33 – Giugno ‘87

giugno , 1987

La coda del diavolo è un film che Giorgio Treves ha realizzato da un soggetto di Vincenzo Cerami, il quale ha pure partecipato alla sceneggiatura. L’opera sta girando i cinema d’Europa da qualche tempo e malgrado il buon livello non sembra avere avuto grande successo di pubblico; la cosa è forse dovuta anche al fatto che tutti ormai proviamo un leggero fastidio nel sentire parlare, direttamente o indirettamente attraverso parabole, dell’A.I.D.S. e Treves e Cerami lo fanno, attraverso il confronto suggerito con la situazione determinatasi in Europa all’inizio del XVI secolo con l’apparire del morbo di Sifilo. Il fatto che dichiarino che il soggetto sia nato prima che la sindrome da immunodeficienza acquisita divenisse un pubblico problema non cambia di molto la cosa e conferma solo la capacità intuitiva di chi lo ha concepito.
A noi è piaciuto molto il modo con cui Treves sa raccontare cose terribili affrontando problematiche dalla portata quasi metafisica: l’ignoranza e la crudeltà della scienza, dei moralisti e dei potenti; la difficoltà di capire anche per chi voglia scegliere il giusto; la prevaricazione dei deboli sugli altri deboli; ed anche il solito tema dell’amore e morte.
In un lebbrosario isolato in una livida campagna delle Fiandre, arrivano i nuovi malati: i sifilitici, tra i quali è anche una dolce e tenera ragazzina sedicenne.
Il posto è governato e diretto da uno strano terapeuta, illumini sta Ante litteram, che ‘vuole «modernamente» curare. Come è prevedibile, s’innamora della tenera prostituta sedicenne; con sofferto razionalismo la tortura per guarirla e con medievale furore si tortura per non cedere al desiderio. La cosa finisce con la fuga dei due ed un bacio finale, probabilmente infetto, sulle rive di un fiume. Tutta la vicenda si svolge quasi sommessamente attraverso le immagini sapientemente guidate dal regista: gli esseri umani sembrano insetti in confronto al cui dolore l’universo rimane assolutamente indifferente. Lo spettatore esce con il sentimento della rassegnazione totale: tanto sarà sempre così e l’ignoranza dei medici di oggi, l’ottusità dei moralisti e la superstizione non sono inferiori a quelli di ieri.
Alcuni personaggi sono tratteggiati con cura ed efficacia, anche se appaiono un poco immaginette ritagliate da un contesto, a una sola dimensione. La ragazzina è l’unica forse ad avere problematiche più complesse e un carattere con più risvolti, buoni e cattivi: da una parte angelo martirizzato e dall’altra démone che con sottile determinazione persegue la sua vendetta; Isabelle Pasco le dà grande e credibile intensità.
Commovente la bella e incisiva Carole Bouquet, nei panni della gran dama disperata confinata in quell’inferno da un marito geloso e potente. Ottima l’interpretazione di Piera degli Esposti che tratteggia un bellissimo personaggio di serva-padrona, gelosa, cattiva e rassegnata. Un po’ stereotipo il tipo del medico proposto da Robin Renucci che gioca tutto insistendo in sguardi sempre più intensi e sempre più uguali.
Gli altri attori danno vita a una folla disperata e abituata alla sua disperazione, qualcuno toccato da un poetico eroismo, come il ragazzino ucciso per errore.
Le musiche originali di Egisto Macchi accompagnano quasi tutto il film con buona efficacia, malgrado una sovrapposizione di stilemi linguistici: successioni di accordi «regeriani» che si stemperano in un melodiare dalle suggestioni modali, sempre però ben amalgamati tra loro.
Scene, costumi e fotografia risultano elementi preziosi e godibili per merito di Ruzzolini, Baraldi e Jakobson che sembrano aver lavorato in ottima fusione.