Archivio di agosto 1987

Psicoanalisi contro n. 35 – A capo scoperto

sabato, 1 agosto 1987

È inutile andare alla ricerca del significato etimologico della parola arte; è inutile perché sarebbe troppo facile e sarebbe ozioso perché non porterebbe a nessuna conclusione. Ogni parola esprime un concetto che si evolve nel tempo; le parole sono instabili come gli esseri umani: oggi stanno a significare una cosa, domani avranno un altro significato e in futuro potranno averne un altro ancora. Oggi la parola arte designa un gruppo di attività umane abbastanza identificabili, anche se non definibili con assoluta precisione. Gli artisti sono coloro che producono arte. Alla parola artista corrisponde un concetto difficile a definirsi, ma è un termine che nella pratica può venire utilmente usato. Tutti sanno chi è l’artista: è colui che produce l’arte. Tutti sanno che cosa è l’arte; ma nessuno riesce a definirla.

2.
Se si parla di arte bisogna distinguere almeno due categorie: una è quella dell’arte colta e l’altra è quella dell’arte popolare. L’arte colta ha una sua storia, che si ritrova sui testi che ne tracciano il percorso nei secoli: storia della musica, storia dell’arte figurativa, storia del teatro e così via. L’arte colta ha una sua importanza economica poiché sostiene la vita di istituzioni teatrali o musicali, tiene in piedi una parte dell’industria editoriale e permette il commercio di galleristi e mercanti d’arie. L’arte colta viene considerata l’Arte con la A maiuscola.
Accanto all’arte colta sopravvive un’arte popolare detta anche arte folclorica, fatta di tabernacoli affrescati, perduti tra le campagne dove sono effigiati Santi e Madonne con sguardi penetranti, mani anchilosate e rozze come quelle dei contadini, colori indecenti: rosa, azzurri, neri e violetti improbabili. È anche l’arte dei cantastorie che cantano seguendo ancora gli schemi di un’antica musica modale e che si servono di versi in ottava rima. Quest’arte è stata fiorente sia nel Nord sia nel Centro e Sud dell’Italia, ha prodotto opere splendide. L’arte colta, quella dei teatri e delle gallerie d’arte ha subito negli ultimi due secoli una grande evoluzione: Barbizon e Wagner, Webern e Der Blaue Reiter: linguaggi diversi si sono susseguiti, opponendosi gli uni agli altri, ciascuno affermando che i predecessori non avevano capito qualcosa, che il passato significava anche arretratezza culturale e che il presente soltanto sapeva trovare il linguaggio migliore perché più evoluto.
Nello stesso periodo, invece, l’arte popolare è rimasta immobile, costretta a trovare in questo suo deliberato rifiuto di ogni trasformazione la sua possibilità di sopravvivere in quanto espressione autonoma senza essere cancellata dall’incalzante processo di omologazione culturale. Questa immobilità dell’arte popolare ha fornito un alibi ai borghesi in cattiva coscienza. Etnologi, musicologi, antropologi ed etnomusicologi, specialmente di indirizzo pseudo-rivoluzionario, hanno potuto così esaltarsi davanti alla supposta purezza e verginità di affreschi votivi o di canti ispirati dalla venerazione per qualche Madonna miracolosa, proponendoli alla curiosità degli altri borghesi come fenomeni da baraccone, reperti sopravvissuti di civiltà estinte, senza nessun rispetto per la dignità umana e culturale delle realtà che si trovavano loro di fronte, mantenute in posizione di inferiorità culturale e anche poetica: i buoni selvaggi irrimediabilmente inferiori.

3.
Accanto a queste due forme d’arte se ne è venuta, dal diciannovesimo secolo in poi, affermando un’altra: l’arte di massa. L’arte di massa è iniziata coi romanzi d’appendice e coi melodrammi ottocenteschi, possenti e deliranti, spesso, nella loro capacità di coinvolgimento. Aristocratici, borghesi, proletari e persino sottoproletari erano affascinati da storie e da melodrammi espressi in linguaggi letterari e musicali a volte di orrendo cattivo gusto, ma altre volte di indiscutibile valore poetico e di raffinata musicalità. La compresenza nell’arte di massa della buona e della pessima qualità non è che una delle contraddizioni di ogni sistema culturale, mai riconducibile a schemi estetici assolutamente validi.
In seguito, l’arte di massa si è espressa soprattutto attraverso il linguaggio cinematografico esaltando e moltiplicando la possibilità di dirigersi a settori di pubblico sempre più ampi, raggiungendo addirittura tutti, con effetti epici senza precedenti. L’immaginario collettivo si è così da allora nutrito di fascinose figure di attori e attrici, belli e brutti, angelici e rudi, impomatati e sciocchi e le storie proiettate su grandi schermi in sale buie acquistavano la stessa valenza dei sogni. Ancora oggi chi racconta un sogno spesso dice: :«…a quel punto del film…»
Anche la musica si è diretta verso masse sempre più vaste, sono nati i complessi musicali e le grandi orchestre di musica leggera: talvolta proponendo musiche eccellenti, più spesso producendo pessima musica, rumori indecifrabili; e il percorso è giunto oggi alle grandi combinazioni video-musicali proposte negli stadi.
L’arte di massa si è venuta sempre più incuneando tra l’arte popolare e quella colta ed oggi ha un rilevante peso culturale ed economico. Dall’arte di massa gli artisti hanno qualcosa da imparare: per esempio a non essere troppo astrusi e troppo chiusi nel loro aristocratico olimpo e ciò vale sia per i raffinati artisti colti, sia per quei naif chiusi in moduli antichi, sempre meno comprensibili al di fuori delle isole culturali in cui stanno abbarbicati. L’arte di massa non solo riesce quasi sempre a coinvolgere trovando denominatori comuni sempre più ampi, ma è in grado di produrre opere quanto mai valide e significative per tutti.

4.
Queste tre forme di arte: colta, folcloristica e di massa, non sono nella sostanza molto diverse tra loro. L’arte colta e l’arte di massa seguono però l’evoluzione del gusto, mentre invece l’arte popolare-folcloristica è rimasta e si sforza di rimanere immobile, nel tentativo di mantenere una propria identità.
Anche se col tempo cambiano molte cose che stanno alle spalle delle rappresentazioni dell’arte, nella sostanza, i riti dell’arte mantengono i caratteri di sempre. Pur nella varietà e diversità delle culture e delle economie pare essere dominante una intrinseca unità dell’arte, che si poggia probabilmente sulla sostanziale identità degli esseri umani.
La cosa importante è a mio avviso cogliere questa doppia caratteristica di specificità e unità dei fenomeni artistici per tentarne una comprensione sempre approfondita, che non sia viziata da una tentazione di appiattimento, ma che non si arresti di fronte all’alibi di una diversità incomprensibile. I diversi significati che la manifestazione dell’arte può assumere in conformità alle diverse situazioni storiche, geografiche ed economiche, non sono in contraddizione col significato che l’arte ha per l’uomo in quanto tale.

5.
Io credo che tutti gli uomini e le donne siano simili: nelle fantasie, nei desideri e nelle paure. Credo anche che abbiano tutti una uguale dignità. Nel loro essere uguali in quanto uomini sono tutti diversi in quanto individui, ma la diversità non lede la loro integrità di esseri umani. Sentire le culture troppo diverse, troppo distanti l’una dall’altra e credere che un gruppo sociale non possa capire la cultura di un altro gruppo vuol dire sanzionare definitivamente il razzismo. Gli uomini sono diversi tra loro; è inutile profondersi in elogi sul valore dell’intatta natura del buon selvaggio; io ritengo che il buon selvaggio, se mai è esistito, si sia estinto ormai da tempo immemorabile, ancora prima che l’Illuminismo potesse cercare di interessarsi alla sua morale, alla sua cultura e alla sua arte.
Oggi siamo tutti simili anche nel desiderio di potere, nella smania di lottare per la supremazia di un sesso sull’altro; ma la lotta, che pure è una realtà, non deve impedirci di credere che sia possibile la comprensione tra gli uomini. Solo i vigliacchi si arroccano nella comoda posizione di chi si rifiuta di capire. A quegli antropologi che si ostinano ad archiviare reperti raccolti sul campo, che continuano a comportarsi come osservatori estranei alle culture che incontrano, io consiglio di buttare via gli strumenti di cui si servono, perché sono strumenti fasulli in mano a persone dalla falsa coscienza.

6.
Oggi l’arte che desta più perplessità in chi si ritiene colto, raffinato e anche politicamente accorto è l’arte di massa. La disco music, le canzonette, le telenovelas che coinvolgono milioni di persone, sono manifestazioni dell’arte o sono l’odierno «oppio dei popoli»? Io non credo che esista una forma di comunicazione che non sia anche oppio, cioè stordimento e suggestione, soprattutto se si rivolge ad un elevato numero di persone. Anche la Cappella Sistina, più o meno malamente restaurata, col suo incombere di nudi, di fiamme, di gesti magniloquenti, di occhi smarriti, suggestiona e turba, condiziona e anche plagia. L’arte è sempre strumento di plagio: risucchia l’uomo e lo porta in mondi stratosferici. Sofocle e Beethoven sono plagiatori sottili, che con il loro potere di suggestione hanno condizionato migliaia e forse milioni di persone.
Certo, l’arte di massa di pessima qualità, quella dei film di terz’ordine e delle brutte canzonette, ha influenzato e influenza ancor più dell’Edipo Re o della Grande Fuga per quartetto d’archi, e certamente in senso negativo.
Dove si nasconde allora l’arte? Un’opera d’arte è più grande se suggestiona più persone o se suggestiona solo i pochi privilegiati che ne capiscono il messaggio nascosto?

