35 – Agosto ‘87

agosto , 1987

Incontri musicali

Martedì 30 giugno

Tra gli incontri musicali a cura di Spiros Argiris e Wilfried Brennecke, il concerto pomeridiano di martedì è stato uno dei più bei concerti che noi abbiamo sentito a Spoleto, non solo quest’anno, ma negli ultimi anni del Festival. Il merito di questo va tanto alla bravura degli esecutori quanto alla bellezza della musica eseguita.
Il Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen, composto nel 1941 in un campo di prigionia tedesco, prevede una compagine strumentale non consueta: violino, violoncello, clarinetto e pianoforte.
A noi piacerebbe poter ascoltare questa composizione eseguita tutta di seguito, senza pause tra un movimento e l’altro, che disturbano poiché i silenzi interni che si insinuano tra le note, formano un disegno ritmico che ha quasi la stessa funzione di un quinto strumento, disegnando di fatto un contrappunto quanto mai articolato.
Il quartetto inizia con una elegantissima melodia del clarinetto, accompagnata da accordi ininterrotti del pianoforte e dal sommesso ondeggiare degli archi. Segue un breve momento di lotta tra gli strumenti, che si risolve sulle opalescenti sonorità, ancora degli archi, mentre il clarinetto tace. Sopravvengono accordi ossessivi del pianoforte, ciascuno dei quali mette in evidenza una nota armonicamente estranea…
Abbiamo iniziato un tentativo di analisi fatto a memoria, appena usciti da S. Eufemia, ma ci siamo accorti che il lavoro minacciava di essere troppo lungo e faticoso, senza la partitura sottomano, perciò lo abbiamo interrotto. Diciamo soltanto che tutto il quartetto è un susseguirsi continuo di stupende idee musicali, con sonorità tese fino allo spasimo; talvolta ricco di splendide melodie di ingenuo tonalismo, altre volte le tonalità sono sovrapposte e la serratissima tessitura ritmica viene perennemente e puntualmente contraddetta.
I riflessi della musica del Novecento si fanno sentire tutti e vi si trova persino un brandello di jazz freddo; ma tutto è personalissimo e la cifra di Messiaen è sempre riconoscibile.
L’interpretazione superba ha rivelato un accordo sbalorditivo fra i quattro strumenti, frutto indubbiamente di un serrato lavoro d’insieme.
Non una sbavatura: le pause erano anch’esse scelte con precisione. Le sonorità così varie erano cesellate con un’abilità che non è facile trovare. Non c’era mai un momento di sdolcinato autocompiacimento; la musica scaturiva dagli strumenti come se fosse stata eseguita da una sola persona; non un contrasto interpretativo, non una sopraffazione; l’intonazione di tutti era ammirevole.
Meraviglioso il suono del clarinettista Hans Deinzer, ora funambolico, ora stupefatto, capace persino di emettere suoni quasi metafisici.
Il violinista Saschko Gawriloff era impareggiabile nel trovare sonorità di viola, con coloriti di volta in volta smorzati o decisi. Il violoncello di Siegfried Palm, intonatissimo, cantava in modo strabiliante e sapeva anche precipitarsi nei momenti dinamicamente concitati, sempre con sciolta naturalezza.
Bravo quanto i suoi compagni il pianista Bruno Canino, quasi umile in certi momenti, attento a portare sulle sue «spalle armoniche» gli altri tre: con le mani in perfetto equilibrio traeva dal pianoforte suoni sempre coloratissimi.

