35 – Agosto ‘87

agosto , 1987

L’Attico

La Regione Umbria, il Comune di Spoleto, l’Associazione Intercomunale di Spoleto, l’Azienda Promozione Turistica di Spoleto sotto gli auspici del XXX Festival dei Due Mondi e con la collaborazione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali hanno organizzato alla chiesa di San Nicolò la mostra L’Attico 1957-1987. Trenta anni di pittura, scultura, musica, danza, performance, video. La celebre galleria romana che nacque nel 1957 a un ultimo piano di piazza di Spagna per opera di Bruno Sargentini è stata fino ad oggi un punto di riferimento per la vita artistica romana. Tutto un filone culturale si è alimentato dell’arte proposta nelle successive diverse sedi di via Beccaria e di via del Paradiso da Fabio Sargentini, figlio di Bruno.
Anche il nostro secolo è stato caratterizzato da una serie di correnti estetiche in contrasto tra di loro e talvolta addirittura in aperta lotta. Questo vale ovviamente non soltanto per l’arte figurativa. Noi siamo molto diffidenti verso l’uso di espressioni come «arte di avanguardia» o «arte di rottura». Gli artisti ricercano, provano, alcuni nella fedeltà a una tradizione consolidata, altri preferendo una strada totalmente nuova. Noi pensiamo che non sia più coraggioso aderire ad un movimento piuttosto che ad un altro, ma riteniamo che possa essere ugualmente valida politicamente, poeticamente ed esteticamente la scelta di optare per la tradizione o per l’innovazione. Il grande Bach, per esempio, codificatore del linguaggio armonico, raffinatissimo ricercatore di originali costruzioni sonore, è stato considerato un conservatore e quasi un «rétro». Il pur grande Thelemann era assai più inserito nel dibattito, anche salottiero, della musica viva, d’avanguardia potremmo dire, del suo tempo. Ogni artista però, se lavora con sincerità e coraggio, è sempre un artista d’avanguardia, perché non ripeterà mai stancamente i moduli del passato.
È un grande merito della galleria L’Attico aver offerto spazi ad artisti che hanno così avuto l’opportunità di presentare opere per lo più inserite in quell’ampio filone, ispirato dal dada che ha originato l’informale, la pop-art, l’arte povera, la land art, il concettualismo, etc.
A S. Nicolò si può riflettere su di una panoramica abbastanza esauriente di trent’anni di esperienze artistiche romane ed europee.
Noi avremmo consigliato, se non lo avesse impedito il periodo estivo di vacanze, agli insegnanti di ogni ordine di scuole di portare gli allievi a visitare la mostra. Tutti ne sarebbero usciti senz’altro arricchiti anche da una diretta consapevolezza di che cosa può intendersi per ricerca artistica.
Ora diciamo, però, la nostra opinione: per noi la stragrande maggioranza di queste opere è cretina, dilettantesca, ributtante e reazionaria. Giustamente l’inconscio di chi ha allestito la mostra ne ha fatto un vero e proprio cimitero. Nei vari loculi sono inumati infatti i resti mummificati di qualcosa che non è mai stata arte, ma solo un frivolo tentativo di essere alla moda e di stupire i buoni borghesi, che, in genere, si meravigliano di fronte a quello che non comprendono; e la cosa non vale solo per il bourgeois di Molière! Certo questi sono tentativi ormai superati, anche se è male che non facciano più discutere. Chi crede ancora nelle performances di artisti sgambettanti come Gilbert & George? Chi può prendere sul serio il Cannone di Pascali? Queste forme d’arte però, erano reazionarie già allora perché erano rivolte soltanto a compratori e non si sforzavano minimamente di tentare un approccio e un dibattito con il grande pubblico. Quando gli artisti narcisisticamente si rinchiudono e si rivolgono soltanto a collezionisti, galleristi e colleghi, divengono servi del potere più bieco, che ha timore di gente che parli chiaro di libertà, di diritti, di poesia e d’amore. Questo rinchiudersi fa sì che i grandi mezzi di comunicazione possano continuare a diffondere la pseudo-arte che rende stupidi. Non esaltiamo certo i vari realismi delle dittature, anch’essi simili, sull’opposto versante, e ugualmente miranti ad ottenere la supina acquiescenza.
Vi è un punto di questa mostra in cui il nostro discorso è esplicato ancora più chiaramente di quanto non siamo in grado di fare noi. Davanti ai quadri di Magritte e Gentilini si capisce come l’arte, in qualunque epoca, possa essere dirompente e rivoluzionaria proprio perché affascinando con opere stupende, riesce a scuotere ed a spezzare il conformismo vile. Al confronto è volgare e insultante – non solo per le donne – il nudo di Sergio Ragalzi, o stupidamente futile la Margherita di fuoco di J. Kounellis, o avvilente la ferraglia Baluba bye-bye di J. Tinguely.
Speriamo che questo nostro parlar chiaro e dire le cose che sinceramente pensiamo forse anche sbagliando – senza però fumosi arzigogoli intellettualistici, possa stimolare tutti coloro che leggono queste pagine a visitare la mostra, a discuterne ed anche a rendere omaggio ad una galleria dalla fondamentale importanza per la cultura italiana contemporanea.