7.
Se l’arte è quella dei linguaggi ovvii, banali e tristi, essa è ben povera cosa, ci verrebbe da dire. Ma poi ci ricordiamo di un’esperienza che tutti abbiamo vissuto qualche volta. Un’esperienza che ha colpito molto quelli di noi che si sentono particolarmente disposti alle cose dell’arte e del buon gusto. È l’esperienza di certe sere passate davanti ad un televisore, incatenati ad una vicenda sciocca e zuccherosa, che però ci ha tenuti lì fermi, con l’animo turbato, insensibili alle voci che ci richiamavano o al trillo del telefono nell’altra stanza. Da una parte la nostra coscienza ci ripeteva che stavamo vedendo un filmaccio senza alcun valore estetico, dall’altra il nostro cuore commosso seguiva la storia di quella coppia in crisi, di quel biondo bambino, super-vitaminizzato e con gli occhi azzurri, che piangendo costringeva il papà a tornare sui suoi passi e a stringere sul suo robusto petto la madre e il figlio in un solo abbraccio, e se non proprio una lacrima ci colava sulla guancia, almeno un groppo si formava alla nostra gola. Come è possibile, ci siamo poi detti, che chi sa commuoversi per Tancredi e Clorinda, per la musica di Monteverdi, per le pagine di Musil si sia lasciato coinvolgere da qualcosa di così brutto e stupido?
Siamo forse sempre in cattiva coscienza? L’arte vera dove si nasconde e come si riconosce? A me viene il sospetto che l’equivoco possa nascere solo per la pessima educazione che tutti abbiamo ricevuto, per l’ipocrisia cui ci siamo abituati, per la rassegnazione alla banalità di tutti i giorni, che ci hanno formati e che costituiscono il nostro inconscio sociale. Eros, sovrano dell’arte, ci ha detto qualcosa; ma noi siamo ancora assordati dagli altri rumori e nella confusione non abbiamo saputo riconoscere la sua voce, per questo anche viviamo nella contraddizione.

8.
Noi siamo preda di condizionamenti antichi: messaggi contraddittori ci hanno costituito. L’amore per l’arte non consiste soltanto nel lasciarsi andare, perché allora ci è facile anche trovarci coinvolti dal ritmo volgare di una canzonetta o di un bacio idiota scoccato con l’accompagnamento di un arpeggio di violini. L’amore per l’arte è una conquista che va oltre i nostri stessi desideri: altri desideri debbono sorgere in noi. Siamo ancora troppo malati per saper amare solo ciò che è arte, solo ciò che è bello.
Ora lo voglio dire apertamente: arte e bellezza devono coincidere. Non ho finora mai avuto il coraggio di fare questa esplicita dichiarazione, ed ho sempre preferito limitarmi a dire che l’arte è espressività, che essa può rappresentare anche il brutto; ma quelli erano discorsi che facevo a capo coperto, come Socrate, quando cercava di convincere Fedro che è meglio cedere a coloro che non amano che a quelli che amano. Anche Socrate però, dopo essersi scoperto il capo disse al giovane che lo ascoltava attento, sulla riva del fiume, nel canto delle cicale, che, in verità, è bello amare chi ci ama. Io, col capo scoperto, affermo che dobbiamo lottare per imparare ad amare tutto ciò che è bello. L’arte coincide con il bello; può esprimere il brutto, ma nel farlo lo trasfigura e lo rende partecipe del bello. Il brutto non appartiene al mondo dell’arte. L’arte ha il privilegio assoluto di poter parlare del brutto e del male senza esserne intaccata. Come questo sia possibile lo dovete domandare ad Apollo.

35 – Agosto ‘87

sabato, 1 agosto 1987

La Notte

La musica di Mozart, purché ben eseguita non è solo degna di figurare nelle impettite sale da concerto o sulle scene dei teatri d’opera. Per la sua intrinseca divina bellezza essa non teme nulla: può essere eseguita in una birreria, come tante volte si è compiaciuto di fare l’Autore, oppure può essere pretesto anche per un divertimento.
Nel giardino di Villa Redenta è stato veramente commovente ed entusiasmante vedere ed ascoltare un gruppo di giovani che con passione, allegria e bravura, hanno eseguito una serie di pezzi mozartiani tra i più disparati, dall’Adagio K 411 al Lied della Libertà K 506, fino al Bona nox K 561.
Questo canovaccio musicale avrebbe dovuto essere il pretesto per costruire uno spettacolo che riproducesse una settecentesca kermesse in giardino; tutti gli esecutori, ed anche il direttore, erano in costume. Una stretta e lunga piattaforma si stendeva portando dal tempietto che orna il giardino fino alle due colonne che stanno davanti alla siepe. Finti ruderi, un pianoforte, candelieri e cuscini la arredavano. La storia che ivi si rappresentava è così sintetizzata sul programma di sala:
«Sera d’estate. Una radura. Gli escursionisti sono tornati e un innamorato infelice li osserva: hanno le ragazze al braccio, ma la sua non c’è. Non verrà più…» …e poi parla dell’ubriaco canzonato, della comitiva che banchetta, della «Infelice» che brucia le lettere e via dicendo…
Noi non abbiamo voluto leggere niente sullo spettacolo prima di assistervi. Volevamo, nella bella notte d’estate, lasciarci completamente andare alla musica del nostro Autore preferito e alle fantasticherie che sarebbero scaturite su di essa. Vedendo quel che succedeva sulla scena, noi abbiamo capito quest’altra storia: «La principessa di Slesia è disperata perché il suo innamorato, il Margravio di Boemia, è costretto a lasciarla per sposare l’Infanta di Spagna. Per consolarla gli amici la portano ad una festa in villa dove il duca di Sassonia si innamora di lei.
Insieme si avviano verso i prati per fare un pic-nic ed attraversando il paese si imbattono in Andrea Chénier deriso da un gruppo di giovani sanculotti.
Verso la fine della giornata in campagna, il banchetto degenera e le fanciulle sono terrorizzate da un esuberante cacciatore che le vuol tutte stuprare…» A noi è piaciuta molto di più la nostra storia, anche se riconosciamo di essere indubbiamente parziali. Siamo però sicuri che di quello che avveniva sulla scena poco si capiva e peraltro a nessuno poteva interessare. La musica di Mozart è teatrale di per sé e suggerisce azioni teatrali. Quella storia invece era appiccicata, senza nessun intrinseco legame con la teatralità mozartiana. Un passaggio improvviso dal maggiore al minore, un aereo contrappunto, un malizioso canone, la malinconia di due clarini, o la sacra semplicità di un arpeggio al pianoforte, possono richiamare bozzetti e gesti ben più ricchi e profondi di qualunque sovrapposta sceneggiatura. È senz’altro più appropriato sentire un basso ubriaco cantare per desiderio proprio e di due ascoltatori «Presso il culo è tutto scuro» (Anh 441b), che non fingere che sia ubriaco e costruirgli attorno una scenografia arcadica. In quel caso, i rumori della bettola darebbero assai meno fastidio di quanto non ne dessero gli infernali scalpiccii di suonatori, mimi e cantanti sul rimbombante impiantito di legno della scena.
B. Sauvat e E. Schleef non hanno avuto una idea più brutta o più bella di altre nel costruire queste «Storie di una notte di mezza estate» se non fosse che hanno incautamente richiamato la memoria di un altro grande; è chiaro che presi tra Mozart e Shakespeare non abbiano potuto che fare una meschina figura!
Ulderico Manani ha solo pasticciato la scena stupenda già pronta di quell’angolo di Villa Redenta con leziosità inutili.
Il direttore Alkis Baltas è stato eccellente, preciso, acuto e abilissimo nell’equilibrare i suoni.
I cantanti erano: Pamela Hinchman, Christine Ferraro, Luigi Petroni, Filippo Piccolo, Roberto Frontali, David Barrell e Gianni Socci.
Per fortuna, e vogliamo ribadirlo, la bravura dei musicisti della Spoleto Festival Orchestra e dei solisti del Westminster Choir travalicava la meschinità della messa in scena premeditata, realizzando proprio il miracolo di giovani ragazzi e ragazze che cantano, suonano, ballano la musica di Mozart per la loro gioia e per quella dei presenti.
Vorremmo nominarli tutti, ma lo spazio non ce lo permette. Sappiano solo che siamo usciti canticchiando anche noi «V’amo di core» con il pensiero rivolto a loro.

