Archivio di giugno 1987

Psicoanalisi contro n. 33 – Senza le montagne

lunedì, 1 giugno 1987

Il fondamento della cura è una teoria; l’operare di chi intende prendersi cura degli altri deve – e l’ho già detto mille volte – fondarsi su di una visione del mondo, su di un concetto di uomo e su di una ipotesi di salute. Non è però sufficiente avere una teoria cui richiamarsi; è importante anche che questa teoria sia stata a sua volta mezzo per la salute di colui che vuole curare gli altri. Non soltanto un terapeuta deve aver avuto un didatta e deve continuamente riferirsi ad un supervisore, è importante anche che abbia avuto un terapeuta il quale abbia saputo fargli percorrere con sufficiente chiarezza almeno un tratto del cammino verso la guarigione. Quale guarigione? Quella su cui si è basata la teoria scelta un giorno. Il primo terapeuta è anche il primo maestro; non ti insegna direttamente a curare, ma insegna a curarti, prendendosi cura di te. Dapprima è indulgente e le sue parole sono necessariamente oscure, ma poi si fa severo e le sue parole diventano più chiare.
Il procedere della cura si trasforma lentamente, tanto che un giorno si è capaci di maturare la decisione di diventare a propria volta terapeuti. A questo punto però resta ancora una lunga strada da percorrere: bisogna snidare molti fantasmi, bisogna imparare a gestire molte ansie e paure; bisogna vincere il narcisismo e il sadomasochismo; bisogna superare l’avarizia, e bisogna soprattutto imparare ad ascoltare. Solo così si potrà essere in grado di abbandonarsi all’altro, senza però mai perdere la vigilanza. Il terapeuta non può essere colui che si abbandona visceralmente, se così facesse diventerebbe solo il parassita del proprio paziente, gli succhierebbe la vita e le energie.
L’abbandono del terapeuta deve essere attento, vigile e scrupoloso. Curandosi il terapeuta ha imparato a curare, ha imparato che il primo gesto della cura è di disponibilità; potrà poi diventare un gesto d’amore, e si spera che lo diventi sempre. Il secondo gesto è quello di scrutare, prima dentro di sé e poi negli altri: scrutare con precisa attenzione, ma anche con gusto. È importante provare interesse per l’altro, per la sua vita, per i suoi sogni, per i suoi desideri sessuali; entrare con lui nel mondo passato dei ricordi e nelle esperienze del presente. Il buon terapeuta però non può essere tale solo tra le quattro mura del suo studio, alle prese coi gesti rituali e i pensieri che divengono ossessivi tanto sono ripetuti; ma deve essere disponibile sempre al rapporto con gli altri. Allora il terapeuta può mai abbandonare del tutto il suo ruolo, il suo pesante costume di scena?

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La risposta è no: perché questo costume deve essere diventato la sua virtù.
Aristotele di Stagira dice nella sua Etica a Nicomaco che la virtù deve diventare un habitus; un costume che non costringe. Certo è anche una finzione, un’autoimposizione, che però deve trasformarsi in abitudine. Una tranquilla abitudine, una disponibilità ad ascoltare, ad avere il gusto per gli altri. Non c’è bisogno che scatti sempre il meccanismo che spinge a cercar di capire cosa sta dietro le apparenze, non è necessario smascherare la cattiva coscienza di tutti. Chi fa il terapeuta deve anzi imparare ad usare meno degli altri le interpretazioni. Sono seduto sulla riva di un ruscello in montagna: un sasso rotola nell’acqua e l’amico mi dice: «Mi da uno strano senso di angoscia, quando qualcosa si stacca dalla montagna e scende, penso che nei millenni le montagne spariranno. Tutto rotola così inesorabilmente a valle, travolto dall’acqua e dalle piogge, e mi chiedo come sarà possibile un mondo senza montagne». Al terapeuta che è in me s’affaccia in un angolo del cervello o avanza sulla punta della lingua la voglia di dire che quella è un’ansia di …; ma è meglio che mi interrompa e insegua piuttosto il volo di una farfalla. Mi sforzo poi di tornare a guardare l’acqua che scorre: un nuovo sasso ,si stacca e tornano le fantasie dell’amico: come sarà il mondo senza le montagne? Bisogna saper pensare il mondo senza le montagne. Ma sarà poi quello che accadrà davvero o altri cataclismi non ricostituiranno nuovi monti? Eppure tutto cade a valle lentamente. Lo psicoanalista segue l’amico in queste fantasticherie e le fa diventare proprie. Non si è lasciato ingabbiare dal proprio ruolo. Può essere soddisfatto: la teoria che ha alle spalle, che gli ha trasmesso il suo primo terapeuta-maestro non lo ha reso prigioniero. Forse sentirsi contenti nei propri panni è buon segno di salute, quanto è vero però che la visione del mondo su cui si fonda la sua ipotesi di uomo non è una gabbia anziché un comodo abito? Ogni psicoanalista deve porsi questa domanda quando vorrebbe fare quel gesto ma la sua metapsicologia glielo impedisce. Se si sente costretto, se vuole compiere troppo spesso gesti che sono in opposizione alla teoria che ha imparato vuol dire che non è ancora guarito e allora non può assumersi la responsabilità di prendersi cura di altri; oppure significa che si trova tra le mani uno strumento che non sa e non può usare, perché gli è rimasto estraneo. Allora è bene che riprenda tutto dall’inizio oppure cambi strumento.

