Psicoanalisi contro n. 33 – Senza le montagne

giugno , 1987

Il fondamento della cura è una teoria; l’operare di chi intende prendersi cura degli altri deve – e l’ho già detto mille volte – fondarsi su di una visione del mondo, su di un concetto di uomo e su di una ipotesi di salute. Non è però sufficiente avere una teoria cui richiamarsi; è importante anche che questa teoria sia stata a sua volta mezzo per la salute di colui che vuole curare gli altri. Non soltanto un terapeuta deve aver avuto un didatta e deve continuamente riferirsi ad un supervisore, è importante anche che abbia avuto un terapeuta il quale abbia saputo fargli percorrere con sufficiente chiarezza almeno un tratto del cammino verso la guarigione. Quale guarigione? Quella su cui si è basata la teoria scelta un giorno. Il primo terapeuta è anche il primo maestro; non ti insegna direttamente a curare, ma insegna a curarti, prendendosi cura di te. Dapprima è indulgente e le sue parole sono necessariamente oscure, ma poi si fa severo e le sue parole diventano più chiare.
Il procedere della cura si trasforma lentamente, tanto che un giorno si è capaci di maturare la decisione di diventare a propria volta terapeuti. A questo punto però resta ancora una lunga strada da percorrere: bisogna snidare molti fantasmi, bisogna imparare a gestire molte ansie e paure; bisogna vincere il narcisismo e il sadomasochismo; bisogna superare l’avarizia, e bisogna soprattutto imparare ad ascoltare. Solo così si potrà essere in grado di abbandonarsi all’altro, senza però mai perdere la vigilanza. Il terapeuta non può essere colui che si abbandona visceralmente, se così facesse diventerebbe solo il parassita del proprio paziente, gli succhierebbe la vita e le energie.
L’abbandono del terapeuta deve essere attento, vigile e scrupoloso. Curandosi il terapeuta ha imparato a curare, ha imparato che il primo gesto della cura è di disponibilità; potrà poi diventare un gesto d’amore, e si spera che lo diventi sempre. Il secondo gesto è quello di scrutare, prima dentro di sé e poi negli altri: scrutare con precisa attenzione, ma anche con gusto. È importante provare interesse per l’altro, per la sua vita, per i suoi sogni, per i suoi desideri sessuali; entrare con lui nel mondo passato dei ricordi e nelle esperienze del presente. Il buon terapeuta però non può essere tale solo tra le quattro mura del suo studio, alle prese coi gesti rituali e i pensieri che divengono ossessivi tanto sono ripetuti; ma deve essere disponibile sempre al rapporto con gli altri. Allora il terapeuta può mai abbandonare del tutto il suo ruolo, il suo pesante costume di scena?

2
La risposta è no: perché questo costume deve essere diventato la sua virtù.
Aristotele di Stagira dice nella sua Etica a Nicomaco che la virtù deve diventare un habitus; un costume che non costringe. Certo è anche una finzione, un’autoimposizione, che però deve trasformarsi in abitudine. Una tranquilla abitudine, una disponibilità ad ascoltare, ad avere il gusto per gli altri. Non c’è bisogno che scatti sempre il meccanismo che spinge a cercar di capire cosa sta dietro le apparenze, non è necessario smascherare la cattiva coscienza di tutti. Chi fa il terapeuta deve anzi imparare ad usare meno degli altri le interpretazioni. Sono seduto sulla riva di un ruscello in montagna: un sasso rotola nell’acqua e l’amico mi dice: «Mi da uno strano senso di angoscia, quando qualcosa si stacca dalla montagna e scende, penso che nei millenni le montagne spariranno. Tutto rotola così inesorabilmente a valle, travolto dall’acqua e dalle piogge, e mi chiedo come sarà possibile un mondo senza montagne». Al terapeuta che è in me s’affaccia in un angolo del cervello o avanza sulla punta della lingua la voglia di dire che quella è un’ansia di …; ma è meglio che mi interrompa e insegua piuttosto il volo di una farfalla. Mi sforzo poi di tornare a guardare l’acqua che scorre: un nuovo sasso ,si stacca e tornano le fantasie dell’amico: come sarà il mondo senza le montagne? Bisogna saper pensare il mondo senza le montagne. Ma sarà poi quello che accadrà davvero o altri cataclismi non ricostituiranno nuovi monti? Eppure tutto cade a valle lentamente. Lo psicoanalista segue l’amico in queste fantasticherie e le fa diventare proprie. Non si è lasciato ingabbiare dal proprio ruolo. Può essere soddisfatto: la teoria che ha alle spalle, che gli ha trasmesso il suo primo terapeuta-maestro non lo ha reso prigioniero. Forse sentirsi contenti nei propri panni è buon segno di salute, quanto è vero però che la visione del mondo su cui si fonda la sua ipotesi di uomo non è una gabbia anziché un comodo abito? Ogni psicoanalista deve porsi questa domanda quando vorrebbe fare quel gesto ma la sua metapsicologia glielo impedisce. Se si sente costretto, se vuole compiere troppo spesso gesti che sono in opposizione alla teoria che ha imparato vuol dire che non è ancora guarito e allora non può assumersi la responsabilità di prendersi cura di altri; oppure significa che si trova tra le mani uno strumento che non sa e non può usare, perché gli è rimasto estraneo. Allora è bene che riprenda tutto dall’inizio oppure cambi strumento.