The Gospel at Colonus

Edipo è una figura davvero inflazionata e ormai ci ha letteralmente «disgustato».
Da quando Freud lo ha trasformato in un mito alla moda, tutti si sentono estremamente colti ed «in» se manipolano questa figura. Certo la figura di Edipo ed il suo mito sono antichissimi.
Sul programma di sala è scritta la solita frase «idiota»: recenti studi dimostrano come il mito di Edipo provenga dall’ Africa… può essere vero o falso, a noi non importa. Edipo è entrato nella cultura degli antichi Elleni ed è stato cantato da Sofocle. Poi il suo mito è stato ripreso e raccontato rozzamente da S. Freud e da tutti quegli sciacalli sciocchi che ci si sono buttati sopra in seguito.
Noi non crediamo nelle rozze distinzioni di chi pensa di poter rintracciare le «radici» delle culture bianche, negre o gialle che siano. Non può che farci sorridere, così, chi dice che questo gruppo sia andato alla ricerca delle origini, e per di più ritrovando il mito. Questo mito antico e meraviglioso non si sa donde abbia veramente origine, a dispetto dei «recenti studi».
Siamo assolutamente certi che Lee Breuer, elaboratore e regista dello spettacolo, abbia creduto di realizzare tutte le stupidaggini obbligatorie intorno ad Edipo, inventando una storia totalmente imbecille: alcuni ministri battisti raccontano ai loro fedeli la vicenda di Edipo, in modo talmente idiota che ogni volta che il canovaccio riaffiora ci si accorge che gli «intellettuali» di oggi non sono in grado di capire né gli antichi miti greci né gli africani. Sono solo capaci di far scorrazzare preti con lo strascico che dicono cose insulse.
Ma questa volta la musica ha vinto su coloro che fanno o hanno fatto i «recenti studi», su quelli che vogliono essere intellettualisticamente «alla moda» e in realtà sono «sorpassati».
Questo spettacolo a dispetto di tutto è bellissimo. Edipo, Antigone, Ismene, Polinice, Creonte e Teseo, persino il pastore battista, hanno dalla loro la forza della musica. Questa è antica e moderna allo stesso tempo.
Stupenda nei suoi moduli convenzionali, dice tutto a dispetto di tutti e riesce a raccontare la storia di un Edipo, cioè di un uomo, che lotta con il destino per poter morire tranquillo tra le braccia di un dio che è anche un tenero amante.
La musica di Bob Telson è bellissima, per questo vale la pena di seguirla nella sua vicenda.
Il primo brano per coro e voce solista ha un ritmo di marcia marcato e molto facile, che invita ad intraprendere il cammino.
Una bella polifonia guidata da due voci e accompagnata dal coro illustra l’arrivo di Edipo a Colono. Edipo ha una voce molto estesa, vibrante e ricca di possibilità espressive.
Ismene si annuncia con una melodia un po’ frivola con banalissimi intervalli tipici del gospel.
Tutta questa musica oscilla tra il gospel ovvio, con intervalli di terza, quinta e di quarta che cadono troppo presto sulla tonica rendendo lo un po’ noioso, e la invenzione estemporanea, ricca di modulazioni che raggiungono intervalli inconsueti, pieni di tensione emotiva ed imprevedibili esiti melodici ed armonici.
Non solo sono usati tutti i possibili moduli del jazz, anche i più ovvii, ma si arriva addirittura a climi debussyani come nella scena del rito dell’acqua, in cui gli accordi di terza maggiore si stemperano in una scala esatonale.
Dopo una specie di responsorio, tipico della tradizione del gospel, la prima parte si chiude su di un ampio ed esasperante accordo dell’organo su cui le voci lentamente ricamano.
La seconda parte inizia nuovamente con un andamento ritmico marcato.
Dopo l’arrivo di Polinice, personaggio più recitato che cantato, è la volta di un bel duetto tra le due sorelle Antigone ed Ismene; una parla e l’altra la avvolge con una melodia diatonica che è sempre contraddetta da terze minori incongruenti col tessuto melodico.
Dopo un brano atonale si trova la pace nel tonalismo elementare di Sunlight of no light: accordi di settima e nona assolutamente sprovveduti, ma di grande efficacia emotiva.
Improvvisamente esplode un assurdo e meraviglioso episodio musicale: mentre la voce canta la melodia di Eternal sleep che gioca su intervalli consueti ed è assolutamente country, l’accompagnamento esplicitamente rock costringe la voce a terzine un po’ blasfeme.
Subito dopo l’alleluja, splendida melodia molto tesa con meravigliose modulazioni, un orrendo sotto finale esplode con un rock volgare, squallido e sciatto; ma il finale si riscatta con una melodia mistica di impareggiabile bellezza, intensa, profonda e tenerissima.
La comunità ha compreso la sorte di Edipo che non ha avuto paura di confondersi con il suo dio.
Gli esecutori solisti, complessi e coro, tutti bravissimi, rappresentano un ampio panorama della musica jazz negra americana.
In questo spettacolo eccezionale è la presenza della musica che si insinua dovunque: dal declamato al recitativo, al canto spiegato, tutto è sempre ritmato e musicale.
Peccato che l’amplificazione del Teatro Romano si è rivelata ancora una volta insopportabile.
Noi continuiamo a chiedere una maggiore professionalità in coloro che allestiscono questi strumenti infernali. Certo, questo è uno spettacolo da non perdere.

35 – Agosto ‘87

sabato, 1 agosto 1987

Christus

Di Leda Gys avevano probabilmente perso le tracce anche molti cinefili; questo «ritrovamento» al Festival dei Due Mondi di Spoleto è un merito della Sezione Cinema per conto della quale Fabrizio Natale e Fulvio Toffoli hanno riproposto tre film dell’attrice ed una mostra documentaria a Palazzo Collicola.
Giselda Lombardi (1892-1957) ha girato molti film muti tra il 1913 ed il 1929, quando si ritirò per dedicarsi alla famiglia (era la moglie di Gustavo Lombardo e la madre di Goffredo, della casa di produzione cinematografica Titanus).
La sua fu soprattutto una figura di interprete brillante e disinvolta, che si volle contrapporre a quelle «divine», sempre drammaticamente appese alle tende, che allora andavano per la maggiore.
In Christus la vediamo invece in un ruolo sacrale e drammatico: quello della Madonna. Il film, del 1916, segue la storia di Cristo dall’annunciazione fino all’ascensione; è diviso in tre blocchi ed in tantissimi episodi. Il regista Giulio Antamoro e gli sceneggiatori e soggettisti hanno inteso riprodurre quasi tutta l’iconografia cristologica della storia dell’arte italiana, ottenendo in alcuni momenti un discutibile esito di tableaux vivants. Fortunatamente lo strumento cinematografico ha spezzato questa fissità programmatica in mille frammenti, originando scene ed episodi non banali, talora intensamente patetici o fortemente drammatici.
La macchina da presa nelle mani di Antamoro è strumento già allora dalle ricche possibilità; così è riuscito a cogliere ed a restituire al meglio particolari minuti e grandiose panoramiche di masse.
Tra lo stuolo di attori più o meno convenzionalmente bravi, abbiamo apprezzato moltissimo l’interpretazione del personaggio di Barabba, reso con bella originalità in chiave quasi grottesca. Il Gesù di Alberto Pasquali al contrario è risultato quasi sempre ottuso e fisso.
Leda Gys, nelle pochissime scene in cui ha fatto la sua apparizione, non ha avuto molte possibilità; è riuscita tuttavia a dare un ritratto di Madonna abbastanza sfaccettato: lievemente giocosa nel bozzetto iniziale dei due sposi di Nazareth, da rileccato santino nelle scene dell’infanzia di Gesù, e infine, dopo un persistere di stereotipe espressioni drammatiche nella Passione, è stata capace di sciogliersi in un quasi convincente pianto. Le musiche eseguite dal vivo da componenti dell’ Unione Musicisti di Roma, diretti dal Maestro Gino Peguri, prevedevano l’uso di un coro, un harmonium (un organo elettrico in realtà) e due pianoforti. Composte da Don Giocondo Fino per la prima romana, rivelano un compositore dalla buona stoffa: mai banalmente onomatopeiche tendono piuttosto a sottolineare atmosfere ed emozioni. La parte vocale si articola in un semplice contrappunto, lievemente popolaresco e tradizionale. La parte orchestrale ricorda spesso le atmosfere di Respighi, sebbene non siano assenti tratti chiaramente riconducibili alla coeva musica per operetta. Il pubblico della prima di gala, al Teatro Nuovo, le ha applaudite, insieme con il film.

35 – Agosto ‘87

sabato, 1 agosto 1987

Ballet Eddy Toussaint de Montreal

I l balletto di Eddy Toussaint di Montreal è presente al Teatro Romano con due programmi. le musiche del primo di essi sono particolarmente impegnative, visto che i loro autori sono Bach, Albinoni e Mozart. Mettere delle etichette ad una scuola di danza (Toussaint ha anche una sua scuola vera e propria e ci tiene ad essere riconosciuto come maestro) è sempre difficile e un po’ inutile e se definiamo la sua una danza classico-moderna lo facciamo sapendo che significa poco; allora aggiungiamo che sotto il solido impianto classico si vede una ricerca di moduli personali e l’influsso della moderna cultura della danza.
Cantates è una coreografia del 1978 e, come tutte le altre in programma è firmata dallo stesso Toussaint, cittadino canadese di origine haitiana. Sulle musiche della cantata bachiana si sviluppa un’azione dapprima corale, di un gruppo di nove danzatori, che Sylvain Labelle ha pensato di vestire con un superfluo, ampio e lunghissimo perizoma bianco. Dopo una serie di passaggi molto elaborati, arricchiti da una gestualità ingenuamente religiosa, nasce un episodio solistico danzato da Mario Thibodeau con grande temperamento, tecnica molto precisa e bel dinamismo acrobatico. La coreografia si conclude, coralmente, dopo aver mantenuto un andamento ritmico di grande precisione, attento al discorso musicale, cui i movimenti e i gesti, se pure talvolta convenzionali, facevano continuo riferimento.
One simple moment del 1979 è un passo a due di alta scuola, come merita la bravura di Anik Bissonnette e Louis Robitaille, capaci dei passaggi più delicati e aerei, ma anche di esprimere appassionata sensualità, con la fusione dei movimenti dei corpi intrecciati. Calligrafismo prezioso e sensibilità interpretativa sostengono continuamente un discorso che si sviluppa in figure spesso significative, sempre interne ad una cifra stilistica riconoscibile come linguaggio danzato. Una sentimentale e lenta musica di Albinoni costituiva la trama su cui i due hanno costruito i loro preziosi disegni.
Il Requiem di Mozart ha segnato con la sua potente e drammatica presenza lo svolgersi dell’ultima coreografia, del 1985, forse stilisticamente meno lucida delle precedenti. Il dolore e il sentimento della morte hanno ispirato a Toussaint un lungo poema drammatico, dove però spesso l’ansia espressiva prevarica il bisogno di chiarezza; così il linguaggio è più composito, gli effetti vengono anche da un’espressività più esteriore. Lo provano il grande uso delle luci e il ritmo non sempre ordinato con cui le scene si succedono, la prolissità, l’affollarsi dei quadri e delle combinazioni. Louis Robitaille e Anik Bissonnette, Denis Delude, Sophie Bissonnette e Mario Thibodeau sono stati sempre all’altezza; il resto della compagnia, invece, ci pare abbia risentito, talvolta, delle complicazioni coreografiche.
Lamentiamo ancora una volta il pessimo sistema di amplificazione del Teatro Romano, che deturpa le musiche e che in Mozart ci ha fatto particolarmente soffrire.