Giovedì 2 luglio

Il programma di giovedì prevedeva all’inizio due interessanti brani di Liszt.
Il primo Die Trauergondel è quasi terribile per il suo tonalismo esasperato, ossessivamente ribadito con un espediente usato da Liszt anche altre volte: quello cioè di arrivare fino alle soglie della tonica, costringendo l’orecchio a sentirne spasmodicamente l’esigenza; succede, per esempio, che una chiara mediante scenda alla sopratonica, causando l’attesa della tonica, ma il compositore, a questo punto, senza ricorrere ad espedienti come la cadenza, evitata o d’inganno, eccetera, piomba su di un accordo assolutamente inaspettato e poi, con sottile sadismo, prepara una nuova risoluzione tonale, che ancora non porterà a termine, e così via.
La pace sarà raggiunta da una sola piccola, indifesa nota, al termine della composizione. L’esecuzione di B. Canino è stata precisissima, sebbene un po’ dura, quasi spigolosa.
Festspiel und Brautlied è una pagina fastosa, tratta dal Lohengrin di Wagner.
Canino sembrava la suonasse a «prima vista»: alcuni accordi risultavano proprio sporchi e pestava in modo indecente con la sinistra, mentre avrebbe fatto meglio a suonare più piano con la destra.
Lo stesso pianista si è poi cimentato con la Sequenza IV di L. Berio: un brano assolutamente idiota nella sua frivolezza salottiera, monotono e ripetitivo, che cerca di trovare un senso aggrappandosi a un suono dal significato quasi di pedale. L’esecuzione è stata magistrale e Canino ha cercato di tirare fuori quel poco che in Berio non c’è. Les mots sont ailés, sempre di Berio, per violoncello solo, inizia con una lunga serie di intervalli, quasi le note avessero paura di toccarsi; poi due bicordi danno l’avvio ad un lavorio più complesso. Anche questa non è che vuota chiacchiera salottiera. Sigfried Palm è stato, per quanto gli era consentito, mirabile.
Rima di F. Donatoni, per pianoforte, si articola in due sezioni: la prima è un gradevole ballabile, sincopato, da piano-bar, a note e accordi staccati, che si conclude con un dinamico «boogie-woogie» un po’ sghembo; la seconda sezione è un graziosissimo gioco contrappuntistico, ben costruito, tutto infiocchettato di trilli. L’esecuzione superlativa di Canino ci ha lasciato ammirati.
Il pianoforte ancora è stato protagonista dell’ultima parte del pomeriggio musicale con due pezzi di Liszt. Richard Wagner-Venezia è una successione serrata di splendidi accordi e meravigliose modulazioni.
Scherzo und Marsch è dapprima un fuoco d’artificio sbalorditivo per l’equilibrio formale, e poi si trasforma in una marcia apparentemente compatta, nella quale continua però a serpeggiare l’inquietudine armonica. Canino è stato impareggiabile: fluido, equilibrato e robusto.

Domenica 5 luglio

Ci era assolutamente sconosciuto il Quartetto per flauto, oboe e due clarinetti, con accompagnamento di pianoforte di A. Ponchielli, che ha aperto la serata. Non lo abbiamo trovato entusiasmante, soprattutto perché il compositore lombardo non dimostra qui una buona capacità di strumentazione: ha messo infatti malamente insieme le sonorità dei quattro fiati. Tutto il brano è una inconsapevole caricatura dell’opera, con balletti, arie e gorgheggi, tanto è vero che, ad un certo punto, è arrivata persino una stecca. A parte ciò, il pezzo è stato suonato con molta perizia e una leggera ironia da: Donna Orbovich (flauto), Linda Nicklos (oboe), Giselle Stancic-Henry e Sherry Apgar (clarinetti), Paolo Bordoni (pianoforte).
Con adeguata precisione, Paolo Bordoni ha poi eseguito, dello stesso autore, la Cantata a Gaetano Donizetti, consistente in un preludio e una elegia funebre: il primo una melodia schematicamente accompagnata; la seconda ondeggiante tra il macabro e il malinconico.
Il mezzosoprano Kiki Morfoniou, con voce precisa ed espressiva, ha cantato successivamente il poemetto lirico di O. Respighi, su versi di P.B. Shelley, Il Tramonto insieme al quintetto d’archi composto da Fernanda Selvaggio (violino), Gwendolyn Evans (violino), Felicia McFall (viola), Dann Schab (violoncello) e Antonio Rodriguez (contrabbasso). Un lungo melodiare di sapore pucciniano cui si aggiunge la bella e ricca presenza degli archi.
Le ottime voci del Westminster Chamber Choir, dirette da D.J.Nally si sono cimentate con estrema bravura in due brani corali di Carlo Gesualdo (1560-1613), che hanno costituito un piacevole intermezzo.
Infine è stato proposto il Quartetto in mi minore per archi di G. Verdi, che non viene quasi mai eseguito; ci ha fatto piacere poterlo riascoltare, anche se forse ne avevamo un ricordo migliore.
L’allegro inizia con una bella melodia e prosegue robusto, denunciando però un’eccessiva paura della cantabilità. L’andantino è composto di frammenti più o meno ampi di melodie imprigionate da un’austera struttura armonica. Nel prestissimo una lunga e banale melodia è inserita tra due episodi concitati. Lo scherzo-fuga finale è decisamente brutto e pasticciato, ma si sa che Verdi non amava il conrappunto.
G. Verdi, per la troppa paura di essere «verdiano» non è stato capace qui di costruire nient’altro.
Anche l’esecuzione, fredda e non molto precisa, ci ha lasciati insoddisfatti.

