35 – Agosto ‘87

agosto , 1987

TEATRO IN PROSA

Concerti in prosa

Don Giovanni all’Inferno

Il Don Giovanni all’Inferno è tratto dal breve intermezzo di Uomo e Superuomo di G.B. Shaw, in cui è raccontato il sogno di John Tanner che si trova all’inferno dove gli appaiono Don Giovanni e Donna Anna in compagnia del Commendatore e dello stesso Lucifero. L’ «intermezzo» permette all’autore di comunicare alcune teorie sull’élan vital e sul superuomo, il tutto infarcito di filosofemi e aforismi da carta di cioccolatini.
Shaw ha avuto indubbi meriti culturali e politici nel suo impegno contro il perbenismo e per la salvaguardia dei diritti civili. Alcune sue opere sono sciolte, brillanti ed anche acute, altre volte invece è di una noia e di una ovvietà insopportabili.
Questo è il caso del brano di cui ci occupiamo, che Alberto Lionello ha scelto per il suo concerto in prosa alla sala Frau, coadiuvato nell’impresa da Erika Blanc, Andrea Matteuzzi e Ruggero De Daninos.
Nonostante il grigiore teatrale della scena italiana è difficile imbattersi in uno pseudo-spettacolino, così insulso, noioso ed improvvisato. Alberto Lionello ha sulle spalle decenni di onorata carriera e noi ben conosciamo la sua bravura e preparazione professionale. Solo per questo non lo accusiamo anche di dilettantismo. Poiché dilettantesco questo «concerto» appare in tutti i suoi aspetti. Lionello leggeva il suo Don Giovanni con voce strascicata che rendeva più intensa in momenti assolutamente gratuiti. Erika Blanc leggeva Donna Anna come leggono l’epistola durante la messa le fedeli più zelanti, dopo il Concilio Vaticano II: sull’orlo del ridicolo.
Andrea Matteuzzi e Ruggero De Daninos ci hanno massacrato con la lettura del Commendatore e di Lucifero. M. Sciaccaluga, coordinatore scenico, ha fatto quel che ha potuto e Paolo Terni ha curato il commento musicale. Per uno spettacolo tanto inutile non vale la pena di aggiungere di più.

Attrici

Abbiamo ammirato l’attrice di razza e la generosità di Anna Proclemer nel quinto concerto in prosa alla sala Frau: Attrici.
L’abbiamo osservata per più di un’ora sciorinare davanti a noi, con l’agilità di un prestigiatore, tutti i trucchi, gli inganni e le astuzie di un mestiere conosciuto a fondo. L’attrice ha usato, infatti, alcuni tra i più antichi espedienti di tecnica teatrale, come quello di dare l’avvio a una risata per trasformarla in pianto e lasciarla poi sospesa, o quello di iniziare una scena volgendo le spalle al pubblico, ottenendo il risaputo effetto della voce che cade dall’alto e desta un inevitabile brivido di inquietudine; ma ad essi ha saputo accostare, senza dissonanze, accenti personalissimi, originali e persino nuovi.
In alcuni momenti la sua arte è riuscita ad ingannare persino noi vecchi conoscitori smaliziati e ci ha tenuti inchiodati ad ascoltarla, affascinati.
La generosità, di cui abbiamo detto all’inizio, è consistita oltre che nel sobbarcarsi una estenuante fatica anche nella volontà di non risparmiare nessuno dei suoi talenti. .
Attrici è un collage di pezzi del repertorio teatrale, ma non solo (vi figurano infatti anche stralci epistolari e pagine narrative), che hanno per oggetto o per protagonista una figura di attrice.
Fa eccezione il primo brano, in cui Anna Proclemer recita Anna Proclemer che recita la Figlia di Jorio di G. D’Annunzio.
Questo inizio non l’ha favorita, poiché ha sottolineato quanto di accademico e sorpassato c’è nella sua impostazione dei personaggi del teatro cosiddetto «classico».
Dopo quella girandola dannunziana, è stato un errore per metà ingenuo e per metà presuntuoso leggere il Ricordo di Eleonora Duse, di Matilde Serao, nel quale la scrittrice narra l’episodio della grande attrice del passato che, malata, recita, solo per lei, tutti i personaggi della stessa tragedia.
Con gusto, ha poi reso la Lettera ad Adelaide Ristori, di Grech, una pagina dei Ricordi della Salvini e ancora una lettera, questa volta della stessa Ristori.
Per quello che è seguito, preferiamo procedere non più nell’ordine, ma delineando qualche filone interpretativo.
Un umorismo beffardo e acre ha saputo esprimere nella Primadonna, di G. Piazza; una diversa e più lieve ironia ha segnato il brano della Corista, di Cechov. Il passo dal Gabbiano e il brano di Blok, recitato questo anche in russo, li ha cesellati, dosando le atmosfere: ora liriche, ora intensamente drammatiche.
La mia Ofelia per Henry Irving di Ellen Terry, le ha offerto l’opportunità di accennare a certe capacità grottesche, che la Proclemer ha poi dispiegato con bravura eccezionale nel brano La Faustin, di De Goncourt.
Tutto lo spettacolo è comunque godibile: non vi sono mai cadute di gusto, malgrado qua e là qualche limite e qualche imprecisione che il fascino dell’attrice fa scordare.
Marco Sciaccaluga, il regista, l’ha aiutata con intelligenza nella ricerca dei giusti ritmi. Alberto Verso l’ha vestita con una tunica viola e le ha messo a disposizione un ambiente pieno di costumi e piccoli oggetti, che l’attrice ha potuto usare per animare ogni scena con dettagli diversi.
Le musiche, a cura di Paolo Terni, sono state più che discrete.

