Psicoanalisi contro n. 38 – Idee chiare e indistinte

dicembre , 1987

Un sistema di pensiero è riconoscibile non soltanto perché coloro che lo hanno costruito sono riusciti a dargli un nome, ma anche quando nel suo interno mantiene un certo grado di organizzazione. Noi siamo abituati a grandi sistemi filosofici, scientifici e religiosi che cercano di darsi un’identità di base e di costruire su di essa relazioni significanti. Correnti politiche ed artistiche radicando le loro affermazioni sul sociale, su nostalgie del passato, sulle intuizioni più o meno coordinate di qualche maestro riconosciuto, hanno agito nel mondo e sulla storia con interventi talvolta incisivi, altre volte più inconsistenti. Anche singoli ricercatori, pensatori ed artisti, benché in apparenza solitari, hanno lavorato collegandosi, con fili sottili, a sistemi di pensiero più ampi. Alcuni di questi singoli pensatori e alcune correnti paiono immobili come se chiosassero continuamente due o tre affermazioni che ripetono per tutta la vita; altri invece sconvolgono continuamente i loro criteri di giudizio con specie di cataclismi successivi che ribaltano gli elementi acquisiti. Negli uni e negli altri comunque rimane reperibile un sia pur celato principio unitario. È anche successo che alcune figure abbiano fatto della loro vita l’espressione di un pensiero che, in seguito, discepoli, più o meno fedeli, hanno tentato di trasformare in teorie organiche.
Un esempio per tutti è quello di Gesù, il Nazareno, il quale visse, parlò, predicò e mori e di cui i discepoli dicono che anche risorse ed ascese al cielo, di dove tornerà per «giudicare i vivi ed i morti».
I padri apologisti per primi iniziarono un’organizzazione sistematica del suo pensiero, attingendo a piene mani dall’humus della cultura greca da cui erano stati formati; dopo vennero i padri della chiesa a tentare di sistemare filosoficamente un bagaglio teorico già divenuto antico e fin da allora si originarono le diversità delle interpretazioni, le differenziazioni, le letture particolari, le eresie. La parola del Gesù era più organica e vitale quando veniva pronunziata in Galilea e raccolta da Pietro, Giovanni e gli altri che lo vedevano vivere ed agire? Oppure nelle sistemazioni successive, che magari hanno travisato lo spirito e la lettera della sua parola, il significato della sua vita, ma che pure hanno dato a quel suo pensiero seguito ed organizzazione? Chi ha interpretato giustamente quelle parole e quel pensiero? Come ciò che lui ha detto è stato riferito da quelli che lo hanno udito e quali vangeli sono legittimi quali no? Certo questo dell’autenticità dei quattro libri sinottici è un problema che si sono posti in molti, ma tutti hanno il diritto di dubitare, di porsi problemi. La storia delle varie teologie cristiane non presenta certo un carattere di unitaria compattezza.
Ci sono voluti i dogmi per fissare basi certe e salde; ma hanno più valore di verità quelli stabiliti nei concilii, oppure quelli che ciascuno trova all’interno della propria coscienza?
Anche quelli che non vogliono che la chiesa del Cristo sia un’organizzazione visibile, ma semplicemente l’unione di tutti i fedeli, sono in fondo dogmaticamente certi che Cristo sia figlio di Dio e che l’unione dei credenti sia direttamente illuminata dalla grazia divina; ma cosa è la grazia? Ho citato l’esempio del Cristo e degli atteggiamenti religiosi che hanno avuto origine da lui.
Tommaso d’Aquino, il doctor angelicus, scrisse la sua Summa contro gentiles. I gentili dove sono? Stanno ascoltando forse altri maestri?

2.
Le stesse teorie scientifiche non hanno senso se non sono inserite in un sistema completo, fondato su ipotesi e convalidato da prove. La scienza mira non solo alla descrizione dei fenomeni, ma alla loro comprensione, anche se sono convinto che, tutto sommato, descrizione e comprensione coincidano.