35 – Agosto ‘87

sabato, 1 agosto 1987

Incontri musicali

Martedì 30 giugno

Tra gli incontri musicali a cura di Spiros Argiris e Wilfried Brennecke, il concerto pomeridiano di martedì è stato uno dei più bei concerti che noi abbiamo sentito a Spoleto, non solo quest’anno, ma negli ultimi anni del Festival. Il merito di questo va tanto alla bravura degli esecutori quanto alla bellezza della musica eseguita.
Il Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen, composto nel 1941 in un campo di prigionia tedesco, prevede una compagine strumentale non consueta: violino, violoncello, clarinetto e pianoforte.
A noi piacerebbe poter ascoltare questa composizione eseguita tutta di seguito, senza pause tra un movimento e l’altro, che disturbano poiché i silenzi interni che si insinuano tra le note, formano un disegno ritmico che ha quasi la stessa funzione di un quinto strumento, disegnando di fatto un contrappunto quanto mai articolato.
Il quartetto inizia con una elegantissima melodia del clarinetto, accompagnata da accordi ininterrotti del pianoforte e dal sommesso ondeggiare degli archi. Segue un breve momento di lotta tra gli strumenti, che si risolve sulle opalescenti sonorità, ancora degli archi, mentre il clarinetto tace. Sopravvengono accordi ossessivi del pianoforte, ciascuno dei quali mette in evidenza una nota armonicamente estranea…
Abbiamo iniziato un tentativo di analisi fatto a memoria, appena usciti da S. Eufemia, ma ci siamo accorti che il lavoro minacciava di essere troppo lungo e faticoso, senza la partitura sottomano, perciò lo abbiamo interrotto. Diciamo soltanto che tutto il quartetto è un susseguirsi continuo di stupende idee musicali, con sonorità tese fino allo spasimo; talvolta ricco di splendide melodie di ingenuo tonalismo, altre volte le tonalità sono sovrapposte e la serratissima tessitura ritmica viene perennemente e puntualmente contraddetta.
I riflessi della musica del Novecento si fanno sentire tutti e vi si trova persino un brandello di jazz freddo; ma tutto è personalissimo e la cifra di Messiaen è sempre riconoscibile.
L’interpretazione superba ha rivelato un accordo sbalorditivo fra i quattro strumenti, frutto indubbiamente di un serrato lavoro d’insieme.
Non una sbavatura: le pause erano anch’esse scelte con precisione. Le sonorità così varie erano cesellate con un’abilità che non è facile trovare. Non c’era mai un momento di sdolcinato autocompiacimento; la musica scaturiva dagli strumenti come se fosse stata eseguita da una sola persona; non un contrasto interpretativo, non una sopraffazione; l’intonazione di tutti era ammirevole.
Meraviglioso il suono del clarinettista Hans Deinzer, ora funambolico, ora stupefatto, capace persino di emettere suoni quasi metafisici.
Il violinista Saschko Gawriloff era impareggiabile nel trovare sonorità di viola, con coloriti di volta in volta smorzati o decisi. Il violoncello di Siegfried Palm, intonatissimo, cantava in modo strabiliante e sapeva anche precipitarsi nei momenti dinamicamente concitati, sempre con sciolta naturalezza.
Bravo quanto i suoi compagni il pianista Bruno Canino, quasi umile in certi momenti, attento a portare sulle sue «spalle armoniche» gli altri tre: con le mani in perfetto equilibrio traeva dal pianoforte suoni sempre coloratissimi.

Giovedì 2 luglio

Il programma di giovedì prevedeva all’inizio due interessanti brani di Liszt.
Il primo Die Trauergondel è quasi terribile per il suo tonalismo esasperato, ossessivamente ribadito con un espediente usato da Liszt anche altre volte: quello cioè di arrivare fino alle soglie della tonica, costringendo l’orecchio a sentirne spasmodicamente l’esigenza; succede, per esempio, che una chiara mediante scenda alla sopratonica, causando l’attesa della tonica, ma il compositore, a questo punto, senza ricorrere ad espedienti come la cadenza, evitata o d’inganno, eccetera, piomba su di un accordo assolutamente inaspettato e poi, con sottile sadismo, prepara una nuova risoluzione tonale, che ancora non porterà a termine, e così via.
La pace sarà raggiunta da una sola piccola, indifesa nota, al termine della composizione. L’esecuzione di B. Canino è stata precisissima, sebbene un po’ dura, quasi spigolosa.
Festspiel und Brautlied è una pagina fastosa, tratta dal Lohengrin di Wagner.
Canino sembrava la suonasse a «prima vista»: alcuni accordi risultavano proprio sporchi e pestava in modo indecente con la sinistra, mentre avrebbe fatto meglio a suonare più piano con la destra.
Lo stesso pianista si è poi cimentato con la Sequenza IV di L. Berio: un brano assolutamente idiota nella sua frivolezza salottiera, monotono e ripetitivo, che cerca di trovare un senso aggrappandosi a un suono dal significato quasi di pedale. L’esecuzione è stata magistrale e Canino ha cercato di tirare fuori quel poco che in Berio non c’è. Les mots sont ailés, sempre di Berio, per violoncello solo, inizia con una lunga serie di intervalli, quasi le note avessero paura di toccarsi; poi due bicordi danno l’avvio ad un lavorio più complesso. Anche questa non è che vuota chiacchiera salottiera. Sigfried Palm è stato, per quanto gli era consentito, mirabile.
Rima di F. Donatoni, per pianoforte, si articola in due sezioni: la prima è un gradevole ballabile, sincopato, da piano-bar, a note e accordi staccati, che si conclude con un dinamico «boogie-woogie» un po’ sghembo; la seconda sezione è un graziosissimo gioco contrappuntistico, ben costruito, tutto infiocchettato di trilli. L’esecuzione superlativa di Canino ci ha lasciato ammirati.
Il pianoforte ancora è stato protagonista dell’ultima parte del pomeriggio musicale con due pezzi di Liszt. Richard Wagner-Venezia è una successione serrata di splendidi accordi e meravigliose modulazioni.
Scherzo und Marsch è dapprima un fuoco d’artificio sbalorditivo per l’equilibrio formale, e poi si trasforma in una marcia apparentemente compatta, nella quale continua però a serpeggiare l’inquietudine armonica. Canino è stato impareggiabile: fluido, equilibrato e robusto.

Domenica 5 luglio

Ci era assolutamente sconosciuto il Quartetto per flauto, oboe e due clarinetti, con accompagnamento di pianoforte di A. Ponchielli, che ha aperto la serata. Non lo abbiamo trovato entusiasmante, soprattutto perché il compositore lombardo non dimostra qui una buona capacità di strumentazione: ha messo infatti malamente insieme le sonorità dei quattro fiati. Tutto il brano è una inconsapevole caricatura dell’opera, con balletti, arie e gorgheggi, tanto è vero che, ad un certo punto, è arrivata persino una stecca. A parte ciò, il pezzo è stato suonato con molta perizia e una leggera ironia da: Donna Orbovich (flauto), Linda Nicklos (oboe), Giselle Stancic-Henry e Sherry Apgar (clarinetti), Paolo Bordoni (pianoforte).
Con adeguata precisione, Paolo Bordoni ha poi eseguito, dello stesso autore, la Cantata a Gaetano Donizetti, consistente in un preludio e una elegia funebre: il primo una melodia schematicamente accompagnata; la seconda ondeggiante tra il macabro e il malinconico.
Il mezzosoprano Kiki Morfoniou, con voce precisa ed espressiva, ha cantato successivamente il poemetto lirico di O. Respighi, su versi di P.B. Shelley, Il Tramonto insieme al quintetto d’archi composto da Fernanda Selvaggio (violino), Gwendolyn Evans (violino), Felicia McFall (viola), Dann Schab (violoncello) e Antonio Rodriguez (contrabbasso). Un lungo melodiare di sapore pucciniano cui si aggiunge la bella e ricca presenza degli archi.
Le ottime voci del Westminster Chamber Choir, dirette da D.J.Nally si sono cimentate con estrema bravura in due brani corali di Carlo Gesualdo (1560-1613), che hanno costituito un piacevole intermezzo.
Infine è stato proposto il Quartetto in mi minore per archi di G. Verdi, che non viene quasi mai eseguito; ci ha fatto piacere poterlo riascoltare, anche se forse ne avevamo un ricordo migliore.
L’allegro inizia con una bella melodia e prosegue robusto, denunciando però un’eccessiva paura della cantabilità. L’andantino è composto di frammenti più o meno ampi di melodie imprigionate da un’austera struttura armonica. Nel prestissimo una lunga e banale melodia è inserita tra due episodi concitati. Lo scherzo-fuga finale è decisamente brutto e pasticciato, ma si sa che Verdi non amava il conrappunto.
G. Verdi, per la troppa paura di essere «verdiano» non è stato capace qui di costruire nient’altro.
Anche l’esecuzione, fredda e non molto precisa, ci ha lasciati insoddisfatti.