Fatto di cronaca

Fatto di cronaca è una tragedia in tre atti che Raffaele Viviani trasse dal suo atto unico Fore ‘a loggia. Ha due protagonisti, due frammenti di mondo che riflettono e filtrano la vita: una terrazza e uno Scemulillo.
La prima è lo scenario immobile, parato a festa per un compleanno; l’altro protagonista è un ragazzo considerato un po’ «matto», che assiste ad un fatto di cronaca: la moglie infedele di un marito, appena tornato di molto lontano, precipita dalla terrazza dopo una lite tra i due cui il solo testimone è lo Scemulillo. Fino all’avvenimento tragico, Scemulillo porta la sua diversità in giro per il vicolo e per il quartiere allegramente; in realtà non è più o meno matto degli altri; ma è uno che ha in sé un pizzico di poesia in più e che ha il coraggio di esplicitarla. Per tutta la prima parte, la vita del caseggiato è vista come un gioco e persino il tradimento sembra uno scherzo; finché, sulla terrazza, illuminata dai palloncini giapponesi, animata di musiche e balli si presenta la figura del marito. Alla sua comparsa cade il silenzio e la riunione degli amici si scioglie, tutti vanno via e vorrebbe andarsene anche lo Scemulillo che l’uomo invece trattiene facendone un involontario testimone della scena drammatica che chiude la prima parte.
L’atmosfera nella successiva scena del vicolo, lentamente cambia: dapprima il coro dei commenti intorno al cadavere della donna ancora sul selciato rimane un bozzetto di vita popolare, che la morte non turba più di tanto; ma poi, con l’arrivo del commissario e, ancor più, del pretore, il quale parla addirittura un’altra lingua -!’italiano -, la paura si insinua e cresce fino ad esplodere in Scemulillo, sopraffatto dal terrore di cose che non capisce. Questo terrore lo spinge a scegliere di diventare matto sul serio. Nella sua follia il ricordo della vita passata resterà come intensa nostalgia, persino della tragedia vissuta. Nostalgia del passato, quando la vita era musica.
Raffaele Viviani, autore, attore, saltimbanco, cantante e musicista ci ha tramandato un teatro pieno di possibilità espressive. I suoi testi hanno la ricchezza del Teatro Greco, per questo continuano ad affascinare.
Affascinato sembra essere stato Maurizio Scaparro, che è riuscito, a nostro parere, pur nella sua personale rilettura ad esaltare tutte le possibilità di questo testo. Ha orchestrato gli avvenimenti e i personaggi con grande senso del ritmo. Le scene corali sono un articolato contrappunto; le azioni a due o tre personaggi hanno i tempi e le pause scanditi con assoluta precisione, però nulla è rigido, tutto fluisce come se nascesse in quel momento. Anche la musica di Viviani, elemento importantissimo dello spettacolo, entra ed esce di scena come se fosse un personaggio e, secondo noi, rappresenta il coro dell’antica tragedia: musica semplice, ma di grande efficacia drammatica. Pasquale Scialò ne ha curato una abile elaborazione che Maurizio Chiantone al contrabbasso, Gino Evangelista al mandolino e Mimmo Sepe al pianoforte e fisarmonica rendono con appropriata sensibilità.
L’intensità di questo Fatto di cronaca è in ogni momento straordinaria: la vita di quella gente di Napoli appare sempre in bilico tra il sogno e la realtà, tra la follia e lo scherzo, la disperazione e la gioia, e coinvolge attori e spettatori.
Nello Mascia ha costruito un personaggio superbo che passa dalla macchietta alla maschera tragica. Nel solitario rifugio della follia si esprime andando oltre le parole. E lo smarrimento di Scemulillo diventa il dolore dell’Uomo.
Tutti gli altri attori della Cooperativa «Gli Ipocriti», malleabili e intelligenti strumenti del regista, costruiscono continuamente teatro nel teatro.
Le scene di Bruno Buonincontri racchiudono in un gioco di bianchi e di grigi il piccolo universo napoletano, ravvivato dai costumi di Roberto Francia e dai movimenti mimici di Orlando Forioso.