La descrizione corretta di un fenomeno ne implica anche la comprensione, senza la quale la descrizione stessa non sarebbe corretta, in quanto si ridurrebbe a una serie di emozioni soggettive o a una disordinata collezione di dati. Comunemente si dice dunque che la scienza tenta di comprendere. Perché questa esigenza? Per poter controllare. La scienza, comprendendo, riesce a prevedere il divenire dei fenomeni e questa previsione è utile al controllo del fenomeno e delle sue conseguenze ed eventualmente a modificare corso e sviluppo di entrambi. La scienza è utile se riesce a modificare i fenomeni e le loro successive concatenazioni causali; se non fosse in grado di intervenire in questo senso, perderebbe molto del suo significato, sarebbe tutt’al più contemplazione; uno specchio che riflette la realtà, senza intervenire su di essa. Se tale specchio poi non fosse perfetto rifletterebbe immagini deformate della realtà stessa, ne farebbe cioè una esile parodia.
La verità sulla quale si fonda la comprensione, quella cui ogni ricercatore e ogni scienziato deve tendere, è irraggiungibile, ma deve essere ugualmente perseguita, malgrado tutti i rischi di fraintendimento. La verità è sempre oltre, ma nel viaggio verso il suo raggiungimento deve essere possibile la verifica della traiettoria; questo compito di controllo appartiene alla metodologia scientifica.
Se l’applicazione pratica di un’ipotesi riesce a rendersi utile all’uomo, noi possiamo dire che quell’ipotesi si avvicina ad una possibile verità. È impossibile dire se verità e utilità coincidano, ma, secondo me ci deve essere tra i due termini un collegamento. La possibilità di intervento va dalla pura e semplice previsione – quella dei fenomeni atmosferici per esempio – in base alla quale modificare i comportamenti, all’intervento diretto sul funzionamento di un meccanismo – come quello dell’organismo umano – che apporta la correzione ritenuta utile al buon funzionamento.
In questo caso rientra l’intervento terapeutico divario tipo: farmacologico, chirurgico o psicologico.
Anche le psicoterapie – per tornare a quello che ci riguarda più da vicino – dovrebbero servire infatti a intervenire su un tipo di concatenazione causale, riuscendo a modificare e talora addirittura ad invertire i processi mentali: l’uomo, oppresso da sintomi psichici che lo tormentano, potrà così esserne, almeno in parte, sollevato e riacquistare la possibilità di un agire che, se non sarà necessariamente più libero, sarà almeno più felice. Potrà così affrontare il mondo con comportamenti adeguati, senza angosce e costrizioni dolorose.
La ricerca scientifica dice di basarsi su esperimenti, ma per secoli si è basata soprattutto sul ragionamento. Gli aristotelici credevano nei dogmi definiti dal loro Maestro: gli «ipse dixit» riferiti allo Stagirita ebbero valore di verità per secoli. Parallelamente è proseguito, a dispetto degli aristotelici, un metodo sperimentale praticato da filosofi e scienziati che hanno fondato la loro certezza sul dato empiricamente dimostrabile, rifiutando ogni diritto alla logica pura della ragione. Ciononostante i razionalisti hanno ugualmente perseverato nella convinzione che ogni verità potesse essere razionalmente dimostrabile fino a credere di aver dimostrato anche l’esistenza di Dio.
Il mistico e poetico Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury e il lucido e spietato Renato Descartes hanno pensato, a distanza di secoli, di poter produrre quella prova dell’esistenza di Dio, che la tradizione ha chiamato «ontologica», fidando solo nella capacità del pensiero. Dio esiste: lo stesso concetto di Dio implica necessariamente la sua esistenza, l’essere di cui non si può pensare uno maggiore deve anche possedere necessariamente la prerogativa dell’esistenza, se no un essere analogo, con in più l’esistenza, sarebbe Dio in sua vece. La necessità logica era soddisfatta in questo modo. Quanto è valida la contestazione illuministica e kantiana secondo la quale l’esistenza non rappresenta di per sé una maggior perfezione? Non si è aggiunto così un dogma per confutare un altro dogma? Dobbiamo credere a Kant? E se invece l’esistenza aggiungesse a un essere una perfezione? Qual è la prova sperimentale contraria?