Concerti di mezzogiorno

Mercoledì 1 luglio

A questo concerto curato dal Maestro Menotti, abbiamo avuto la fortuna di imbatterci in un giovane artista italiano che pensiamo abbia un notevole talento: il violista Augusto Vismara, che ha aperto la mattinata musicale con la Sonata n. 1, op. 120, per viola e pianoforte di J. Brahms, accompagnato dalla pianista Silvia Cappellini.
Il primo tempo del brano è fatto apposta per mettere in evidenza la viola, al pianoforte è riservato un ruolo come di eco, talvolta sommessa talvolta decisa, anche se qualche volta le parti si invertono.
L’ampio melodiare sognante della viola, nel secondo tempo, si avvale di un elegante accompagnamento del pianoforte.
Il terzo tempo è danzante e sorridente e precede l’ultimo tempo caratterizzato dal bell’intreccio dei due strumenti che si sollecitano a vicenda. Vismara è stato bravissimo, seducente e profondo e la Cappellini ha svolto adeguatamente il suo compito.
Il baritono Peter Coleman-Wright e il pianista Piers Lane si sono cimentati nel lied Traum durch die Dammerung di Strauss e nel tripartito Don Quichotte e Dulcinea di Ravel. La sua voce è risuonata bella e pastosa nella languida melodia del compositore tedesco, ha trovato poi accenti adatti ad esprimere la parigina ispanità di Ravel. Il pianista ha collaborato con accurata incisività.
Il soprano Cheryl Barker ha cantato due lieder di Schubert: Gretchen am Spinnrade e Seligkeit, con una voce molto gradevole, intensa nel primo: una melodia leggermente drammatica con un accompagnamento pianistico circolare, che si è rivelata poi brillante nell’affrontare le strofette graziosissime del secondo, a tempo di valzer. Piers è stato, come prima, l’efficiente collaboratore.
Lo stesso pianista ha concluso il concerto suonando con belle e variegate coloriture quattro preludi di Rachmaninoff.

Domenica 5 luglio

Il Quartetto con flauto in re maggiore di W.A. Mozart, K285 che ha aperto il concerto di oggi, fa parte di quelle composizioni mozartiane, semplici solo in apparenza; proprio per questo molti esecutori le affrontano con spavalderia, combinando disastri insopportabili. Per esempio, nel primo tempo, articolatissimo, colmo di delicate giunture, basta la minima esitazione e tutto si affloscia. Riconosciamo che Paula Robinson (flauto), Robert Rinehardt (violino), Ah Ling Neu (viola) e Ramon Bolipata (violoncello) lo hanno affrontato con sufficiente umiltà. Certo, un po’ più di coloriture sarebbero state auspicabili. Nel secondo tempo, l’ampia melodia del flauto sul pizzicato degli archi è stata giustamente suonata non con il solito banale bel garbo, ma con una certa passione. Il finale, di un equilibrio perfetto, è stato eseguito con correttezza, anche se un po’ rigidamente.
Il successivo Quartetto in do minore op. 60 di Brahms ha un’ampia architettura in cui i rapporti tonali si collegano tra loro con bella coerenza in tutti i quattro movimenti. È un’opera drammatica e sentimentale. L’esecuzione di J. BelI (violino), S. Nickrenz (viola), C. Brey (violoncello) e J. Kahane (pianoforte) è stata efficace, nonostante alcune esuberanze del pianista.

35 – Agosto ‘87

sabato, 1 agosto 1987

L’Attico

La Regione Umbria, il Comune di Spoleto, l’Associazione Intercomunale di Spoleto, l’Azienda Promozione Turistica di Spoleto sotto gli auspici del XXX Festival dei Due Mondi e con la collaborazione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali hanno organizzato alla chiesa di San Nicolò la mostra L’Attico 1957-1987. Trenta anni di pittura, scultura, musica, danza, performance, video. La celebre galleria romana che nacque nel 1957 a un ultimo piano di piazza di Spagna per opera di Bruno Sargentini è stata fino ad oggi un punto di riferimento per la vita artistica romana. Tutto un filone culturale si è alimentato dell’arte proposta nelle successive diverse sedi di via Beccaria e di via del Paradiso da Fabio Sargentini, figlio di Bruno.
Anche il nostro secolo è stato caratterizzato da una serie di correnti estetiche in contrasto tra di loro e talvolta addirittura in aperta lotta. Questo vale ovviamente non soltanto per l’arte figurativa. Noi siamo molto diffidenti verso l’uso di espressioni come «arte di avanguardia» o «arte di rottura». Gli artisti ricercano, provano, alcuni nella fedeltà a una tradizione consolidata, altri preferendo una strada totalmente nuova. Noi pensiamo che non sia più coraggioso aderire ad un movimento piuttosto che ad un altro, ma riteniamo che possa essere ugualmente valida politicamente, poeticamente ed esteticamente la scelta di optare per la tradizione o per l’innovazione. Il grande Bach, per esempio, codificatore del linguaggio armonico, raffinatissimo ricercatore di originali costruzioni sonore, è stato considerato un conservatore e quasi un «rétro». Il pur grande Thelemann era assai più inserito nel dibattito, anche salottiero, della musica viva, d’avanguardia potremmo dire, del suo tempo. Ogni artista però, se lavora con sincerità e coraggio, è sempre un artista d’avanguardia, perché non ripeterà mai stancamente i moduli del passato.
È un grande merito della galleria L’Attico aver offerto spazi ad artisti che hanno così avuto l’opportunità di presentare opere per lo più inserite in quell’ampio filone, ispirato dal dada che ha originato l’informale, la pop-art, l’arte povera, la land art, il concettualismo, etc.
A S. Nicolò si può riflettere su di una panoramica abbastanza esauriente di trent’anni di esperienze artistiche romane ed europee.
Noi avremmo consigliato, se non lo avesse impedito il periodo estivo di vacanze, agli insegnanti di ogni ordine di scuole di portare gli allievi a visitare la mostra. Tutti ne sarebbero usciti senz’altro arricchiti anche da una diretta consapevolezza di che cosa può intendersi per ricerca artistica.
Ora diciamo, però, la nostra opinione: per noi la stragrande maggioranza di queste opere è cretina, dilettantesca, ributtante e reazionaria. Giustamente l’inconscio di chi ha allestito la mostra ne ha fatto un vero e proprio cimitero. Nei vari loculi sono inumati infatti i resti mummificati di qualcosa che non è mai stata arte, ma solo un frivolo tentativo di essere alla moda e di stupire i buoni borghesi, che, in genere, si meravigliano di fronte a quello che non comprendono; e la cosa non vale solo per il bourgeois di Molière! Certo questi sono tentativi ormai superati, anche se è male che non facciano più discutere. Chi crede ancora nelle performances di artisti sgambettanti come Gilbert & George? Chi può prendere sul serio il Cannone di Pascali? Queste forme d’arte però, erano reazionarie già allora perché erano rivolte soltanto a compratori e non si sforzavano minimamente di tentare un approccio e un dibattito con il grande pubblico. Quando gli artisti narcisisticamente si rinchiudono e si rivolgono soltanto a collezionisti, galleristi e colleghi, divengono servi del potere più bieco, che ha timore di gente che parli chiaro di libertà, di diritti, di poesia e d’amore. Questo rinchiudersi fa sì che i grandi mezzi di comunicazione possano continuare a diffondere la pseudo-arte che rende stupidi. Non esaltiamo certo i vari realismi delle dittature, anch’essi simili, sull’opposto versante, e ugualmente miranti ad ottenere la supina acquiescenza.
Vi è un punto di questa mostra in cui il nostro discorso è esplicato ancora più chiaramente di quanto non siamo in grado di fare noi. Davanti ai quadri di Magritte e Gentilini si capisce come l’arte, in qualunque epoca, possa essere dirompente e rivoluzionaria proprio perché affascinando con opere stupende, riesce a scuotere ed a spezzare il conformismo vile. Al confronto è volgare e insultante – non solo per le donne – il nudo di Sergio Ragalzi, o stupidamente futile la Margherita di fuoco di J. Kounellis, o avvilente la ferraglia Baluba bye-bye di J. Tinguely.
Speriamo che questo nostro parlar chiaro e dire le cose che sinceramente pensiamo forse anche sbagliando – senza però fumosi arzigogoli intellettualistici, possa stimolare tutti coloro che leggono queste pagine a visitare la mostra, a discuterne ed anche a rendere omaggio ad una galleria dalla fondamentale importanza per la cultura italiana contemporanea.

Afro

Non è importante che un artista rimanga fedele al suo primo linguaggio e lavori continuamente solo intorno ad esso. Non è detto, d’altra parte, che i moduli artistici e gli stilemi si debbano necessariamente evolvere fino a raggiungere esiti lontanissimi dalla fonte. Non occorre neppure che vi siano cataclismi perché il genio artistico si trovi in grado di creare forme del tutto nuove. Le teorie del naturalista francese Cuvier e quelle di Charles Darwin, in arte, possono convivere.
Nell’esame delle opere di un artista è forse importante vedere l’uomo con le sue dinamiche conscio-inconscio sbucare di dietro le sue realizzazioni?
Eppure qualcosa bisognerà ben trovare se non si vuole rimanere fermi al crociano enunciato di poesia e non poesia, per cui si direbbe dogmaticamente che quel quadro è bello e quell’altro è brutto, o tutt’al più che in quel determinato ritratto sono efficaci gli occhi e sbagliate le mani.
Cosa si deve cercare allora quando si osserva l’opera d’arte?
Ammesso che sia indispensabile cercare qualcosa, dovrebbe comunque essere l’opera che guida il fruitore nella sua ricerca, e d’altro canto bisogna almeno avere presente che nessuno cerca senza sapere già almeno un poco quello che vuole trovare. Ecco: la soluzione sta proprio in questo incontro tra lo spettatore che esige e l’artista che impone.
L’arte è vitale quando dice molte cose, con chiarezza, anche se il mistero da cui essa nasce le permette di essere quasi inesauribile.
Visitando a palazzo Rosari-Spada la mostra di Afro fino al 1952, a cura di Bruno Mantura e Patrizia Rosazza Ferraris, si ha l’impressione che l’esigenza dell’osservatore e le intenzioni dell’artista non si incontrino molto bene.
Noi pensiamo che questo mancato incontro sia una delle ragioni che hanno indotto il pittore friulano a scegliere il silenzio dell’informale, dopo aver fatto un estremo tentativo, nel periodo neo-cubista, di rinchiudere il discorso della forma in una prigione ferrea, pur nella sua concezione polivisiva.
Afro Basaldella nacque a Udine nel 1912 e morì a sessantaquattro anni, al culmine di una vicenda esistenziale ed artistica complessa, in cui fascismo e resistenza si intrecciano con arcaismo metafisico, espressionismo cubista, arte gestuale e orientalismo Zeno A noi non dispiacciono i suoi inizi, carichi di tutta la lezione della grande arte del passato, di cui egli si compiace persino di fare citazione, come nella Composizione del 1938 o nell’altro olio dello stesso anno Si fondano le città dove tanto i temi, quanto la tavolozza risultano piacevolmente retorici, in una finta umiltà, negata dalla preziosità del colore veneziano di cui tanto si è parlato. Questa retorica si esprime ancora in modo non sgradevole sulle tavolette de Le attività umane e sociali preparatorie al mosaico per il palazzo dell’EUR.
Insistiamo sulla retorica insinuantesi e sempre sconfitta perché ci pare di dover riconoscere ad Afro il merito di essersene liberato presto, anche se a caro prezzo, visto lo sforzo che gli è costata la ricerca poi di trovare la propria sicurezza in un linguaggio diverso. Ci piacciono anche i momenti di splendida esitazione pre-cubista di Pesci del 1947, Natura morta con carte da gioco e Natura morta con tenaglie del medesimo anno, in cui la sua pittura quasi sembra domare le nuove forme, ancora capace di parlar chiaro.
Nelle opere dopo il 1948, Afro sembra accettare la Babele dei segni, dei piani, delle sagome che nascondono la forma, ma non arrivano a negarla; esemplari in questo senso Concerto e Concertino del 1948, dove i colori, gli strumenti musicali, i fogli di musica richiamano con passione i temi della Natura morta del 1937 quando Afro non aveva paura non solo di parlare, ma neppure di cantare.
Fino al viaggio in America del 1950, Afro ci pare aver tentato per esplosioni successive e con stratificazioni pluridirezionali di conservare la capacità di parlare con un linguaggio suo. Dopo l’adesione all’informale e l’esposizione del Gruppo degli Otto del 1952 egli rinuncia all’unico linguaggio veramente suo: la forma.
L’astrattismo infatti per Afro non è una possibilità poetica; il colore, lo spazio di quadri come il Tiresia del 1975 gli sono totalmente estranei.
Questo esito è inevitabile per lui come per altri, poiché noi siamo convinti che la pittura non possa parlare che attraverso la forma, per misteriosa e indecifrabile che talora possa parere. Tutto il resto è silenzio.