3
Indubbiamente, ogni terapeuta ha un suo stile di cura. Io come maestro, didatta e supervisore, traggo materia di arricchimento dall’osservazione di coloro che si preparano con me a divenire analisti, o lo sono già: lavoriamo insieme, osservo i loro gesti, il loro stile di approccio e di lavoro, analizzo le loro fantasie, io ho la fortuna di lavorare con persone tutte sufficientemente in armonia con i presupposti teorici su cui fondiamo il comune operare nel mondo e nella cura.
In ciascuno di loro però vedo peculiarità che li differenziano, diversità che derivano dal carattere e dalla storia personale, dalle loro paure, da un differente modo d’amare. Talvolta alcune loro attitudini, alcuni gesti mi danno fastidio, li sento stridenti con quello che noi insieme — io come maestro e loro come discepoli —, avevamo posto come fondamento del nostro operare e che coloro che si rivolgono a noi hanno il diritto di ritrovare. Spesso i pazienti non conoscono questi principi, perché magari ci hanno conosciuto indirettamente; ma noi ugualmente abbiamo il dovere di curare secondo i principi che dichiariamo. I gesti troppo stridenti mettono ansia in me, perché mi fanno temere di essere stato un cattivo maestro, che non ha saputo eliminare difetti troppo gravi. Cerco di intervenire ora con ironia, ora con autorità. Nonostante le mie ansie, vedo però con piacere il delinearsi di stili personali perché significa che lavoro con persone integre nella loro ricchezza umana e non castrate dalla teoria.
La teoria non è un insieme di dogmi; deve essere un insieme armonico di ipotesi che ogni giorno vengono verificate nel quotidiano vivere e nella pratica terapeutica. La teoria deve arricchirsi continuamente.

4
Il problema della ortodossia è un problema quanto mai serio, anche perché, come ho già detto, è un problema di deontologia professionale: chi si affida a qualcuno ha il diritto, se lo vuole, di sapere quali sono i principi di base su cui si muove il suo terapeuta. Se preferisce non saperlo è libero di farlo, ma deve esserne messo a conoscenza in qualunque momento ne senta l’esigenza. Si è parlato molto del fatto che le varie scuole di psicoterapia e psicoanalisi siano simili a chiese, rigide e chiuse nelle loro esigenze di ortodossia. Spesso infatti gli appartenenti ai vari gruppi (dai nomi e dalle sigle più disparati) si comportano come monaci ottusi, privi di ogni senso dell’umorismo e dell’autoironia. Questo vuol dire che sono ancora profondamente malati, schiacciati dalla loro teoria. Se invece qualcuno intende per ortodossia credere in ciò che si fa, con amore, con fiducia, con la speranza di essere utile, allora questa fedeltà esprime la massima onestà possibile ed è indice di salute. Bisogna avere anche il coraggio di saper sorridere delle proprie debolezze; non bisogna però mai adagiarsi: le ipotesi vanno sempre verificate ogni giorno.