Abbiamo evidentemente fatto un salto logico, passando da un discorso che cerca la sua conferma nei luoghi della sola ragione, ad un altro che cerca conferme tangibili e sperimentali. Chi ha però stabilito che la sperimentazione sia indispensabile a garanzia di una verità? Anche questo è un dogma. Oggi stesso una gran parte della ricerca scientifica non può ancora basarsi sull’esperimento, penso soprattutto alla fisica: molto si basa su processi di induzione e deduzione logica. Per questo non sarebbe scienza?
Ma chi lo ha detto? Dobbiamo ritornare all’antico «ipse dixit»?

3.
Se teoricamente la scienza è quanto mai contraddittoria ed ambigua e la sua verità troppo spesso assomiglia ad una menzogna, perché non ci rivolgiamo dunque all’arte come più adeguato tramite verso la verità?
Le correnti artistiche possono, è vero, avere anch’esse i loro dogmi, ma ormai siamo abituati da sempre a considerarli affermazioni più o meno provocatorie di qualcuno che cerca di imporre il suo modo di comunicare secondo una delle possibilità d’espressione. I dogmi dell’arte si chiamano canoni. Da Policleto in avanti, artisti singoli, botteghe e scuole hanno dato i loro canoni, ma essi sono così provvisori e caduchi che le regole che ne derivano sono ferree solo in apparenza. Dogmi estetici e canoni si scontrano e continuamente si infrangono. Se si osserva il divenire dell’arte, non si riesce neppure a capire se realmente essa abbia mai registrato progressi. Sono stati raggiunti in ogni epoca vertici altissimi e ad ogni epoca sono susseguiti disorientamento e confusione. Nuovi linguaggi sono poi scaturiti, il tutto intrecciato indissolubilmente alle condizioni ambientali e sociali. Non si riesce neppure a capire se l’arte sia serva della storia, anzi addirittura vittima o se non sia piuttosto la sola che riesce ad esprimere nel modo più profondo il significato di un’epoca. Nell’arte sembra esserci maggior libertà, proprio perché i suoi dogmi sono così fragili. Ma quanto è vero che gli artisti e le correnti artistiche siano così legati all’effimero e all’immediato? Vi è addirittura chi pensa – e io sono fra questi – che alcune opere d’arte ed alcuni artisti abbiano raggiunto l’assoluto. Non so dire cosa sia l’assoluto, uso volentieri questo termine proprio perché è poco chiaro anche a me stesso; però è la sola parola che riesce forse a comunicare il concetto di qualcosa che «va oltre».
Nel suo significato più ovvio, filosofico e metafisico l’assoluto designa opere d’arte che sono immortali, hanno cioè conquistato quel grado d’immortalità che l’uomo riesce a concepire e che durerà quanto lui e poi scomparirà forse con l’esplosione di questo universo. Ciò non toglie che alcune opere resteranno immortali anche quando non saranno più viste ne udite da nessuno. Rimarranno come un ricordo, anche nel non ricordo, come una traccia dell’essere. Resteranno nella memoria dell’essere, perciò godranno di un’immortalità che trascende il ricordo che se ne potrà avere. Come si può dunque sostenere che l’arte sia legata all’effimero, che possa vivere solo lo spazio di un mattino, per poi appassire e lasciare spazio alle altre rose che fioriranno? È anche vero che l’arte vive nel caos e del caos, si estrinseca nel quotidiano sebbene tenda a superarlo. Questa sua interna contraddizione potrebbe essere ciò che la renderebbe la più adatta ad esprimere la situazione del mondo quale è. Io penso che sia così, sebbene sappia che il mio amore per l’arte mi fa spesso vaneggiare. Le espressioni artistiche, ad ogni modo, traducono in linguaggio un mondo e si fondano su di una visione dello stesso mondo che esprimono. Le regole esplicite, le discussioni estetiche, le elucubrazioni poetiche, non sono altro che vezzi e corollari.