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Indubbiamente, ogni terapeuta ha un suo stile di cura. Io come maestro, didatta e supervisore, traggo materia di arricchimento dall’osservazione di coloro che si preparano con me a divenire analisti, o lo sono già: lavoriamo insieme, osservo i loro gesti, il loro stile di approccio e di lavoro, analizzo le loro fantasie, io ho la fortuna di lavorare con persone tutte sufficientemente in armonia con i presupposti teorici su cui fondiamo il comune operare nel mondo e nella cura.
In ciascuno di loro però vedo peculiarità che li differenziano, diversità che derivano dal carattere e dalla storia personale, dalle loro paure, da un differente modo d’amare. Talvolta alcune loro attitudini, alcuni gesti mi danno fastidio, li sento stridenti con quello che noi insieme — io come maestro e loro come discepoli —, avevamo posto come fondamento del nostro operare e che coloro che si rivolgono a noi hanno il diritto di ritrovare. Spesso i pazienti non conoscono questi principi, perché magari ci hanno conosciuto indirettamente; ma noi ugualmente abbiamo il dovere di curare secondo i principi che dichiariamo. I gesti troppo stridenti mettono ansia in me, perché mi fanno temere di essere stato un cattivo maestro, che non ha saputo eliminare difetti troppo gravi. Cerco di intervenire ora con ironia, ora con autorità. Nonostante le mie ansie, vedo però con piacere il delinearsi di stili personali perché significa che lavoro con persone integre nella loro ricchezza umana e non castrate dalla teoria.
La teoria non è un insieme di dogmi; deve essere un insieme armonico di ipotesi che ogni giorno vengono verificate nel quotidiano vivere e nella pratica terapeutica. La teoria deve arricchirsi continuamente.

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Il problema della ortodossia è un problema quanto mai serio, anche perché, come ho già detto, è un problema di deontologia professionale: chi si affida a qualcuno ha il diritto, se lo vuole, di sapere quali sono i principi di base su cui si muove il suo terapeuta. Se preferisce non saperlo è libero di farlo, ma deve esserne messo a conoscenza in qualunque momento ne senta l’esigenza. Si è parlato molto del fatto che le varie scuole di psicoterapia e psicoanalisi siano simili a chiese, rigide e chiuse nelle loro esigenze di ortodossia. Spesso infatti gli appartenenti ai vari gruppi (dai nomi e dalle sigle più disparati) si comportano come monaci ottusi, privi di ogni senso dell’umorismo e dell’autoironia. Questo vuol dire che sono ancora profondamente malati, schiacciati dalla loro teoria. Se invece qualcuno intende per ortodossia credere in ciò che si fa, con amore, con fiducia, con la speranza di essere utile, allora questa fedeltà esprime la massima onestà possibile ed è indice di salute. Bisogna avere anche il coraggio di saper sorridere delle proprie debolezze; non bisogna però mai adagiarsi: le ipotesi vanno sempre verificate ogni giorno.

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Da quando esistono agglomerati di persone che vivono in relazioni interdipendenti, da quando cioè esistono i cosiddetti gruppi sociali, esiste anche una istituzione più o meno legale che viene chiamata scuola. Le scuole possono essere totalmente private o totalmente gestite dalla collettività o anche essere di tipo misto: private si, ma con un controllo più o meno diretto dello stato. Non posso affrontare adesso la storia dell’istituzione scolastica in occidente: dovrei parlare delle scuole in Grecia e a Roma, delle istituzioni monastiche, delle riforme illuministe. Certo, negli ultimi due secoli, con l’intervento sempre più diretto dello stato in tutte le organizzazioni della vita pubblica, anche la scuola è venuta acquistando, nei vari paesi, una fisionomia molto precisa e istituzionalizzata, con rituali di comportamento e persino architetture standard. Si è anche ulteriormente affermata una suddivisione della scienza in diverse branche di sapere che la burocrazia ha molto evidenziato. Ma non è, malgrado tutto, ancora abbastanza evidente il fine di queste scuole: o meglio, il fine accettato come ovvio è quello di insegnare, ma insegnare che cosa? Solo le nozioni o anche il significato che queste nozioni hanno? In tal caso il fine della scuola andrebbe oltre, tenderebbe cioè a formare più che informare gli esseri umani. Cosa vuoi dire formare? Vuoi dire fare di ogni uomo un buon cittadino, rispettoso delle leggi, degli altri e di se stesso. Questa sarebbe una buona cosa; ma è necessario che lo studente apprenda anche concretamente la capacità di contribuire al lavoro comune. La scuola dovrebbe quindi dare nozioni sufficienti a mettere chi l’ha frequentata in grado di esercitare un mestiere o una professione.
Purtroppo in tutto l’occidente le scuole sono sempre più venute staccandosi dal contesto sociale e quindi hanno eluso questa funzione di formazione e informazione. Il compito di insegnare un mestiere e di inserire lo studente nella società reale è stato delegato a scuole di specializzazione, come se la scuola di base fosse solo più capace di fornire un sapere astruso e per lo più inutile.
La Scuola ufficiale, quella di Stato, con la S maiuscola, oggi, nel nostro paese non è più in grado ne di formare ne di informare. È vero che qualche insegnante riesce, malgrado tutto, a costruire, in questo contesto di totale inutilità, un nido, un proprio spazio in cui comunica ai suoi studenti qualcosa di significativo; ma non sa nemmeno lui molto bene a cosa tendere e vede che questo sforzo suo e dei suoi allievi avviene nel disinteresse più generale e assoluto. La scuola non interessa perché non è un luogo diretto di produzione, serve a tener buoni i ragazzi, fuori casa, per alcune ore al giorno. Non è qui il caso di parlare dei programmi antiquati, degli insegnanti impreparati, degli alunni assenti: dalle elementari all’università la situazione è uguale.
Nel nostro paese la scuola non esiste più: ne quella che forma, ne quella che informa; ciò che ne resta ancora in piedi può tutt’al più mandare involontari messaggi subliminali a ragazzi distratti. L’analfabetismo dilaga anche nelle scuole superiori e i docenti, dall’alto delle loro cattedre universitarie, parlano ad una popolazione che non è più in grado di comprendere. Gli esami universitari sono addirittura uno stanco rito.