Concerti di mezzogiorno

Mercoledì 1 luglio

A questo concerto curato dal Maestro Menotti, abbiamo avuto la fortuna di imbatterci in un giovane artista italiano che pensiamo abbia un notevole talento: il violista Augusto Vismara, che ha aperto la mattinata musicale con la Sonata n. 1, op. 120, per viola e pianoforte di J. Brahms, accompagnato dalla pianista Silvia Cappellini.
Il primo tempo del brano è fatto apposta per mettere in evidenza la viola, al pianoforte è riservato un ruolo come di eco, talvolta sommessa talvolta decisa, anche se qualche volta le parti si invertono.
L’ampio melodiare sognante della viola, nel secondo tempo, si avvale di un elegante accompagnamento del pianoforte.
Il terzo tempo è danzante e sorridente e precede l’ultimo tempo caratterizzato dal bell’intreccio dei due strumenti che si sollecitano a vicenda. Vismara è stato bravissimo, seducente e profondo e la Cappellini ha svolto adeguatamente il suo compito.
Il baritono Peter Coleman-Wright e il pianista Piers Lane si sono cimentati nel lied Traum durch die Dammerung di Strauss e nel tripartito Don Quichotte e Dulcinea di Ravel. La sua voce è risuonata bella e pastosa nella languida melodia del compositore tedesco, ha trovato poi accenti adatti ad esprimere la parigina ispanità di Ravel. Il pianista ha collaborato con accurata incisività.
Il soprano Cheryl Barker ha cantato due lieder di Schubert: Gretchen am Spinnrade e Seligkeit, con una voce molto gradevole, intensa nel primo: una melodia leggermente drammatica con un accompagnamento pianistico circolare, che si è rivelata poi brillante nell’affrontare le strofette graziosissime del secondo, a tempo di valzer. Piers è stato, come prima, l’efficiente collaboratore.
Lo stesso pianista ha concluso il concerto suonando con belle e variegate coloriture quattro preludi di Rachmaninoff.

Domenica 5 luglio

Il Quartetto con flauto in re maggiore di W.A. Mozart, K285 che ha aperto il concerto di oggi, fa parte di quelle composizioni mozartiane, semplici solo in apparenza; proprio per questo molti esecutori le affrontano con spavalderia, combinando disastri insopportabili. Per esempio, nel primo tempo, articolatissimo, colmo di delicate giunture, basta la minima esitazione e tutto si affloscia. Riconosciamo che Paula Robinson (flauto), Robert Rinehardt (violino), Ah Ling Neu (viola) e Ramon Bolipata (violoncello) lo hanno affrontato con sufficiente umiltà. Certo, un po’ più di coloriture sarebbero state auspicabili. Nel secondo tempo, l’ampia melodia del flauto sul pizzicato degli archi è stata giustamente suonata non con il solito banale bel garbo, ma con una certa passione. Il finale, di un equilibrio perfetto, è stato eseguito con correttezza, anche se un po’ rigidamente.
Il successivo Quartetto in do minore op. 60 di Brahms ha un’ampia architettura in cui i rapporti tonali si collegano tra loro con bella coerenza in tutti i quattro movimenti. È un’opera drammatica e sentimentale. L’esecuzione di J. BelI (violino), S. Nickrenz (viola), C. Brey (violoncello) e J. Kahane (pianoforte) è stata efficace, nonostante alcune esuberanze del pianista.