Frammenti di una trilogia

Ellen Stewart, La Mama, è un personaggio molto noto, famoso per le realizzazioni spettacolari che il suo gruppo da 25 anni va presentando nella sede di New York e ovunque in giro per il mondo.
I presupposti filosofico-scientifico-metafisici che La Mama dichiara essere propri sono assolutamente risibili. Sia se si consideri la teoria fisica per cui ogni uomo è un microcosmo di energie in movimento, analogo a quello delle particelle atomiche e subatomiche; sia che si analizzino i presupposti storici e culturali che rivelano prima di tutto una desolante mancanza di cultura e poi una narcisistica, indebita appropriazione, da «orecchianti» dell’arte e della cultura classiche.
Che personalmente La Mama abbia studiato a fondo greco, latino, filosofia antica e fisica moderna è cosa che non ci interessa. Noi riteniamo valida ogni ricerca estetica, però la ricerca non può essere fine a se stessa e noi per questo ci sentiamo autorizzati ad esprimere il giudizio sull’esito finale.
Le opinioni divergenti sul risultato di un’operazione artistica non sono comunque incompatibili con il rispetto per le scelte, anche esistenziali, de La Mama come di chiunque altro.
Quest’anno il XXX Festival dei Due Mondi presenta I Frammenti di una trilogia, spettacolo ideato e diretto da Andrei Serban, che comprende l’Elettra di Sofocle, Le Troiane e la Medea di Euripide, con l’aggiunta anche di brani di Seneca assegnati al coro, recitato in greco, latino e lingue d’invenzione. La rappresentazione è articolata in diversi spazi nel parco di Villa Redenta ed il pubblico è invitato ora ad assistere ora a seguire l’azione e gli spostamenti degli attori «quasi» partecipando.
Il primo difetto di questo spettacolo può essere sintetizzato nell’uso di quel «quasi».
Gli spettatori sono contemplati, anche se la cosa è negata, come passivi voyeur, non meno che in qualunque altro teatro convenzionalmente borghese in cui la gente è comodamente seduta su poltrone di velluto rosso.
Il secondo difetto è che la gente de La Mama finge come tutti gli altri attori, ma vuole far credere che ci sia una differenza fondamentale tra il fingere sulle tavole di un palcoscenico e fingere in luoghi più insoliti.
Il terzo difetto consiste nell’uso abberrante del latino e del greco: nessuno sa come gli antichi pronunciassero le loro lingue, però gli spernacchiamenti che nascono qui sono brutti, senza appello.
Il quarto difetto sono i gesti sconnessi, imprecisi e volgari che gli attori compiono in continuazione.
Il quinto difetto è l’assoluta mancanza di sacralità: c’è troppo narcisismo e presunzione, perciò la divinità non può che fuggire di fronte alla parodia del rito.
Non solo non c’è nulla dell’antica tragedia, dunque, ma non se ne crea neppure una nuova. Le musiche di Elizabeth Swados hanno una funzione molto importante, tanto che fanno della rappresentazione una vera e propria opera in musica. Peccato che anch’esse siano in linea con il resto. Strumenti, tradizionali e non, si uniscono quasi sempre alle voci solistiche e del coro. Non sono per nulla musiche elementari, e fingono una semplicità che non hanno: per lo più consistono in rigide accozzaglie di suoni e rumori, su cui le voci si aggiungono gracchianti. È questo, forse, lo spettacolo più consumisticamente borghese del Festival di quest’anno.