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Risulta evidente ed ovvio che la scuola di stato non è quindi in grado di preparare nessun tipo di terapeuta, della psiche o del soma. Chi vuole può ancora imparare qualcosa anche all’università, ma non trova nessuno che segua questa sua preparazione e le istituzionali esercitazioni pratiche sono un balletto insignificante. I docenti non hanno, a loro volta, alcuna reale possibilità di insegnare direttamente una tecnica di intervento a meno che non vogliano, con la loro personale iniziativa, superare gli impedimenti del sistema di istruzione che, per quel che costituisce la norma, è in condizioni di assoluto disastro. E poi tragicamente umoristico vedere come il succedersi delle amministrazioni della pubblica istruzione non faccia che insistere in un atteggiamento di impoverimento progressivo del significato di ogni tipo di insegnamento. Gli insegnanti poi, e persino gli studenti, aggravano la situazione con il loro demenziale e annoiato disinteresse.
Non solo lo stato italiano non è in grado di approntare training pratici per futuri terapeuti; ma proprio la scuola non è più capace di trasmettere conoscenze, di comunicare teorie. L’apprendimento di formule libresche da declamare a qualcuno in speciali occasioni non è trasmissione di sapere. Succede così che gli unici organismi in grado di comunicare messaggi culturali diventano i grandi mezzi di comunicazione che sono realmente e continuamente presenti nel contesto esistenziale di ciascuno. Succede che però questa informazione e questa comunicazione vengano monopolizzate da strani personaggi che non sono ne insegnanti ne scienziati, ma sono divulgatori scientifici. Costoro sono la peste della nostra era: ignoranti e presuntuosi, non hanno interesse nel comunicare realmente teorie scientifiche: sono uomini di televisione e rotocalco a grande tiratura ed i loro obiettivi sono lo spettacolo, la notizia sensazionale, che stupiscano e portino un alto indice di gradimento al network.
Ecco allora una costellazione di dogmi scaraventati sulla gente che non può percepire nulla del lavorio che sta dietro e che desidera soprattutto stupirsi per le novità della genetica e della biologia; che si eccita all’idea dell’accoppiamento tra l’uomo e la scimmia; è affascinato dal suono di parole come «big bang» o «buchi neri». Non solo la scienza, ma persino l’arte e la religione hanno oggi bisogno di questo tipo di divulgazione; così il divulgatore spaccia come idee di artisti, teologi e scienziati, i frutti della propria cortezza intellettuale e diffonde la banalità.
I poeti scrivono, i pittori dipingono, i teologi meditano, i fisici e i biologi studiano e osservano nei loro laboratori ma al mondo arriva solo la superficiale immagine imposta da questi lacchè dello pseudo-sapere.

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Perché allora continuare così? Forse perché non è possibile fare diversamente e questa mia visione catastrofica è un po’ esagerata. Io penso comunque che i disastri ecologici, le catastrofi nucleari, l’inquinamento dell’aria, della terra e delle acque siano anche il risultato del comportamento di persone che a scuola non hanno imparato niente, e la cui coscienza si è formata solo sulla base dei dati messi a loro disposizione dai divulgatori scientifici.
Lo so che ci sono ragioni molto più profonde e non facilmente evidenziabili che inducono politici e scienziati ad operare determinate scelte, imposte da interessi economici; ma so pure che la economia oggi è in buona parte determinata dalle esigenze dell’industria bellica. Alcune ricerche, persino quelle che paiono più umanitarie, hanno la priorità su altre perché sono utili all’industria della guerra.
Io non penso, come parrebbe da quanto ho detto finora, che tutto quello che l’uomo fa oggi sia negativo, anzi: se grandi sono i pericoli, sono grandi anche le possibilità, per chi è energico e lo vuole davvero, di parlare agli uomini perché imparino. Al momento, nel grande clamore, è difficile farsi sentire, ma non è impossibile.

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Io ho fondato una scuola, ho incominciato ad insegnare e ad imparare insegnando. Sono stato naturalmente condizionato anch’io dal mio passato: situazione sociale ed altro; ma mi sono guardato attorno ed ho cercato di andare oltre la superficie delle cose; alcuni mi hanno scelto come maestro ed ho accettato di insegnare e di imparare con loro. Ho scelto la psicologia dinamica perché sono molto curioso. Mi interessano le scienze, le arti e tutto quello che il mondo produce.
Sono curioso dell’umanità intera e penso che la psicoanalisi sia la scienza che meno di altre ha paura di conoscere l’uomo nella interezza delle sue pulsioni. Anche il cammino della psicologia dinamica non è stato sempre rettilineo. La «psicologia dell’Io», ad esempio, rappresentò un grave regresso nei confronti delle prime indagini psicoanalitiche; rischiando di spezzare l’uomo in due; perché non tenne più conto del fatto che coscienza e inconscio costituiscono la persona nella sua interezza; e l’io, se non coincide con tutta la persona, è soltanto strumento di cattiva coscienza, e servirsene per guidare l’essere umano verso la salute è pura illusione. Il disagio coinvolge la persona nella sua totalità, e nella sua totalità deve essere affrontato. Gli strumenti possono essere diversi, ma non si può prescindere da questo postulato. Questa affermazione è vera? E un’ipotesi che forse si avvicina alla verità, o meglio, la cerca. In che rapporto stanno le teorie scientifiche con la verità? In un rapporto dialettico di continuo scambio, di tensione, di attrazione e repulsione. Io non so se la verità sia immobile. Le idee-sostanza nell’iperuranio sono mobili e immobili allo stesso tempo perché noi le immaginiamo così.
L’idea di giustizia non può essere la somma di tutti gli atti giusti che si compiono nel mondo, ma ugualmente bisogna andare alla ricerca della giustizia. La giustizia deve coincidere con la verità, ma le giustizie sono in continuo movimento. Le teorie cercano di imprigionare le idee e la realtà, che però sfuggono continuamente. La verità si trova nell’uomo e fuori dell’uomo, nel mondo, ma non fuori del mondo. Io ho fondalo una scuola per …