Una corrente artistica o una singola opera esprimono comunque una weltanschauung proprio come la scienza e la religione. C’è di fatto qualcosa di diverso? La verità che l’arte presuppone è forse meno rigorosa? Io penso proprio di no; ma so di essere parziale e metto in guardia chi mi legge: semplicemente credo che sia più profonda, vada più addentro nel mistero, sveli più di quanto non facciano le scienze e le teologie.
La verità che l’arte presuppone non è più degna ne meno degna. L’arte è forse emotività, ribellione, fantasia; ma è anche regola, sottende un’ipotesi di vita, di uomo e di mondo, che lo si voglia o no. Anche gli artisti come i filosofi, gli scienziati e i teologi debbono partecipare di un sistema riconoscibile, infatti se non sono riconoscibili, neppure sono.

4.
È ora il momento di parlare di filosofia: quell’attività dello spirito che viene ritenuta più ponderata e pacata, malgrado le accese discussioni da cui è sempre stata caratterizzata. La filosofia nell’opinione comune, ha un che di esangue, idea spesso rafforzata dalla burocraticità con cui molti pseudofilosofi si esprimono. I filosofi dovrebbero essere i saggi che guardano il mondo, lo comprendono e lo raccontano. A chi? Non si sa. Purtroppo, da quando la filosofia è insegnata nelle scuole di stato i filosofi parlano attraverso i professori di storia della filosofia che si sbavano addosso o che si rivolgono a gruppi di ragazzi annoiati e distratti. I professionisti della filosofia, dal canto loro, scrivono libri che vengono letti solo dagli «addetti», i quali, per lo più, non leggono più di quanto offra loro lo spunto per una trita polemica. C’è anche qualche filosofo che «sfonda» la barriera dei meschini circuiti universitari, ma diventa allora per lo più un Pulcinella al servizio dei grandi mezzi di comunicazione: si esibisce con libercoli facili, banali, in cui apparentemente la filosofia è tradotta in buon senso, ma in realtà si limita alla pura e semplice «chiacchiera», diseducativa e mercificata. Solo pochissimi riescono a sfuggire a tutte queste trappole e a dire parole graffianti, dure, o capaci di dare speranza senza falsi pietismi, riuscendo così a non tradire la loro natura di filosofi. La filosofia però si è smarrita nelle questioni editoriali e nella concorrenzialità da rotocalco, oggi forse un po’ più di ieri, benché questa commistione di serio e di frivolo la abbia sempre caratterizzata. Chi sono i filosofi? Socrate era un maestro del dubbio, Platone un politico, Kant ed Hegel erano scienziati, Nietzsche un poeta rivoluzionario. Marx è stato un filosofo? Francesco d’Assisi non ha fornito con precisa e puntuale chiarezza una descrizione del mondo e del significato dell’uomo? Le teorie di Smith e Ricardo sono soltanto economiche? Darwin e Einstein sono soltanto scienziati? Gli scritti di Paul Klee rappresentano puramente lo sfogo di un artista? Le lucide parole di P. P. Pasolini erano solo la voce di un poeta? Che cosa è la filosofia? È difficile dirlo, non meno che della religione, della scienza e dell’arte, anzi forse è più difficile ancora.
Potremmo dire che la filosofia non è mai esistita, che è sempre dissolta in tutte le attività teoretiche e pratiche dell’uomo. O anche si potrebbe ridurre tutto a filosofia. Alcuni hanno detto che la filosofia è metodologia, ma distinguere il metodo da ciò di cui deve essere metodo è un puro delirio: il metodo non esiste al di fuori di ciò che cerca di sistematizzare. La stessa scelta di un metodo piuttosto di un altro è già una scelta filosofica, che precede il metodo stesso. Diventa allora una scelta esistenziale analoga alle scelte dell’arte, delle scienze e della religione. La filosofia sarebbe allora solo un tentativo di esprimere con coerenza un pensiero; ma a questo punto, sembrerebbe esaurirsi nella logica.