5
Da quando esistono agglomerati di persone che vivono in relazioni interdipendenti, da quando cioè esistono i cosiddetti gruppi sociali, esiste anche una istituzione più o meno legale che viene chiamata scuola. Le scuole possono essere totalmente private o totalmente gestite dalla collettività o anche essere di tipo misto: private si, ma con un controllo più o meno diretto dello stato. Non posso affrontare adesso la storia dell’istituzione scolastica in occidente: dovrei parlare delle scuole in Grecia e a Roma, delle istituzioni monastiche, delle riforme illuministe. Certo, negli ultimi due secoli, con l’intervento sempre più diretto dello stato in tutte le organizzazioni della vita pubblica, anche la scuola è venuta acquistando, nei vari paesi, una fisionomia molto precisa e istituzionalizzata, con rituali di comportamento e persino architetture standard. Si è anche ulteriormente affermata una suddivisione della scienza in diverse branche di sapere che la burocrazia ha molto evidenziato. Ma non è, malgrado tutto, ancora abbastanza evidente il fine di queste scuole: o meglio, il fine accettato come ovvio è quello di insegnare, ma insegnare che cosa? Solo le nozioni o anche il significato che queste nozioni hanno? In tal caso il fine della scuola andrebbe oltre, tenderebbe cioè a formare più che informare gli esseri umani. Cosa vuoi dire formare? Vuoi dire fare di ogni uomo un buon cittadino, rispettoso delle leggi, degli altri e di se stesso. Questa sarebbe una buona cosa; ma è necessario che lo studente apprenda anche concretamente la capacità di contribuire al lavoro comune. La scuola dovrebbe quindi dare nozioni sufficienti a mettere chi l’ha frequentata in grado di esercitare un mestiere o una professione.
Purtroppo in tutto l’occidente le scuole sono sempre più venute staccandosi dal contesto sociale e quindi hanno eluso questa funzione di formazione e informazione. Il compito di insegnare un mestiere e di inserire lo studente nella società reale è stato delegato a scuole di specializzazione, come se la scuola di base fosse solo più capace di fornire un sapere astruso e per lo più inutile.
La Scuola ufficiale, quella di Stato, con la S maiuscola, oggi, nel nostro paese non è più in grado ne di formare ne di informare. È vero che qualche insegnante riesce, malgrado tutto, a costruire, in questo contesto di totale inutilità, un nido, un proprio spazio in cui comunica ai suoi studenti qualcosa di significativo; ma non sa nemmeno lui molto bene a cosa tendere e vede che questo sforzo suo e dei suoi allievi avviene nel disinteresse più generale e assoluto. La scuola non interessa perché non è un luogo diretto di produzione, serve a tener buoni i ragazzi, fuori casa, per alcune ore al giorno. Non è qui il caso di parlare dei programmi antiquati, degli insegnanti impreparati, degli alunni assenti: dalle elementari all’università la situazione è uguale.
Nel nostro paese la scuola non esiste più: ne quella che forma, ne quella che informa; ciò che ne resta ancora in piedi può tutt’al più mandare involontari messaggi subliminali a ragazzi distratti. L’analfabetismo dilaga anche nelle scuole superiori e i docenti, dall’alto delle loro cattedre universitarie, parlano ad una popolazione che non è più in grado di comprendere. Gli esami universitari sono addirittura uno stanco rito.

6
Risulta evidente ed ovvio che la scuola di stato non è quindi in grado di preparare nessun tipo di terapeuta, della psiche o del soma. Chi vuole può ancora imparare qualcosa anche all’università, ma non trova nessuno che segua questa sua preparazione e le istituzionali esercitazioni pratiche sono un balletto insignificante. I docenti non hanno, a loro volta, alcuna reale possibilità di insegnare direttamente una tecnica di intervento a meno che non vogliano, con la loro personale iniziativa, superare gli impedimenti del sistema di istruzione che, per quel che costituisce la norma, è in condizioni di assoluto disastro. E poi tragicamente umoristico vedere come il succedersi delle amministrazioni della pubblica istruzione non faccia che insistere in un atteggiamento di impoverimento progressivo del significato di ogni tipo di insegnamento. Gli insegnanti poi, e persino gli studenti, aggravano la situazione con il loro demenziale e annoiato disinteresse.
Non solo lo stato italiano non è in grado di approntare training pratici per futuri terapeuti; ma proprio la scuola non è più capace di trasmettere conoscenze, di comunicare teorie. L’apprendimento di formule libresche da declamare a qualcuno in speciali occasioni non è trasmissione di sapere. Succede così che gli unici organismi in grado di comunicare messaggi culturali diventano i grandi mezzi di comunicazione che sono realmente e continuamente presenti nel contesto esistenziale di ciascuno. Succede che però questa informazione e questa comunicazione vengano monopolizzate da strani personaggi che non sono ne insegnanti ne scienziati, ma sono divulgatori scientifici. Costoro sono la peste della nostra era: ignoranti e presuntuosi, non hanno interesse nel comunicare realmente teorie scientifiche: sono uomini di televisione e rotocalco a grande tiratura ed i loro obiettivi sono lo spettacolo, la notizia sensazionale, che stupiscano e portino un alto indice di gradimento al network.
Ecco allora una costellazione di dogmi scaraventati sulla gente che non può percepire nulla del lavorio che sta dietro e che desidera soprattutto stupirsi per le novità della genetica e della biologia; che si eccita all’idea dell’accoppiamento tra l’uomo e la scimmia; è affascinato dal suono di parole come «big bang» o «buchi neri». Non solo la scienza, ma persino l’arte e la religione hanno oggi bisogno di questo tipo di divulgazione; così il divulgatore spaccia come idee di artisti, teologi e scienziati, i frutti della propria cortezza intellettuale e diffonde la banalità.
I poeti scrivono, i pittori dipingono, i teologi meditano, i fisici e i biologi studiano e osservano nei loro laboratori ma al mondo arriva solo la superficiale immagine imposta da questi lacchè dello pseudo-sapere.