33 – Giugno ‘87

lunedì, 1 giugno 1987

La coda del diavolo è un film che Giorgio Treves ha realizzato da un soggetto di Vincenzo Cerami, il quale ha pure partecipato alla sceneggiatura. L’opera sta girando i cinema d’Europa da qualche tempo e malgrado il buon livello non sembra avere avuto grande successo di pubblico; la cosa è forse dovuta anche al fatto che tutti ormai proviamo un leggero fastidio nel sentire parlare, direttamente o indirettamente attraverso parabole, dell’A.I.D.S. e Treves e Cerami lo fanno, attraverso il confronto suggerito con la situazione determinatasi in Europa all’inizio del XVI secolo con l’apparire del morbo di Sifilo. Il fatto che dichiarino che il soggetto sia nato prima che la sindrome da immunodeficienza acquisita divenisse un pubblico problema non cambia di molto la cosa e conferma solo la capacità intuitiva di chi lo ha concepito.
A noi è piaciuto molto il modo con cui Treves sa raccontare cose terribili affrontando problematiche dalla portata quasi metafisica: l’ignoranza e la crudeltà della scienza, dei moralisti e dei potenti; la difficoltà di capire anche per chi voglia scegliere il giusto; la prevaricazione dei deboli sugli altri deboli; ed anche il solito tema dell’amore e morte.
In un lebbrosario isolato in una livida campagna delle Fiandre, arrivano i nuovi malati: i sifilitici, tra i quali è anche una dolce e tenera ragazzina sedicenne.
Il posto è governato e diretto da uno strano terapeuta, illumini sta Ante litteram, che ‘vuole «modernamente» curare. Come è prevedibile, s’innamora della tenera prostituta sedicenne; con sofferto razionalismo la tortura per guarirla e con medievale furore si tortura per non cedere al desiderio. La cosa finisce con la fuga dei due ed un bacio finale, probabilmente infetto, sulle rive di un fiume. Tutta la vicenda si svolge quasi sommessamente attraverso le immagini sapientemente guidate dal regista: gli esseri umani sembrano insetti in confronto al cui dolore l’universo rimane assolutamente indifferente. Lo spettatore esce con il sentimento della rassegnazione totale: tanto sarà sempre così e l’ignoranza dei medici di oggi, l’ottusità dei moralisti e la superstizione non sono inferiori a quelli di ieri.
Alcuni personaggi sono tratteggiati con cura ed efficacia, anche se appaiono un poco immaginette ritagliate da un contesto, a una sola dimensione. La ragazzina è l’unica forse ad avere problematiche più complesse e un carattere con più risvolti, buoni e cattivi: da una parte angelo martirizzato e dall’altra démone che con sottile determinazione persegue la sua vendetta; Isabelle Pasco le dà grande e credibile intensità.
Commovente la bella e incisiva Carole Bouquet, nei panni della gran dama disperata confinata in quell’inferno da un marito geloso e potente. Ottima l’interpretazione di Piera degli Esposti che tratteggia un bellissimo personaggio di serva-padrona, gelosa, cattiva e rassegnata. Un po’ stereotipo il tipo del medico proposto da Robin Renucci che gioca tutto insistendo in sguardi sempre più intensi e sempre più uguali.
Gli altri attori danno vita a una folla disperata e abituata alla sua disperazione, qualcuno toccato da un poetico eroismo, come il ragazzino ucciso per errore.
Le musiche originali di Egisto Macchi accompagnano quasi tutto il film con buona efficacia, malgrado una sovrapposizione di stilemi linguistici: successioni di accordi «regeriani» che si stemperano in un melodiare dalle suggestioni modali, sempre però ben amalgamati tra loro.
Scene, costumi e fotografia risultano elementi preziosi e godibili per merito di Ruzzolini, Baraldi e Jakobson che sembrano aver lavorato in ottima fusione.