35 – Agosto ‘87

sabato, 1 agosto 1987

RISTORARSI A SPOLETO

Sabatini

I due Farfalloni l’altra sera sono usciti molto delusi ed anche un po’ irritati dal ristorante Sabatini di Corso Mazzini.
Abbiamo seguito negli anni il lento decadere di questa cucina ed in quest’ultima visita abbiamo registrato il suo crollo definitivo. Quasi tutti i piatti, tanto i primi quanto i secondi, erano totalmente insapori e coperti da un denso liquame dolciastro a base di panna, sempre totalmente slegato dagli altri ingredienti. Ci siamo rattristati in modo particolare perché questo è uno dei posti più accoglienti e di buon gusto in Spoleto. È cortese e sollecito il servizio, sono belli gli ambienti e ben curati l’arredo e il vasellame; inoltre tanta signorilità di tratto è unita all’indiscutibile pregio di costi più che bassi, diremmo addirittura che mangiare qui costa poco.
Non c’è però discorso economico che tenga di fronte a piatti come le tagliatelle dello chef: un molliccio impasto di panna e verdure che si univa malamente a scialbe tagliatelle senza vigore; né erano migliori le tagliatelle al serpillo nelle quali l’originale e vivace profumo di quest’erba era completamente spento dalla stucchevole cremosità di una orribile salsetta rosata; noi ricordavamo con piacere gli squisiti strangozzi alla spoletina, ma questa volta, se pure abbiano rappresentato l’unico piatto dignitoso della serata, avevano perso molto dell’antico splendore.
Non cattivi abbiamo trovato i due piatti di pesce: una trota carnosa e un sapido, forse un po’ troppo salato, baccalà profumato e croccante; invece il tacchino con la salsa alle ortiche perdeva, a causa della panna e delle sottilette, tutto il potenziale che alla ricetta sarebbe venuto dall’uso di questa rustica pianta; il capriolo ci ha fatto letteralmente rizzare i capelli in testa: il povero animale sembrava essere stato surgelato nel medioevo e, malamente liberato dal ghiaccio, si presentava come un mucchietto di plastificati cubetti che nessuno aveva avuto il buon senso di mettere in una qualsivoglia marinata e che di certo non erano in grado di assorbire sapore da quella salsetta lenta e lattiginosa.
Più folli che mai i due dolci della casa, una melensa accozzaglia di frutta e uno svanito, ancora una volta pannoso, dolce dello chef.
La lista dei vini è sempre ben curata: sono infatti presenti alcuni tra i migliori produttori non solo umbri. Il bianco della casa era debole e allora abbiamo provato un Bianco d’Arquata ottimo, con un buon profumo di malvasia; un Rosato di Assisi, meno interessante però simpatico;
un Rosso di Assisi molle e’ piatto.
A giudicare dall’affollamento, il cuoco ha certo scelto la strada della popolarità, ma non quella del coraggio e dell’arte di cucina.

Trattoria del Festiva!

A Spoleto succedono cose pazze soprattutto durante il Festival. Volete mangiare un’ottima frittata al tartufo? Andate alla Trattoria del Festival di via Brignone 8, ma guardatevi bene dal mangiare o bere lì qualunque altra cosa. Gli antipasti misti sembravano fatti da un bambino, triangolini di pan cassetta raffermo, prosciutto secco e melone, fette di lonzino e le bruschette senza infamia e senza lode. I piatti di pasta erano terrificanti tortellini del peggior «sotto vuoto spinto», e non c’era differenza tra il sugo «alla bolognese» e quello al pomodoro, entrambi pessimi; gli strangozzi al tartufo e funghi suscitavano ilarità e sembrano riunire nel sugo tutti gli avanzi di cucina, immersi in un mare di untuosità, era assente solo la panna; che invece abbondava negli agnolotti al formaggio ed erbe fini, dal terroso ripieno. In questo ristorante sono molto previdenti, sembra infatti che incomincino a mettere le carni sulla brace fin dal mese di aprile, per poi servirle riscaldate ai turisti dei due mondi in giugno e luglio. Coi vini è stata una girandola da capogiro: prima un Panello di Caprai, così frizzante da far concorrenza alla coca cola, senza profumi o sapori, poi un Trebbiano dell’Umbria, presentato come vino della casa, squilibrato ed acido, e un imbevibile Merlot di Spello. Riconosciamo che il conto non è stato alto, ma, con la frittata, la più grande consolazione è venuta dalla gentile signorina che con garbo e simpatia ci ha assistiti.

Pic Nic

Già l’ubicazione della Trattoria Pizzeria Pic Nic, non è delle più felici, ai bordi della Flaminia, nel traffico e nella polvere. Per di più il servizio è distrattissimo ed i prezzi non sono neppure particolarmente bassi per un locale che ha queste caratteristiche di periferia sub-urbana.
Solo una cucina eccellente potrebbe spiegare l’afflusso dei clienti; invece non si mangia certo bene. Le microscopiche pizze, se pure ben cotte, sono poveramente condite, alcune totalmente insapori e altre solo piccanti. I primi piatti di strangozzi li abbiamo trovati davvero molto sgradevoli: pasta industriale, mal cotta, peggio condita con sughi indistinti, tra l’acidulo, l’unto ed il dolciastro. Le carni sono migliori perché la cottura, per lo più alla brace, non è sbagliata, mancano però adeguati contorni: siamo rimasti esterrefatti quando ci hanno portato, tra i secondi, una minestra di fagioli e cotiche, invero non cattiva. Il bianco della casa è molle e acido; tra i vini in bottiglia ci è capitato un bevibile Grechetto di Caprai e un Rubesco Lungarotti che, essendo del 1971, rivelava i segni dello strapazzo ed era morto, polveroso e con forte gusto di tappo.

La Pecchiarda

Un tempo noi avevamo parlato bene della Pecchiarda, l’antico ristorante di Via S. Giovanni 1; l’anno scorso in una nostra visita, ci aveva lasciato profondamente scontenti; perciò siamo tornati quest’anno molto diffidenti e preparati al peggio.
Sembravano confermare i nostri tristi presagi l’antipasto di bruschette e crostini, veramente stantii e rinsecchiti e il vino bianco della casa, molle e disarmonico.
Ha risvegliato invece il nostro interesse la proposta dei primi, tutti non di banale routine. Abbiamo voluto provare gli agnolotti col sugo di pomodoro e cipolla e li abbiamo trovati gustosissimi, con una buona pasta fatta in casa, sugo e ripieno ricchi di sapore, e al giusto punto di cottura. Anche le penne alla bersagliera erano appetitose, profumate di erbe e pomodoro.
La scelta dei secondi era molto varia; tra i tanti abbiamo gustato: una appetitosa spalletta di maiale, preparata con un’equilibrata salsa di capperi; un pollo alla cacciatora dal sapore vivace; il pollo alla Pecchiarda farcito, un gioiello di armonia e delicatezza; ed infine l’anatra favolosa, per la morbidezza della carne, il buon sugo tirato e non unto, e i prelibati crostini di regaglie.
Le verdure ai quattro colori, offerteci per contorno, erano uno stufato non dissimile dal provenzale «ratatouille».
Come si sarà notato, tutto senza la minima traccia di panna! Anche il fatidico tiramisù era fatto in casa, con criterio. .
Abbiamo già detto del vino bianco, il rosso non siamo stati in grado di valutarlo, perché era quasi ghiacciato.
Non sappiamo bene spiegarci perché un ristorante che ha in cucina una persona così valida non curi meglio qualche particolare! Le persone che ci hanno servito erano tutte molto gentili e simpatiche, con una leggera nota di malinconia.
Il conto è stato veramente molto basso.

