioso e approfondito sia sui testi, sia sulle altre componenti dello spettacolo; ma il significato di questa scialba produzione teatrale è riassumibile in un gran dimenarsi sulla scena e un’immensa, ineffabile noia tra il pubblico degli spettatori. Non basta far muovere gli attori come se fossero pupazzi caricati a molla, per dare il senso della precisione e dell’accuratezza. Né basta costruire un immenso presepio con l’acqua vera e le colombe per sottolineare un’impressionante realismo; non basta neppure far ripetere monotonamente quattro concetti fondamentali della filosofia cechoviana, che diventano così vuote formulette, per simulare profondità. In tutto lo spettacolo l’amara e poetica concezione della vita e dell’arte di Cechov sono completamente e clamorosamente infrante, come spacca le orecchie l’incredibile boato di una pianola meccanica il cui suono è usato nei momenti più sbagliati, quasi l’intenzione del regista fosse solo quella di provocare un sussulto negli eventuali e probabili assonnati uditori. Il finale, con l’alba radiosa, è gratuito e fastidioso, più adatto a uno spettacolo di suono e luce che altro. La storia è quella vissuta nell’arco di ventiquattro ore dai personaggi che abitano dentro e ruotano intorno alla grande casa della campagna russa, tutti in qualche modo «tipici» e persino vieti, con le loro smanie e le loro piccinerie, con i loro pruriti pre-rivoluzionari e le loro passioni amorose mai limpide, con la meschinità dei servi e l’imbecillità dei padroni. Al centro di tutto e di tutti si pone il maestro Platonov con il velleitarismo degli intellettuali frustrati e
pigri, che per accidia non sono neppure capaci di darsi quella morte dietro cui sempre vanno belando. La bravura di tutti gli attori da sola ha cercato di rendere sopportabile un’impostazione registica inaccettabile; così i singoli personaggi pur nell’ovvietà delle situazioni, hanno di volta in volta brillato di spunti persino virtuosistici, come il Ghierasim di Franco Alpestre o il Sierghiej di Stefano Lescovelli e il Nicolaj di Arnaldo Ninchi, ai quali non sono stati inferiori Claudia Giannotti, Raimondo Penne, Leda Negroni, Pino Patti, Delia Boccardo, Alessandro Sperlì, Isa Gallinelli, Cosetta Coceanis e tutti gli altri. Per quanto riguarda Marcello Mastroianni, interprete del ruolo di Platonov, si può solo dire che ci ha delusi. La sua presenza scenica è indiscutibilmente efficace, ma quando apre bocca ottiene effetti soltanto ridicoli, quali che siano i sentimenti che intende esprimere, perché cadenza ogni frase con uguale ed esasperante monotona piattezza. Le musiche originali di Eduard Artiemiev non erano che una dolciastra e ripetitiva melodiuzza da night-club. Le scene di Yuri Kuper, i costumi di Carlo Diappi e le invadenti e mutanti luci di Gino Potini hanno avvolto il tutto in una confezione che più natalizia non si potrebbe.

Il Novecento attraverso i suoi poeti ha tentato tenacemente di distruggere la poesia come fatto artistico autonomo, abolendo tutte quelle caratteristiche che la rendevano riconoscibile come tale; ma, a dispetto dei poeti, la poesia è rimasta riconoscibilissima, anche nei suoi aspetti che banalmente si potrebbero dire formali. Né l’iconoclastia futurista, né i misteriosi grumi di parole dell’ermetismo sono riusciti a farle cambiare fisionomia. Tutto sommato, la poesia rimane, come essenza, un’arte dello spreco; che cioè continua ostinatamente, non sempre, ma per lo più, a non riempire le righe della pagina: questo è la poesia, il resto è arte. La parola della poesia non è soltanto parola e ben lo dimostra il bello spettacolo Poesia la vita che abbiamo visto al Teatro Quirino e che Vittorio Gassman ha montato, usando gli sprechi della versificazione e il loro richiamare altro da sé: gesto, suono, movimento, danza ed uno dei modi fondamentali di fruire la poesia: quello di continuare in un discorso che è dialogo con un ascoltatore. L’altro modo – lo diciamo tanto per dirlo – è quello esattamente opposto della lettura interiore e solitaria. Gassman costruisce un dialogo con lo spettatore che non si sente mai negato dal narcisismo dell’attore, come troppo spesso avviene in teatro. Una misuratissima pioggia di versi bagna gli spettatori: alcuni sublimi, possenti, altri teneri e disperati, alcuni anche decisamente brutti (o forse solo tali per noi); tutti raccontano però agli altri un po’ della vita: l’amore, la guerra, la morte. Gassman modula la sua voce bella e profonda dall’ampia gamma di registri