33 – Giugno ‘87

lunedì, 1 giugno 1987

Nelle belle sale al secondo piano di Villa Amelia, a Porta S. Pancrazio, si è tenuto il consueto Spring Concert, l’annuale concerto di primavera dell’ Accademia Americana di Roma, nel corso del quale sono state presentate opere di due compositori molto diversi tra loro. Thomas Oboe Lee, nato in Cina nel 1945, è attualmente fellow della sezione musica dell’ Accademia mentre Alexei Haieff, nato in Russia nel 1914, lo è stato negli anni tra il 1947 e il 1949. Sebbene di origini così lontane entrambi rappresentano bene quello che potrebbe essere considerato il tipico compositore americano di musica contemporanea. Le musiche ascoltate venerdì 29 maggio avevano in comune certe caratteristiche davvero primaverili:
erano infatti ben confezionate, senza drammatiche profondità, con un po’ di gradevole technicolor, non prive però di un caldo pathos coinvolgente; forse più austero il giovane Lee, astutamente ammiccante e più smaliziato l’anziano Haieff.
String Trio (1985) di T.O. Lee, è un brano in un tempo solo di carattere tardo romantico, con tematizzazione degli intervalli, anche molto ampi e ben torniti; le armonie sono continuamente cangianti e vi ha una parte preponderante il violoncello che, spesso, acquista un piglio quasi concertante. Molto bravi i componenti dell’ Ex Novo Ensemble: Carlo Lazari (violino), Mario Paladin (viola) entrambi attenti e precisi e Carlo Teodoro (violoncello) che ha dato al suo strumento sonorità bellissime.
29 Fireflies, book II, V-XI, consiste in sette piccoli brani che iniziano con quello che quasi è un ricercare che poi si stempera in reminiscenze chopiniane, forse un po’ lunghe e monotone. La pianista Shihomi Kishida è stata molto corretta ed in alcuni punti ha saputo trarre dalla musica di Lee ottimi effetti.
I Three Pieces for Violin and Piano (1944) di Haieff sono costituiti da un’arguta e concisa polka, una bella e ampia air, eseguita dal violino che acquista soprattutto per la parte armonica assegnata al pianoforte un sapore accentuatamente esotico, poi il ritornello che sviluppa tra una manciata di leggere sincopi, una bella e stringata melodia. Con la Kishida si è dimostrato molto bravo e agile il violinista Massimo Coen.
Harp Trio (1986) in prima esecuzione assoluta, è un brano di Lee abbastanza ben costruito, con buoni accenni di contrappunto, anche se è appesantito qua e là da alcune prolissità. L’esecuzione di Francesco Chirivì al flauto, Massimo Macrì al violoncello e Nazarena Recchia all’arpa è stata molto buona, ritmicamente corretta, e attenta alle sfumature.
Duo for Flutes (1982) di Haieff anch’esso in prima esecuzione con il quale si è conclusa la serata, è stato eseguito in modo magistrale dai due flautisti: Francesco Chirivì e Bruno Lombardi che hanno offerto cinque «momenti» musicali di piacevole e raffinata semplicità, accattivanti e sensuali.

Il «St. Louis Jazz Club» di via del Cardello 13 è diventato con gli anni una delle più note città del jazz frequentatissima da romani e forestieri di passaggio. I programmi e gli esecutori si avvicendano a ritmo sostenuto in stagioni che anno dopo anno mantengono un buon livello medio. Nel nutrito programma del mese di maggio noi abbiamo scelto di parlarvi della King Kenton Craze Band di Massimo Nunzi, che ha proposto a fine mese una serata di musica molto tradizionale, filologicamente ben presentata. Tutti e undici gli esecutori sono sciolti e sufficientemente intonati, malgrado qualche esitazione nei momenti cadenzali d’insieme e gli «a solo» non particolarmente originali. La sezione ritmica, sebbene un po’ ovvia è estremamente precisa ed il pianoforte è sinuoso e scattante. L’altra sera era ospite della band il cantante Gegé Telesforo, dalla voce gradevole, ma che dovrebbe imparare a non accentare troppo gli inizi di frase. Una musica che fa passare piacevolmente una serata è ancora più gradevole, se al bar chi sta dietro al bancone non si lascia prendere dal panico e sa preparare un corretto Stinger e lo porge con sorridente disinvoltura, noi l’abbiamo apprezzato!

33 – Giugno ‘87

lunedì, 1 giugno 1987

Presunzione

Decidere di affrontare esplicitamente una questione politica non significa necessariamente voler dare una indicazione elettorale. Questo almeno è quanto intendevo far capire tra le righe del corsivo dello scorso mese. Chi cercasse di ottenere da noi qualcosa del genere non credo abbia avuto neppure la sicurezza che noi consideriamo il voto strumento politico più o meno efficace di altri.
I partiti politici non sono né un bene né un male sociale:sono anch’essi indice di una società malata e quindi è possibile e doveroso impegnarsi per un loro risanamento. La partitocrazia, la tecnocrazia, la burocrazia sono degenerazioni di sistemi di gestione della cosa collettiva; ma la politica, la scienza e le leggi sono forme di vita ineliminabili per ogni tipo di piccola o grande società e le democrazie dirette non erano poi tanto dirette neanche nell’antica Ellade.
Sappiamo quindi molto bene che non ci si può esimere dal partecipare alla vita politica della comunità in cui viviamo; ma ciò non significa che si debba dare l’assenso incondizionato al gioco politico esistente.
Noi le condizioni della nostra partecipazione le poniamo chiaramente ogni giorno, con quanto diciamo e con quello che facciamo. Il sistema dei partiti e le altre forze politiche che nei partiti non si riconoscono hanno quindi in noi un possibile interlocutore, che vuol essere considerato per quello che è il suo significato politico originale e irrinunciabile.
In questa presunzione di originalità sta parte della forza che ci tiene insieme e della nostra capacità di intervento. Abbiamo deliberatamente lasciato le coscienze dei nostri amici nel dubbio; abbiamo voluto che fossero liberi di scegliere per chi votare e addirittura di scegliere se votare, perché siamo convinti che le esigenze di ciascuno non possano per il momento essere ridotte a nessun comune denominatore politico
La presunzione è un peccato di autoconsapevolezza che forse un giorno dovremo espiare, fino a quel giorno però insisteremo in una lotta che pensiamo giusta in difesa della nostra libertà di pensiero, nel perseguimento di una nostra autonomia scientifica e politica: contro molti, a fianco di qualcuno, confusi con nessuno. Con pochi amici e pochi onori magari, ma di quelli buoni. Se le cose cambieranno, anche per i risultati elettorali, valuteremo insieme ciò che di nuovo sarà apparso e solo quando sarà il caso – e se sarà il caso – valuteremo l’opportunità di scegliere questa o quella parte come interlocutore privilegiato, mantenendo però intatta ad ogni costo l’identità, anche politica, di Psicoanalisi Contro.