Afro

Non è importante che un artista rimanga fedele al suo primo linguaggio e lavori continuamente solo intorno ad esso. Non è detto, d’altra parte, che i moduli artistici e gli stilemi si debbano necessariamente evolvere fino a raggiungere esiti lontanissimi dalla fonte. Non occorre neppure che vi siano cataclismi perché il genio artistico si trovi in grado di creare forme del tutto nuove. Le teorie del naturalista francese Cuvier e quelle di Charles Darwin, in arte, possono convivere.
Nell’esame delle opere di un artista è forse importante vedere l’uomo con le sue dinamiche conscio-inconscio sbucare di dietro le sue realizzazioni?
Eppure qualcosa bisognerà ben trovare se non si vuole rimanere fermi al crociano enunciato di poesia e non poesia, per cui si direbbe dogmaticamente che quel quadro è bello e quell’altro è brutto, o tutt’al più che in quel determinato ritratto sono efficaci gli occhi e sbagliate le mani.
Cosa si deve cercare allora quando si osserva l’opera d’arte?
Ammesso che sia indispensabile cercare qualcosa, dovrebbe comunque essere l’opera che guida il fruitore nella sua ricerca, e d’altro canto bisogna almeno avere presente che nessuno cerca senza sapere già almeno un poco quello che vuole trovare. Ecco: la soluzione sta proprio in questo incontro tra lo spettatore che esige e l’artista che impone.
L’arte è vitale quando dice molte cose, con chiarezza, anche se il mistero da cui essa nasce le permette di essere quasi inesauribile.
Visitando a palazzo Rosari-Spada la mostra di Afro fino al 1952, a cura di Bruno Mantura e Patrizia Rosazza Ferraris, si ha l’impressione che l’esigenza dell’osservatore e le intenzioni dell’artista non si incontrino molto bene.
Noi pensiamo che questo mancato incontro sia una delle ragioni che hanno indotto il pittore friulano a scegliere il silenzio dell’informale, dopo aver fatto un estremo tentativo, nel periodo neo-cubista, di rinchiudere il discorso della forma in una prigione ferrea, pur nella sua concezione polivisiva.
Afro Basaldella nacque a Udine nel 1912 e morì a sessantaquattro anni, al culmine di una vicenda esistenziale ed artistica complessa, in cui fascismo e resistenza si intrecciano con arcaismo metafisico, espressionismo cubista, arte gestuale e orientalismo Zeno A noi non dispiacciono i suoi inizi, carichi di tutta la lezione della grande arte del passato, di cui egli si compiace persino di fare citazione, come nella Composizione del 1938 o nell’altro olio dello stesso anno Si fondano le città dove tanto i temi, quanto la tavolozza risultano piacevolmente retorici, in una finta umiltà, negata dalla preziosità del colore veneziano di cui tanto si è parlato. Questa retorica si esprime ancora in modo non sgradevole sulle tavolette de Le attività umane e sociali preparatorie al mosaico per il palazzo dell’EUR.
Insistiamo sulla retorica insinuantesi e sempre sconfitta perché ci pare di dover riconoscere ad Afro il merito di essersene liberato presto, anche se a caro prezzo, visto lo sforzo che gli è costata la ricerca poi di trovare la propria sicurezza in un linguaggio diverso. Ci piacciono anche i momenti di splendida esitazione pre-cubista di Pesci del 1947, Natura morta con carte da gioco e Natura morta con tenaglie del medesimo anno, in cui la sua pittura quasi sembra domare le nuove forme, ancora capace di parlar chiaro.
Nelle opere dopo il 1948, Afro sembra accettare la Babele dei segni, dei piani, delle sagome che nascondono la forma, ma non arrivano a negarla; esemplari in questo senso Concerto e Concertino del 1948, dove i colori, gli strumenti musicali, i fogli di musica richiamano con passione i temi della Natura morta del 1937 quando Afro non aveva paura non solo di parlare, ma neppure di cantare.
Fino al viaggio in America del 1950, Afro ci pare aver tentato per esplosioni successive e con stratificazioni pluridirezionali di conservare la capacità di parlare con un linguaggio suo. Dopo l’adesione all’informale e l’esposizione del Gruppo degli Otto del 1952 egli rinuncia all’unico linguaggio veramente suo: la forma.
L’astrattismo infatti per Afro non è una possibilità poetica; il colore, lo spazio di quadri come il Tiresia del 1975 gli sono totalmente estranei.
Questo esito è inevitabile per lui come per altri, poiché noi siamo convinti che la pittura non possa parlare che attraverso la forma, per misteriosa e indecifrabile che talora possa parere. Tutto il resto è silenzio.