con sottile sapienza, artigiano che si sa commuovere, ma che non dimentica mai di dover essere perché glielo ha imposto il cielo – un istrione. È inutile elencare i vari brani poetici: belli o brutti che siano i versi, si susseguono con ritmo impeccabile. E poi il «mattatore» dice anche garbatamente: «Ho voglia di fare pipì». E qualche volta ne ha voglia davvero. E l’intervallo trascorre gradevolmente con belle canzoni e un bicchiere di spumante. La comunicazione non si interrompe mai. Forse la poesia è solo dialogo e quindi non è vero quello che abbiamo prima detto che possa esistere una lettura solitaria; sempre è letta per qualcuno. Bellissima è la poesia anche quando la si legge «con» qualcuno ed ecco che i giovani della «bottega» entrano ed escono di scena cantando, ballando, suonando e recitando, dando col loro corpo concretezza alle parole, sorreggendo lo sforzo del maestro, aiutando l’amico e ricevendo ne il gesto o l’accento. Tutti molto preparati e capaci: Patrizia Carnebianca e Andrea Pini, con i loro movimenti coreografici, Giusi Cataldo con le sue canzoni, Guido Rigatti alla chitarra, Sergio Meogrossi e Giorgio Colangeli l’uno coi suoi pupi e l’altro nei suoi brevi passaggi. La musica di Fiorenzo Carpi, personalissima e di ottima fattura non era mai un orpello, ma senza strafare accompagnava, sottolineava, rivestiva i versi. La regia di Gassman si è avvalsa della collaborazione letteraria di Guido Davico Bonino. I costumi erano di Bruno Piattelli, le illustrazioni di Mario Ricci e le coreografie di Daniela Bonsch, aiutati da Elio Sanzogni e Patrizia Crea. Questo è un ottimo spettacolo che si beve d’un fiato, e che lascia contenti anche se non sempre i versi hanno parlato della felicità.

Purtroppo sulle nostre scene non è facile vedere rappresentati autori italiani contemporanei, e ancor meno autrici. Indubbiamente gioca anche lo snobismo e l’esterofilia della nostra cultura, che fa molta fatica a liberarsi del provincialismo di cui è, da sempre, malata. È anche vero però che la qualità dei testi lascia spesso a desiderare, in modo che si viene a creare il classico circolo vizioso da cui non si può uscire. Con estremo piacere e grande soddisfazione abbiamo visto al Teatro Tordinona una commedia di Luciana Luppi, intitolata Coabitazione. L’autrice dimostra un’autentica conoscenza dei meccanismi teatrali, forse anche perché ha alle spalle una lunga esperienza di attrice che le ha permesso di trovare una chiave di scrittura agile, spiritosa ed arguta. È un testo leggero, ma ben congegnato, di schietto umorismo. La «coabitazione» è quella forzata di quattro ragazze, due delle quali soltanto hanno deciso di convivere in una minuscola monocamera più servizi, e alle quali le altre due riescono, con petulanza o prepotenza, ad imporsi malgrado tutto. I quattro caratteri femminili sono ben differenziati, sia pur ricorrendo in modo un po’ esasperato alla caricatura:
Amelia è una nevrotica, grottescamente ossessiva, che inutilmente si dispera vedendo invasi i suoi spazi vitali; Zaira è l’amica intellettuale ed oziosa, che sputa sentenze estratte dal suo fumoso mondo di carta stampata. Tra le due si crea un gioco di contrappunto psicologico e teatrale, con un pregevole risultato satirico nei confronti dei luoghi comuni psicoanalitici più ridicoli. La prima intrusa ad irrompere sulla scena e nella vita delle due è la vistosa e chiassosa Greta dalle insaziabili voglie di sesso e di oriental misticismo; ad essa si aggiunge poi Dorotea, che balla e telefona con una disperata vitalità che il mondo continua a frustrare. Al quartetto femminile si viene ad aggiungere Dante, un virile deus ex machina al contrario, che, in fin di commedia arriva completo di sacco a pelo. Lo spettacolo è ben concertato dal regista Walter Manfré.
La stessa Luciana Luppi ha interpretato Amelia con ironia, ora tenera, ora brillante. Patrizia La Fonte ha fatto di Zaira un ritrattino gustoso, di zitella dal falso senso di superiorità. Franca Stoppi ha reso Greta efficacemente ingombrante, anche sottolineandone la fisicità e con una dizione meditatamente assurda. Marzia Musmeci nell’a solo al telefono di Dorotea è stata di un virtuosismo impareggiabile. Giustamente bambolo il Dante di Pietro Brambilla. Le scene ed i costumi erano di Alessandro Canu. Abbiamo particolarmente apprezzato il fatto che in un’opera scritta ed interpretata da donne, che si occupa dei problemi femminili, sia completamente assente ogni acida acrimonia pseudo-femminista!