33 – Giugno ‘87

lunedì, 1 giugno 1987

Alla Galleria dei Banchi Nuovi è stata realizzata un’operazione culturale di notevole interesse che mette gli uni accanto agli altri giovani e vecchi artisti che hanno scelto di privilegiare il discorso dell’astrazione.
Roma 1957-1987 permetterà fino al prossimo 18 luglio di vedere insieme maestri come Accardi, Capogrossi, Colla, Consagra, Perilli, Sanfilippo, Scialoja e Turcato ed epigoni quali Annibel-Cunoldi, Asdrubali, Capaccio, Querci, Romualdi, Rossani e Salvia.
Filiberto Menna, che ha curato anche il catalogo, ha scelto ben al di là delle sole affinità estetiche e di una ovvia successione cronologica; queste infatti non sono tanto opere distinte che si susseguono, quanto un continuo grafismo contenuto e ridotto al minimo dall’esiguità segnica e dall’assoluta mancanza di altri colori che non siano il bianco, nero e grigio.
Questo dipanarsi grafico non giunge però a costruire una grammatica e la complessiva uniformità si esprime soprattutto attraverso la sottile ed opaca inconsistenza di sillabe slegate. Qui è visibile la frivolezza e un artista che cede alla frivolezza è inevitabilmente anche pigro.
Non c’è profondità possibile dietro questi segni che lasciano intravedere ore ed ore di masturbazione cerebrale, che ha prodotto solo la voglia di non dire. Sono opere che rivelano la triste avarizia di chi non sa perché fa quello che fa, o meglio:
di chi non è in grado di comunicare ad altri neppure il proprio smarrimento. Lontano, oltre questi segni, c’è però una insidiosa retorica, vuota ed imbelle.

Joannis Kbounellis, il romano del Pireo, ben noto a chi ha seguito il cammino delle varie avanguardie dal ‘60 ad oggi, espone da Sprovieri, in piazza del Popolo, quattro opere recenti che richiamano il passato per esplicita dichiarazione dell’artista il quale sostiene che: «Il supporto che nel ‘68 raccoglieva il Viva Marat viva Robespierre, raccoglie ora con lo stesso spirito, il ritrovamento di un’immagine che pretende di presentarsi equilibrata davanti alla storia…» Così ecco ci davanti a questi pannelli in metallo scuro di 70xl00 che fanno da supporto a diversi materiali aggiunti tra cui dominano la cera e il sapone: «Vorrei insistere sul valore assoluto, ma laico, di un tondo di sapone.» La caratteristica principale di queste opere è la banalità, unita alla monotonia e ad uno scoperto, dilettantesco, cattivo gusto.
I materiali sono manipolati male, senza capacità tecniche evidenti o nascoste, involontariamente slabbrati e sghembi. Nella ripetizione dei moduli queste opere non hanno neppure il triste pregio di essere presuntuose: sono miserelle ed esprimono lo squallore di un depresso qualunquismo. Non c’è ritmo e neppure dissonanza negli accostamenti di giallo e di nero, di juta e tela, di cilindri e parallelepipedi che smorzano qualunque interesse e si fanno dimenticare rapidamente.

Enzio Cetrangolo fu latinista e poeta, tradusse tra l’altro, nel 1978, il poema di Lucrezio De Rerum natura con sapienza e sensibilità. Cinquantaquattro artisti romani gli rendono oggi omaggio, traducendo a loro volta – visivamente – gli stessi versi. I risultati costituiscono la mostra allestita alla Galleria Trifalco di via del Vantaggio 22 che durerà fino al 30 giugno. Tutte le opere di questo nuovo De Rerum Natura hanno le stesse, piccole dimensioni e sono sistemate a scacchiera su tre grandi pannelli, apparentemente senza nessuno schema prefissato. Gli autori sono pittori di scuole e tendenze diversissime, riuniti solo da un’intenzione comune. Come il clinamen degli atomi crea per caso i vortici e le cose della natura, qui il caso sembra aver riunito tante immagini che formano un universo. L’occhio e la fantasia percepiscono dapprima i tre pannelli come tre opere autonome, ricche di stimoli; poi l’attenzione si concentra sull’una o sull’altra opera: alcune sono gradevoli, altre di profonda sensibilità, qualcuna è solo accattivante, ma ce ne sono anche di squallide, superficiali o semplicemente brutte; come abbiamo già detto, il risultato complessivo è però vitale e stimolante. Si dice che Lucrezio abbia scritto il suo poema negli intervalli dell’insania, quando cioè la follia che la leggenda vuole fosse stata causata da un filtro d’amore gli permetteva di scrivere.
Non siamo certi che tutti i cinquantaquattro artisti conoscano il poeta e il suo poema; alcuni sembrano non aver capito niente, né del singolo brano che hanno scelto di commentare visivamente e tanto meno di quell’universo poetico; altri però sono riusciti con colori e forme ad esprimere l’intensa passionalità dei versi e persino l’amoroso turbamento, l’amore per l’umanità e per la vita e l’orrore per il vuoto e il nulla che percorrono tutto il poema. È inutile e sarebbe scorretto o almeno temerario – dire cosa ci è piaciuto e cosa non ci è piaciuto, anche perché i cinquanta quattro rappresentano molto della migliore farina e della peggiore crusca del campo artistico romano. Invitiamo tutti però a intraprendere il viaggio attraverso quel mondo, con lo stesso impegno con cui si sono avventurati Tsentemaidis, Vahedi, De Mattia, Russo, Passalacqua, Floridia, De Angeli, Carnevali, Ferranti, Mulas, Sbano, Palma, Guccione, Romani, Messina, E. Rizzo, Guastamacchia, Scala, Calabria, Fasan, Ciai, Solendo, Cannistraci, Lombardo, Mirek, Volo, Siviglia, Falciano, La Barbera, Tardia, Razzi, Verrusio, Madonna, A. Rizzo, Sasso, Chirico, Rocca, Gesso, Scandurra, Stinga, Ferrari, Meriichelli, Bardi, Failla, A.Caruso, Sciame, Costa, Carrubba, Fodaro, Guida, Drisaldi, Semyonov, Ekhard e Filocamo. Esortiamo vivamente chi accetterà l’invito a rileggere prima i sei libri del De rerum natura di Lucrezio.