Si potrebbe dire che non esistono nemmeno i filosofi, ma solo che ci sono uomini di pensiero come Aristotele, o uomini di azione come Lenin ai quali viene riconosciuta o negata di volta in volta la qualifica di filosofo. I teorici delle varie brigate, rosse o nere, sono filosofi? Perché no? Chi ha detto di no? Gli studenti annoiati che cercano di imparare le formulette della libresca storia della filosofia, hanno torto quanto pensano : «Ma i filosofi sono tutti imbecilli?» Malgrado tutto bisogna rispondere che non è così, che gli imbecilli sono loro e taluni loro insegnanti: non sempre i giovani sono il sale della terra.

5.
La filosofia, giustamente, nel tentativo di trovare una propria identità e di difenderla, ha costruito talora sistemi ferrei che hanno tentato di mantenere soprattutto una loro coerenza interna. Hanno parlato del mondo, della vita, dell’amore, della morte, dell’arte, della scienza, della religione e della stessa filosofia, dello spirito assoluto, di un tutto che non coincide con il niente e che significa, in questo caso, molto, benché resti fuori ancora molto altro… Qualcuno ha pensato che questi sistemi rischiavano di essere troppo compiaciuti narcisisticamente di se stessi e tronfi, quindi incapaci di cercare davvero la comunicazione con l’altro da sé. In parte ciò è vero e per questo c’è stato chi ha sentito il bisogno di enunciare il concetto di pensiero debole: un pensiero che non crei grandi sistemi. Di fatto il pensiero debole non sembra neppure essere un vero e proprio pensiero, ma piuttosto una successione di parole che trova la propria coerenza soltanto nel pettegolezzo; meglio se rivolto contro il cosiddetto pensiero forte. La filosofia si propone così come ciancia, più inconsistente che mai, dal momento che un pensiero forte non è mai esistito davvero.
La filosofia è sempre stata pensiero debole perché non ha mai davvero saputo trovare una sua identità. Il pensiero che si autodichiara debole non fa che affermare questo scacco e questa mancanza.
Quello che è in parte riuscito ad arte, scienza e religione non è mai riuscito alla filosofia. I filosofi hanno guadagnato un’identità solo come personaggi da commedia e nei programmi ministeriali.
La filosofia è sempre stata un pensiero debolissimo, come sono deboli tutti coloro che non hanno identità. La crisi di identità degli individui mette in forse tutta la persona: il genere, l’età, la qualità, la quantità. Un uomo in crisi di identità non sa dove è il suo centro e non riesce ad agire nel mondo e neppure ad entrare in rapporto con se stesso; il suo pensiero è debole, debolissimo.
Lo stesso vale per tutta la filosofia, che, però, proprio in questa debolezza ha la possibilità di trovare la sua forza; perché non morirà mai, finché qualcuno avrà il coraggio, di pensare e di parlare.
Ho parlato di sistemi scientifici, religiosi, artistici e filosofici; ho detto che nella loro ambiguità tutti tentano, volenti o nolenti, di proporre una visione del mondo. Alcuni partono dal mondo e vanno verso l’uomo, altri viceversa. L’antropocentrismo è inevitabile per l’essere umano: pensare fuori della mia testa, del mio corpo non mi è possibile.

6.
La psicoanalisi freudiana ha diviso la persona in Io, Es e Super Io; una parte della successiva psicologia dinamica ha scelto l’Io per farne il centro della sua ricerca. Personalmente preferisco far coincidere l’Io con l’individuo nel suo insieme: così vuole la nostra cultura, così siamo abituati da sempre. Con la parola io si esprime al meglio una realtà molto ricca. Io sono io, dalla testa ai piedi, l’io non è dentro di me, ma io sono l’io. Ogni sistema quindi coincide sempre con l’io o gli io che lo hanno pensato.
Il mio lungo lavoro clinico mi ha portato a conoscere situazioni umane disparatissime e talvolta tremende, eppure non ho mai trovato un io totalmente disgregato, una persona completamente senza io.