7
Perché allora continuare così? Forse perché non è possibile fare diversamente e questa mia visione catastrofica è un po’ esagerata. Io penso comunque che i disastri ecologici, le catastrofi nucleari, l’inquinamento dell’aria, della terra e delle acque siano anche il risultato del comportamento di persone che a scuola non hanno imparato niente, e la cui coscienza si è formata solo sulla base dei dati messi a loro disposizione dai divulgatori scientifici.
Lo so che ci sono ragioni molto più profonde e non facilmente evidenziabili che inducono politici e scienziati ad operare determinate scelte, imposte da interessi economici; ma so pure che la economia oggi è in buona parte determinata dalle esigenze dell’industria bellica. Alcune ricerche, persino quelle che paiono più umanitarie, hanno la priorità su altre perché sono utili all’industria della guerra.
Io non penso, come parrebbe da quanto ho detto finora, che tutto quello che l’uomo fa oggi sia negativo, anzi: se grandi sono i pericoli, sono grandi anche le possibilità, per chi è energico e lo vuole davvero, di parlare agli uomini perché imparino. Al momento, nel grande clamore, è difficile farsi sentire, ma non è impossibile.

8
Io ho fondato una scuola, ho incominciato ad insegnare e ad imparare insegnando. Sono stato naturalmente condizionato anch’io dal mio passato: situazione sociale ed altro; ma mi sono guardato attorno ed ho cercato di andare oltre la superficie delle cose; alcuni mi hanno scelto come maestro ed ho accettato di insegnare e di imparare con loro. Ho scelto la psicologia dinamica perché sono molto curioso. Mi interessano le scienze, le arti e tutto quello che il mondo produce.
Sono curioso dell’umanità intera e penso che la psicoanalisi sia la scienza che meno di altre ha paura di conoscere l’uomo nella interezza delle sue pulsioni. Anche il cammino della psicologia dinamica non è stato sempre rettilineo. La «psicologia dell’Io», ad esempio, rappresentò un grave regresso nei confronti delle prime indagini psicoanalitiche; rischiando di spezzare l’uomo in due; perché non tenne più conto del fatto che coscienza e inconscio costituiscono la persona nella sua interezza; e l’io, se non coincide con tutta la persona, è soltanto strumento di cattiva coscienza, e servirsene per guidare l’essere umano verso la salute è pura illusione. Il disagio coinvolge la persona nella sua totalità, e nella sua totalità deve essere affrontato. Gli strumenti possono essere diversi, ma non si può prescindere da questo postulato. Questa affermazione è vera? E un’ipotesi che forse si avvicina alla verità, o meglio, la cerca. In che rapporto stanno le teorie scientifiche con la verità? In un rapporto dialettico di continuo scambio, di tensione, di attrazione e repulsione. Io non so se la verità sia immobile. Le idee-sostanza nell’iperuranio sono mobili e immobili allo stesso tempo perché noi le immaginiamo così.
L’idea di giustizia non può essere la somma di tutti gli atti giusti che si compiono nel mondo, ma ugualmente bisogna andare alla ricerca della giustizia. La giustizia deve coincidere con la verità, ma le giustizie sono in continuo movimento. Le teorie cercano di imprigionare le idee e la realtà, che però sfuggono continuamente. La verità si trova nell’uomo e fuori dell’uomo, nel mondo, ma non fuori del mondo. Io ho fondalo una scuola per …