33 – Giugno ‘87

lunedì, 1 giugno 1987

«La vita privata» a cura di Philippe Ariés e George Duby, è il titolo di un’opera che si prevede articolata in cinque volumi, giunta per ora alla sua seconda tappa: La vita privata dal Feudalesimo al Rinascimento, curato in modo particolare da Duby, con sa.ggi di D. Barthélemy, P. Braunstein, P. Contamine, G. Duby, Ch. De la Roncière e D. RégnierBohler (ed. Laterza 1987, pagine 553, Lit. 40.000). Premettendo che gli autori prendono in esame prevalentemente la situazione francese, anche questo volume ci fa capire come sia difficile cogliere la realtà della vita privata, specialmente nella prospettiva storica meno immediata. Forse con l’affermazione della struttura sociale borghese nel sette e ottocento, questa espressione sarà più comprensibile, anche perché la connotazione di privato avrà acquistato caratteristiche di maggior affinità a quella modernamente intesa di cui viviamo la pratica esperienza. Ci sono tre possibilità di parlare del privato riconducendolo a categorie generali sufficientemente comprensibili: il rapporto di coppia, il luogo oscuro e la fantasticheria interiore del singolo.
Duby e i suoi collaboratori hanno cercato proprio di fare questo, ottenendo un risultato forse non prevedibile: hanno cioè finito col parlare soprattutto della casa, descrivendo al suo interno lo svolgersi più che di una vita privata, di una vita quotidiana.
Il quotidiano è necessariamente privato?
In realtà nella casa avvengono o per lo meno resta la testimonianza soprattutto di riti poco meno pubblici di quanto ‘non lo siano la cerimonia religiosa, la battaglia o l’udienza.
Infatti quanto possono considerarsi atti privati il banchetto, il matrimonio o la morte? Ne deriva allora che si finisce con l’intendere per privato quello che si svolge all’interno di un luogo considerato proprietà privata e i due termini non possono essere scissi; se dopo il mille il concetto di proprietà privata si va sempre più precisando, come bisogna però considerare il monastero: proprietà privata o pubblica?
E il tipo di vita collettiva che vi si svolge e che viene analizzato all’inizio del volume si svolge in un ambito pubblico o privato?
La cosa è tutt’altro che chiara sia giuridicamente sia economicamente.
Ad aggiungere difficoltà alla ricostruzione di un privato tanto remoto contribuisce anche il fatto che abitazioni ed oggetti d’uso dell’epoca ci sono giunti così deteriorati e modificati, quando non sono andati completamente distrutti che tentarne una lettura filo logicamente corretta e una ricostruzione diventa un compito arduo i cui risultati non possono sfuggire all’ambiguità.
Proprio la confusione generata dall’ambiguità è uno dei pregi del libro, che ci pare essere bellissimo perché non banalizza mai e non tenta di ridurre a schemi la ricchezza dell’esistenza di quelle lontane epoche.
Spesso la stereotipia è infatti il difetto maggiore di quei libri che pure hanno il pregio di voler affrontare lo studio della storia non solo attraverso la narrazione di battaglie, e la successione cronologica di eventi e proclami, ma che finiscono con approssimative descrizioni degne tutt’al più di figurare come sceneggiature di film storici californiani.
Ben venga quindi la scelta della confusione che non scade comunque nella mancanza di metodo, anche se ciò causa affastellamento e sovrapposizione di discorsi: si parla dell’importanza del «letto di parata», delle liti, verbali ed epistolari fra coniugi, delle fantasie sulle nudità e sull’igiene corporale, del significato del posto a tavola, del gineceo, degli atti notarili e dei conti di casa, dei tessuti e dei materiali per l’edilizia e l’arredamento, con ripetizioni, digressioni, citazioni, considerazioni.
I brani letterari riportati, gli stralci da diari e documenti, il materiale iconografico rendono il tutto attraente come un libro d’avventure che, però, giustamente non ha una fine.
Il materiale non resta mai inerte, agisce su chi legge, stimolando, fornendo spunti di riflessione, materia viva, reale e.
fantastica.
Noi l’abbiamo letto tutto d’un fiato e la sola cosa che proprio non ci è piaciuta è stata la pessima traduzione, sciatta e talvolta anche imprecisa.