Esistono due forme patologiche temibili, che entrambe derivano da una sovrapposizione delle difese fondamentali del narcisismo e sado-masochismo. Una forma riduce l’io ad essere rigido, compatto, sterile perché quasi privo di parti, dall’agire limitato a pochi schemi elementari ripetuti disperatamente (forse la disperazione connota un nobile sentimento, preferisco quindi dire ripetuti banalmente): i soliti gesti, i soliti pensieri ogni giorno, ogni notte gli stessi sogni. Così da quasi sempre – nessuno nasce così povero – lentamente l’io si è andato impoverendo, si è rattrappito nella sua rigidità. Fortunatamente nessun uomo riuscirà mai a distruggere completamente la propria umanità; quindi, nascosto nel profondo del più misero e banale io, c’è sempre un universo di desideri, raggelato, castrato, assopito, anche se forse non verrà mai all’esterno. L’altra grave forma patologica genera un io totalmente disperso, spappolato, disarticolato, senza orientamento. Tanti pensieri che sorgono e si distruggono, tanti desideri senza forze. Persone che iniziano mille attività e poi le interrompono, che avrebbero mille fantasie, ma che non sono capaci di seguirle, e che talora giungono a un vero e proprio delirio di depersonalizzazione. L’io non è più un io, non è neppure un io molteplice, è solo una miriade di frammenti che vagolano indistinti. L’unico sentimento è la paura, il bisogno costante di nascondersi e di mimetizzarsi, per essere più cose possibili ed essere il meno possibile. Neppure queste due gravi patologie mancano però di una organizzazione dell’io. L’essere umano non può esistere senza una organizzazione di sé anche minima, senza strutturarsi in qualche modo, per miserevole o disperso che sia: una gestalt è sempre rintracciabile purché si abbia voglia di andarne alla ricerca.
Certo non è facile cogliere il significato di questi io; chi però si è assunto il compito e si è arrogato il diritto di essere terapeuta deve lavorare per sciogliere ciò che è rattrappito, per ricompattare ciò che è troppo disperso, aiutando chi è giunto alle soglie della disumanizzazione ad avere voglia di ricominciare, da uomo che ama e lotta, da uomo insomma.
Ogni visione del mondo per malata che sia è un continuo rimando tra l’io e il mondo che ha bisogno di una qualche coerenza. Non è possibile infatti, ne agli individui ne ai sistemi, vivere senza un po’ di coerenza. L’incoerenza assoluta coincide con l’impossibilità di essere, di desiderare, di esistere. Ogni desiderio implica una visione del mondo, che sottintende un’ipotesi di verità. Tutti gli esseri umani hanno una visione del mondo che, per quanto labile e vulnerabile, è riconducibile però sempre ad una linea di orientamento. È questa una prigionia per l’uomo? Può darsi, ma io credo che questo sia l’uomo; perché non ho mai incontrato uomini che fossero diversi. E impossibile sfuggire alla necessità di una minima coerenza del pensiero. Sebbene nessun sistema sia chiuso, ed ogni teoria sia formata di frammenti di teorie provenienti da altri sistemi, una forma tende però sempre a costituirsi e ad essere riconoscibile. La forma non è chiusa in se: la monade leibniziana è una fantasia, io credo che nessuno sia veramente un’entità chiusa, anzi ritengo addirittura che nessuno isolatamente potrebbe essere compreso al di fuori della relazione. Nessuno si esaurisce in sé, ma ciascuno si costruisce in forme ad un tempo leggibili ed interagenti. Questo vale per tutti e per tutto: siamo prigionieri e liberi, impossibilitati alla contraddizione e all’incoerenza assolute.

7.
Da quanto ho detto finora consegue però anche come sia difficile trovare un sistema di pensiero pienamente coerente. Un pensiero totalmente organico e al tempo stesso privo di contraddizione dovrebbe potersi esprimere con una sola parola che non so quale potrebbe essere. Però anche una sola parola ha in sé significati molteplici che potrebbero contraddirsi l’un l’altro. Subito dopo la possibilità della parola unica ci sarebbe quella della tautologia, ma nessuna tautologia è mai solamente tautologia: la ripetizione produce almeno una circolarità, quindi un mutamento e un divenire possibile. Può darsi che tutti i sistemi di pensiero non siano altro che gigantesche tautologie che però non sono totalmente coerenti. Non esiste un sistema che non abbia in sé la contraddizione da qualche parte.