Trattoria Dei Pini

Nell’affocata periferia spoletina, ai bordi della superstrada, in località Tre Madonne si nasconde la trattoria Dei Pini, tra un rustico razzolare di galline.
Noi pensavamo di avere oramai già raggiunto nei nostri vagabondaggi per i ristoranti di questi posti, il massimo dell’abominio; invece la vita ci ha insegnato che il peggio si può sempre incontrare; perciò di questo ristorante diremo soltanto che, per ora, è il peggiore in assoluto della nostra vita.
Seduti ad un grande tavolo comune, abbiamo cercato dapprima di ristorarci col bianco della casa, un aceto annacquato e zuccherato; poi sono arrivati i primi che abbiamo lasciato quasi interamente nei piatti poiché erano immangiabili: sabbiosi tortellini alla panna e tartufo, dallo strano sapore di caffé-latte; strangozzi annegati in una inverosimile brodaglia rossastra; tagliatelle Dei Pini acide per la panna cagliata.
Coi secondi la musica non è cambiata: la bistecca era la classica suola di scarpe, il bollito consisteva in due fettine piene di grasso e filacciose, sporcate da una ributtante salsa verde, e la viscida trippa era un putrido ammasso nauseabondo.
Se fosse stato possibile il vino rosso sarebbe stato ancora peggiore del bianco: succo di barbabietole all’alcol etilico.
Il profiterol doveva essere caduto in terra e poi ricomposto. Il prezzo, apparentemente bassissimo, è stato in realtà addirittura alto, non solo per la pessima qualità dei cibi, ma anche perché le materie prime erano di bassissimo costo.
Siamo usciti nell’afa pomeridiana disgustati, ma resi un po’ più saggi dall’esperienza vissuta.

La Macchia

Difficile da trovare purtroppo il Ristorante Pizzeria La Macchia, tra i boschi della località Licina, ai margini di Spoleto! Se però riuscirete a trovarla avrete motivo di rallegrarvene. Per noi l’accoglienza è stata sorridente; il posto è bizzarro, ma non sgradevole e abbiamo assaggiato moltissime «sfiziosità» davvero ben preparate e appetitose. L’antipastone è una bella composizione di bruschette, canapè, galantine, prosciutto e fichi, melanzane, olive, piccoli tramezzini, e insalata di riso, tutto gustoso e fresco e una volta tanto ci ha permesso di godere del delicato profumo e del vivace sapore dell’olio umbro, quando è buono. I primi di strangozzi sono stati eccezionali e tutti senza l’ombra della panna; la pasta era fatta in casa davvero e i tre condimenti, agli asparagi, al tartufo, e all’olio, aglio e pomodoro, squisiti, anche se lo «scorzone» avrebbe potuto essere più abbondante. Per i secondi abbiamo voluto provare una insolita miscellanea: due buone frittate, una al tartufo e l’altra agli asparagi; discreti crostoni al prosciutto e tartufo. Le verdure gratinate erano non proprio ben riuscite perché un po’ bruciacchiate e acquose. Oltre a ciò abbiamo apprezzato gli splendidi calzoni ripieni di pecorino, maiale e stinco dalla pasta croccante e morbida e dai ripieni fragranti. Una prelibatezza è stato il pecorino fresco con le pere, mentre ci è sembrato ingenuo il Tiramisù messo in forma tra i biscottini. I vini bianco e rosso della casa erano l’uno fresco, aromatico, tipicamente erbaceo; l’altro brillante e vivace, di lieve stoffa e leggermente tannico. Il conto è stato adeguato.

Brevi soste

Noi siamo convinti assertori della superiorità del vino su ogni altra bevanda, ed anzi vi attribuiamo un carattere quasi sacro. Ciononostante abbiamo un debole per quei piacevoli miscugli comunemente chiamati «cocktail».
Spoleto che, grazie al festival, è diventata città dall’atmosfera internazionale, deve, a nostro avviso, sapere offrire agli ospiti anche queste bevande, miscelate con sufficiente professionalità.
Malgrado non sia stato facile siamo riusciti a tracciar una sorta di itinerario cittadino, percorrendo il quale, chi abbia voglia di una pausa ristoratrice potrà farla sorseggiando questo o quel cocktail, preparato da mani variamente esperte.
Al Bar Canasta in piazza della Libertà, che quest’anno abbiamo trovato un po’ distratto nel servizio, potrete bere un simpatico digestivo dall’orribile nome di Camicia nera, a base di liquore al caffè.
Da Vincenzo in corso Mazzini potrete farvi preparare dal giovane Alessandro un classico Casanova, buono per la tarda serata, e senz’altro migliore degli altri che il locale può offrire.
Al Bar Tebro in via della Filetteria, Luciano, dopo le due del pomeriggio, prepara con disinvoltura e correttezza diversi «classici», miscelandoli con gesti appropriati che rivelano buona capacità nel maneggiare gli utensili e nel dosare gli ingredienti. Noi vi consigliamo però di provare il Cocktail della casa a base di spremuta di arancia e di due diversi «vermut», aperitivo, dissetante e corroborante.
All’Azimut in piazza del Mercato, locale specializzato in buona birra, potrete dissetarvi anche bevendo l’omonimo cocktail, originale gradevole mistura dai molti ingredienti e dall’invitante colore verde menta. Fate in modo che ve lo servano ben freddo e non caldiccio come l’hanno offerto a noi.
Sulla stessa piazza al Golden Bar, padre, madre e figlio giovinetto si impegnano molto per offrirne una scelta di circa quindici tra «classici» e «di fantasia». Noi tra tutti abbiamo trovato meglio riuscito il Nove settimane e mezzo.
Anche loro dovrebbero però imparare che, quando è prescritto, i cocktail devono essere serviti molto freddi ed è anzi consigliabile che siano ghiacciati pure i bicchieri.
Nella splendida cornice del Ponte Romano e dei boschi circostanti l’Albergo Gattapone ha da poco aperto un american bar molto elegante, con una terrazza affacciata sul bellissimo panorama. Nume tutelare di questa impresa è il professar Giovanni Martoglio (docente alla scuola alberghiera di Spoleto), nostro amico da tempo, il quale guida con la sua preparazione e la sua esperienza il giovane allievo Ignazio. La carta del bar è davvero promettente: non ci avventuriamo a consigliare nessun cocktail in particolare perché sono tutti perfettamente preparati.
Un cocktail particolare consigliamo invece a chi si sieda ai tavolini del Tric-Trac, nella stupenda piazza Duomo. Per averlo rivolgetevi direttamente a Giuseppe, l’esperto e amabile factotum del locale. Non vi diciamo qual è la composizione della bevanda, ma affermiamo che è squisita e preparata magistralmente. L’ha inventata per noi lo stesso Giuseppe, per risollevarci in un giorno in cui eravamo particolarmente stanchi e affranti: ci ha fatto il dono di chiamarlo il Cocktail dei Farfalloni.

35 – Agosto ‘87

sabato, 1 agosto 1987

TEATRO IN PROSA

Concerti in prosa

Don Giovanni all’Inferno

Il Don Giovanni all’Inferno è tratto dal breve intermezzo di Uomo e Superuomo di G.B. Shaw, in cui è raccontato il sogno di John Tanner che si trova all’inferno dove gli appaiono Don Giovanni e Donna Anna in compagnia del Commendatore e dello stesso Lucifero. L’ «intermezzo» permette all’autore di comunicare alcune teorie sull’élan vital e sul superuomo, il tutto infarcito di filosofemi e aforismi da carta di cioccolatini.
Shaw ha avuto indubbi meriti culturali e politici nel suo impegno contro il perbenismo e per la salvaguardia dei diritti civili. Alcune sue opere sono sciolte, brillanti ed anche acute, altre volte invece è di una noia e di una ovvietà insopportabili.
Questo è il caso del brano di cui ci occupiamo, che Alberto Lionello ha scelto per il suo concerto in prosa alla sala Frau, coadiuvato nell’impresa da Erika Blanc, Andrea Matteuzzi e Ruggero De Daninos.
Nonostante il grigiore teatrale della scena italiana è difficile imbattersi in uno pseudo-spettacolino, così insulso, noioso ed improvvisato. Alberto Lionello ha sulle spalle decenni di onorata carriera e noi ben conosciamo la sua bravura e preparazione professionale. Solo per questo non lo accusiamo anche di dilettantismo. Poiché dilettantesco questo «concerto» appare in tutti i suoi aspetti. Lionello leggeva il suo Don Giovanni con voce strascicata che rendeva più intensa in momenti assolutamente gratuiti. Erika Blanc leggeva Donna Anna come leggono l’epistola durante la messa le fedeli più zelanti, dopo il Concilio Vaticano II: sull’orlo del ridicolo.
Andrea Matteuzzi e Ruggero De Daninos ci hanno massacrato con la lettura del Commendatore e di Lucifero. M. Sciaccaluga, coordinatore scenico, ha fatto quel che ha potuto e Paolo Terni ha curato il commento musicale. Per uno spettacolo tanto inutile non vale la pena di aggiungere di più.