33 – Giugno ‘87

lunedì, 1 giugno 1987

Uno dei due Farfalloni ha il grave difetto di cadere in moltissimi lapsus ma è difficile non capirlo se, parlando del ristorante di cui vogliamo trattare qui di seguito lo chiamò la galleria subumana.
Mai infatti una incespicata linguistica espresse meglio il senso della terrificante avventura di quella sera. Il ristorante si chiama Galleria metropolitana e si trova, sotto il livello stradale, all’angolo tra piazza Risorgimento e via Crescenzio, vi si accede scendendo una scala che immette in una spettrale catacomba, affollata di tavoli e sedie nel peggior stile delle mense aziendali prima dell’autunno caldo; alcuni specchi dilatano all’infinito lo squallore dell’ambiente e quale piccolo raffinato tocco finale ci sono alcune telecamere che riportano ad un monitor alla cassa le immagini del locale e i movimenti degli avventori. La sera questa galleria è disertata dai turisti che all’ora di pranzo l’invadono con l’ardore masochistico che contraddistingue pellegrini e giapponesi ed è frequentata da coppiette di indigeni che trovano accettabile portare le loro storie d’amore in luoghi così tristi. Tanto tristi e infami che, per la prima volta da quando riferiamo le nostre avventure e disavventure gastronomiche noi due, che stoicamente cerchiamo sempre di arrivare alla fine del pasto e che se non siamo convinti del giudizio torniamo più volte, siamo fuggiti dal ristorante dopo aver appena assaggiato antipasti e primi! Non abbiamo neppure permesso che i nostri amici, che spesso ci tengono compagnia per permetterci di ordinare il massimo numero di piatti di una cucina ordinassero alcunché ed anzi li abbiamo portati con noi a cena in un ristorante amico e sicuro. Gli antipasti al carrello erano un misto di indecenti preparazioni dall’aspetto desolante e dal gusto più desolante ancora, basti citare una specie di pizzetta ricoperta di salsa rosa e insalata e i sabbiosi «fasolari» gratinati nel cui guscio forse si celava un mollusco ricoperto però da un compatto strato di freddo cemento.
Il risotto ai frutti esotici consisteva in un brodino di panna in cui annegavano chicchi di riso mal cotti e filamentosi sedimenti di esotica vegetazione; i bucatini alla corsara erano acidi ed amari e le farfalle alla zarina rivoltavano lo stomaco per l’odore sgradevole che emanava dai residui di lompo e salmone. Dopo aver cercato di bere alcuni vini laziali molto mal tenuti: un cannellino passato e dolci astro e un bianco di Guidonia ipermaderizzato, ci è sembrato champagne un insulso Galestro.
L’idea che il turista sia solo un barbaro imbecille cui dare in pasto non importa cosa al prezzo più alto possibile è non solo immorale, ma ha causato all’azienda turistica italiana danni che non si rimargineranno facilmente (malgrado le convention a beneficio degli operatori stranieri). Gli osti senza scrupoli sono i peggiori nemici della loro stessa categoria professionale che ha bisogno più che mai a Roma di riacquistare credibilità!

La piazza di S. Paolo alla Regola è un posto suggestivo, dominato dalla bella facciata della chiesa che, si dice, custodisca i resti della casa in cui abitò S. Paolo ai tempi del suo soggiorno in questa città.
Da febbraio una nuova gestione ha riaperto un ristorante che si trova al numero 40 ed ha avuto l’originalissima idea di chiamarlo Regola 40.
Su di un minuscolo praticello di plastica (Dio li perdoni) sono sistemati, sotto colorati ombrelloni, alcuni tavoli, civettuolmente apparecchiati che, la sera, alla luce delle torce a vento, acquistano un’aria invitante. Il servizio è sbrigato da persone gentili anche se non proprio competenti e l’umore resta sereno mentre si attende sorseggiando un asprigno Chardonnay appena passabile; ma il clima si deteriora rapidamente con l’assaggio dei primi piatti. Ciò è dovuto essenzialmente ad una non strana e pericolosamente diffusa nevrosi dello chef, il quale qualunque piatto prepari, in modo magari ingenuo, rozzo e sommesso, ma tutto sommato sopportabile, subito si precipita sul più vicino tetraedro di panna da un litro, sadicamente lo sventra e ne lascia colare l’intero contenuto sul povero piatto, fino a che ogni traccia di altri ingredienti non scompaia gorgogliando tra i flutti biancastri: così è successo al risotto regola quaranta, alle fettuccine al salmone e caviale, al risotto con curry e asparagi, ai nodini di vitello alle fragole, s’è salvata soltanto l’entrecote sebbene la cosa non sia stata di molto giovamento al livello del piatto che un accettabile Grignolino del Monferrato ci ha aiutato a sopportare. Non tien conto di parlare del tartufo né della crostata.
La regola numero quaranta, puntualmente riportata ad inizio di pagina sulla carta del ristorante (che forse è ispirata a qualche monastica filosofia orientale) dice testualmente: «Se hai due soldi uno spendilo per il cibo, con l’altro compra giacinti per il tuo spirito».
Noi abbiamo speso ben più di due soldi e quindi non ci è rimasta la possibilità di comprare né giacinti né crisantemi per il nostro spirito, così che siamo rimasti feriti prima nel palato e poi nell’anima.

Ai bordi dell’antico ghetto di Roma, in via S. Maria del Pianto 16 abbiamo incontrato sulla nostra strada, a tarda sera, dopo cena, il Caffé Magnani: due ambienti in bianco e nero con bancone e pianoforte ed un arredo un po’ ispirato a quello del celebre Caffè Coste di Parigi, affollato di giovinotti e giovinotte un po’ dark. Su di una mensola accanto al bancone del bar abbiamo visto posate diverse riviste e alcune co
pie di un libro di poesie di Pino Strabioli: «Misteri/Mist’ieri», manciate di versi su Roma ed altro. Abbiamo parlato col giovane autore: un tipetto un po’ scuro e un po’ angelico, con qualche timidezza e qualche facciatosta, che recita anche in teatro, del cui futuro per ora è difficile profetizzare.
Al giovane e grazioso barman abbiamo chiesto due Stinger; con aria volpina ci ha domandato: «È un cocktail?» Alla nostra risposta affermativa ha replicato: «Allora vi faccio due Negroni.» E ci ha somministrato due beveroni gelati ad alto tasso di alcolicità. Gli altri avventori per lo più trincavano intrugli di frutta ed alcool, come fanno i bambini che si sentono già grandi.
Tutti parlavano e nessuno ascoltava. Abbiamo proposto ad uno dei giovani gestori una conversazione-intervista e ci siamo trovati davanti a un ragazzone ombroso e diffidente, che, insospettito dalla nostra curiosità ci ha detto a denti stretti che quello è un locale «per tutti», che è «neo-classico», che il pianoforte è lì a disposizione di chi vuol suonare e che il posto si chiama Magnani perché si vorrebbe anche fame una cineteca. Da ciò abbiamo arguito che Magnani dev’essere un omaggio a Nannarella e non il cognome del proprietario.