Dopo essermi reso conto della confusione che ho creato vorrei fare una digressione forse utile a chiarire. La lingua italiana usa il termine coerenza in due diverse accezioni: la prima è quella di cui mi sono servito finora, ed indica l’armonica e consequenziale organizzazione logica all’interno di un sistema di pensiero. Nell’altra accezione il termine coerenza ha una connotazione accentuatamente morale, di perseveranza in una convinzione e di comportamento conseguente.
Quando io parlo di coerenza mi riferisco alla prima accezione. Un ragionamento assolutamente coerente sarebbe quello la cui proposizione conclusiva scaturisce direttamente come logica conseguenza del primo remoto punto di partenza senza alcun iato o scarto. Questa coerenza non può rivendicarla nessuno. Solo la singola parola potrebbe essere in questo senso davvero coerente; ma se il cammino prosegue e la ricerca si fa ardita, la contraddizione diviene inevitabile. L’incoerenza è costitutiva del pensiero umano quanto la coerenza. Chi pensa, procede per balzi intuitivi, ben diversi dalle idee chiare e distinte. Questi balzi scavalcano abissi la cui profondità non è misurabile. Ogni sistema è ricco di contraddizioni e procede per balzi logici. Gli esempi potrebbero essere infiniti, attinti dalle antiche teologie o dalle più moderne estetiche. L’esempio più chiaro è però secondo me ricavabile dalla lettura delle righe cha ho finora scritto. Può essere un mio limite tanta contraddittorietà, ma non è che un problema di quantità, non certo di qualità.
Le religioni positive, quelle che hanno il coraggio di esporsi, ( non quelle che un po’ vilmente rimangono chiuse nel cuore degli uomini, che preferiscono inventarsi un dio e una religione personali, circoscritti e silenziosi ) che hanno il coraggio di proporre ad alta voce i misteri della fede, esprimono l’accettazione dell’impossibilità di andare oltre. Nondimeno: è legittima la pretesa di salvezza nella fede, sia pur basata su piccoli dogmi, su tenere tradizioni, o è più giusto pretendere di andare oltre quel limite rischiando magari lo smarrimento?

8.
Ho cominciato parlando di religione e con essa concludo. Nessuno creda che la religione, per quanto positiva, basata su dogmi e riti, non sia anche ricerca. Anche le più stantie formulette non sono solo inerti frasi. In esse c’è un possibile senso della vita.
Concludendo: è più importante la coerenza o l’incoerenza per un sistema di pensiero? La verità dove si nasconde? È molto facile e riduttivo affermare che coerenza ed incoerenza convivono in ogni pensiero.
Senza la coerenza infatti nulla sarebbe identificabile e riconoscibile, senza l’incoerenza però non sarebbe possibile procedere, poiché il ragionamento umano non è in grado di procedere esclusivamente per idee chiare e distinte. Nella contrapposizione dialettica di questi opposti un pensiero può esprimere una visione del mondo, può distendersi verso gli altri. Non bisogna avere timore ne dell’incoerenza ne della coerenza; bisogna solo temere la coerenza che diventa gabbia e l’incoerenza che diventa delirio spontaneista. Mi viene alla mente la possibilità di usare il termine di coerenza nella sua seconda accezione: di fedeltà ai propri principi esistenziali; cosa difficile quanto più è contraddittorio il sistema di valori cui facciamo riferimento.
Questo della coerenza come fedeltà sarà oggetto di una indagine successiva, per ora resta in me l’esigenza profonda di cercare di esprimere, anche nel quotidiano vivere, quello che vado dicendo, la mia filosofia, la mia scienza, la mia arte e la mia religione; accettando, senza eccessivo turbamento la contraddizione che è in me e fuori di me. Sembrerebbe allora che io riservi alla coerenza il diritto di supremazia in campo morale, ma qui si ferma per ora il mio dire; anche se il cammino è da riprendere.