Attrici

Abbiamo ammirato l’attrice di razza e la generosità di Anna Proclemer nel quinto concerto in prosa alla sala Frau: Attrici.
L’abbiamo osservata per più di un’ora sciorinare davanti a noi, con l’agilità di un prestigiatore, tutti i trucchi, gli inganni e le astuzie di un mestiere conosciuto a fondo. L’attrice ha usato, infatti, alcuni tra i più antichi espedienti di tecnica teatrale, come quello di dare l’avvio a una risata per trasformarla in pianto e lasciarla poi sospesa, o quello di iniziare una scena volgendo le spalle al pubblico, ottenendo il risaputo effetto della voce che cade dall’alto e desta un inevitabile brivido di inquietudine; ma ad essi ha saputo accostare, senza dissonanze, accenti personalissimi, originali e persino nuovi.
In alcuni momenti la sua arte è riuscita ad ingannare persino noi vecchi conoscitori smaliziati e ci ha tenuti inchiodati ad ascoltarla, affascinati.
La generosità, di cui abbiamo detto all’inizio, è consistita oltre che nel sobbarcarsi una estenuante fatica anche nella volontà di non risparmiare nessuno dei suoi talenti. .
Attrici è un collage di pezzi del repertorio teatrale, ma non solo (vi figurano infatti anche stralci epistolari e pagine narrative), che hanno per oggetto o per protagonista una figura di attrice.
Fa eccezione il primo brano, in cui Anna Proclemer recita Anna Proclemer che recita la Figlia di Jorio di G. D’Annunzio.
Questo inizio non l’ha favorita, poiché ha sottolineato quanto di accademico e sorpassato c’è nella sua impostazione dei personaggi del teatro cosiddetto «classico».
Dopo quella girandola dannunziana, è stato un errore per metà ingenuo e per metà presuntuoso leggere il Ricordo di Eleonora Duse, di Matilde Serao, nel quale la scrittrice narra l’episodio della grande attrice del passato che, malata, recita, solo per lei, tutti i personaggi della stessa tragedia.
Con gusto, ha poi reso la Lettera ad Adelaide Ristori, di Grech, una pagina dei Ricordi della Salvini e ancora una lettera, questa volta della stessa Ristori.
Per quello che è seguito, preferiamo procedere non più nell’ordine, ma delineando qualche filone interpretativo.
Un umorismo beffardo e acre ha saputo esprimere nella Primadonna, di G. Piazza; una diversa e più lieve ironia ha segnato il brano della Corista, di Cechov. Il passo dal Gabbiano e il brano di Blok, recitato questo anche in russo, li ha cesellati, dosando le atmosfere: ora liriche, ora intensamente drammatiche.
La mia Ofelia per Henry Irving di Ellen Terry, le ha offerto l’opportunità di accennare a certe capacità grottesche, che la Proclemer ha poi dispiegato con bravura eccezionale nel brano La Faustin, di De Goncourt.
Tutto lo spettacolo è comunque godibile: non vi sono mai cadute di gusto, malgrado qua e là qualche limite e qualche imprecisione che il fascino dell’attrice fa scordare.
Marco Sciaccaluga, il regista, l’ha aiutata con intelligenza nella ricerca dei giusti ritmi. Alberto Verso l’ha vestita con una tunica viola e le ha messo a disposizione un ambiente pieno di costumi e piccoli oggetti, che l’attrice ha potuto usare per animare ogni scena con dettagli diversi.
Le musiche, a cura di Paolo Terni, sono state più che discrete.

Fatto di cronaca

Fatto di cronaca è una tragedia in tre atti che Raffaele Viviani trasse dal suo atto unico Fore ‘a loggia. Ha due protagonisti, due frammenti di mondo che riflettono e filtrano la vita: una terrazza e uno Scemulillo.
La prima è lo scenario immobile, parato a festa per un compleanno; l’altro protagonista è un ragazzo considerato un po’ «matto», che assiste ad un fatto di cronaca: la moglie infedele di un marito, appena tornato di molto lontano, precipita dalla terrazza dopo una lite tra i due cui il solo testimone è lo Scemulillo. Fino all’avvenimento tragico, Scemulillo porta la sua diversità in giro per il vicolo e per il quartiere allegramente; in realtà non è più o meno matto degli altri; ma è uno che ha in sé un pizzico di poesia in più e che ha il coraggio di esplicitarla. Per tutta la prima parte, la vita del caseggiato è vista come un gioco e persino il tradimento sembra uno scherzo; finché, sulla terrazza, illuminata dai palloncini giapponesi, animata di musiche e balli si presenta la figura del marito. Alla sua comparsa cade il silenzio e la riunione degli amici si scioglie, tutti vanno via e vorrebbe andarsene anche lo Scemulillo che l’uomo invece trattiene facendone un involontario testimone della scena drammatica che chiude la prima parte.
L’atmosfera nella successiva scena del vicolo, lentamente cambia: dapprima il coro dei commenti intorno al cadavere della donna ancora sul selciato rimane un bozzetto di vita popolare, che la morte non turba più di tanto; ma poi, con l’arrivo del commissario e, ancor più, del pretore, il quale parla addirittura un’altra lingua -!’italiano -, la paura si insinua e cresce fino ad esplodere in Scemulillo, sopraffatto dal terrore di cose che non capisce. Questo terrore lo spinge a scegliere di diventare matto sul serio. Nella sua follia il ricordo della vita passata resterà come intensa nostalgia, persino della tragedia vissuta. Nostalgia del passato, quando la vita era musica.
Raffaele Viviani, autore, attore, saltimbanco, cantante e musicista ci ha tramandato un teatro pieno di possibilità espressive. I suoi testi hanno la ricchezza del Teatro Greco, per questo continuano ad affascinare.
Affascinato sembra essere stato Maurizio Scaparro, che è riuscito, a nostro parere, pur nella sua personale rilettura ad esaltare tutte le possibilità di questo testo. Ha orchestrato gli avvenimenti e i personaggi con grande senso del ritmo. Le scene corali sono un articolato contrappunto; le azioni a due o tre personaggi hanno i tempi e le pause scanditi con assoluta precisione, però nulla è rigido, tutto fluisce come se nascesse in quel momento. Anche la musica di Viviani, elemento importantissimo dello spettacolo, entra ed esce di scena come se fosse un personaggio e, secondo noi, rappresenta il coro dell’antica tragedia: musica semplice, ma di grande efficacia drammatica. Pasquale Scialò ne ha curato una abile elaborazione che Maurizio Chiantone al contrabbasso, Gino Evangelista al mandolino e Mimmo Sepe al pianoforte e fisarmonica rendono con appropriata sensibilità.
L’intensità di questo Fatto di cronaca è in ogni momento straordinaria: la vita di quella gente di Napoli appare sempre in bilico tra il sogno e la realtà, tra la follia e lo scherzo, la disperazione e la gioia, e coinvolge attori e spettatori.
Nello Mascia ha costruito un personaggio superbo che passa dalla macchietta alla maschera tragica. Nel solitario rifugio della follia si esprime andando oltre le parole. E lo smarrimento di Scemulillo diventa il dolore dell’Uomo.
Tutti gli altri attori della Cooperativa «Gli Ipocriti», malleabili e intelligenti strumenti del regista, costruiscono continuamente teatro nel teatro.
Le scene di Bruno Buonincontri racchiudono in un gioco di bianchi e di grigi il piccolo universo napoletano, ravvivato dai costumi di Roberto Francia e dai movimenti mimici di Orlando Forioso.

Frammenti di una trilogia

Ellen Stewart, La Mama, è un personaggio molto noto, famoso per le realizzazioni spettacolari che il suo gruppo da 25 anni va presentando nella sede di New York e ovunque in giro per il mondo.
I presupposti filosofico-scientifico-metafisici che La Mama dichiara essere propri sono assolutamente risibili. Sia se si consideri la teoria fisica per cui ogni uomo è un microcosmo di energie in movimento, analogo a quello delle particelle atomiche e subatomiche; sia che si analizzino i presupposti storici e culturali che rivelano prima di tutto una desolante mancanza di cultura e poi una narcisistica, indebita appropriazione, da «orecchianti» dell’arte e della cultura classiche.
Che personalmente La Mama abbia studiato a fondo greco, latino, filosofia antica e fisica moderna è cosa che non ci interessa. Noi riteniamo valida ogni ricerca estetica, però la ricerca non può essere fine a se stessa e noi per questo ci sentiamo autorizzati ad esprimere il giudizio sull’esito finale.
Le opinioni divergenti sul risultato di un’operazione artistica non sono comunque incompatibili con il rispetto per le scelte, anche esistenziali, de La Mama come di chiunque altro.
Quest’anno il XXX Festival dei Due Mondi presenta I Frammenti di una trilogia, spettacolo ideato e diretto da Andrei Serban, che comprende l’Elettra di Sofocle, Le Troiane e la Medea di Euripide, con l’aggiunta anche di brani di Seneca assegnati al coro, recitato in greco, latino e lingue d’invenzione. La rappresentazione è articolata in diversi spazi nel parco di Villa Redenta ed il pubblico è invitato ora ad assistere ora a seguire l’azione e gli spostamenti degli attori «quasi» partecipando.
Il primo difetto di questo spettacolo può essere sintetizzato nell’uso di quel «quasi».
Gli spettatori sono contemplati, anche se la cosa è negata, come passivi voyeur, non meno che in qualunque altro teatro convenzionalmente borghese in cui la gente è comodamente seduta su poltrone di velluto rosso.
Il secondo difetto è che la gente de La Mama finge come tutti gli altri attori, ma vuole far credere che ci sia una differenza fondamentale tra il fingere sulle tavole di un palcoscenico e fingere in luoghi più insoliti.
Il terzo difetto consiste nell’uso abberrante del latino e del greco: nessuno sa come gli antichi pronunciassero le loro lingue, però gli spernacchiamenti che nascono qui sono brutti, senza appello.
Il quarto difetto sono i gesti sconnessi, imprecisi e volgari che gli attori compiono in continuazione.
Il quinto difetto è l’assoluta mancanza di sacralità: c’è troppo narcisismo e presunzione, perciò la divinità non può che fuggire di fronte alla parodia del rito.
Non solo non c’è nulla dell’antica tragedia, dunque, ma non se ne crea neppure una nuova. Le musiche di Elizabeth Swados hanno una funzione molto importante, tanto che fanno della rappresentazione una vera e propria opera in musica. Peccato che anch’esse siano in linea con il resto. Strumenti, tradizionali e non, si uniscono quasi sempre alle voci solistiche e del coro. Non sono per nulla musiche elementari, e fingono una semplicità che non hanno: per lo più consistono in rigide accozzaglie di suoni e rumori, su cui le voci si aggiungono gracchianti. È questo, forse, lo spettacolo più consumisticamente borghese del Festival di quest’anno.