33 – Giugno ‘87

giugno , 1987

Uno dei due Farfalloni ha il grave difetto di cadere in moltissimi lapsus ma è difficile non capirlo se, parlando del ristorante di cui vogliamo trattare qui di seguito lo chiamò la galleria subumana.
Mai infatti una incespicata linguistica espresse meglio il senso della terrificante avventura di quella sera. Il ristorante si chiama Galleria metropolitana e si trova, sotto il livello stradale, all’angolo tra piazza Risorgimento e via Crescenzio, vi si accede scendendo una scala che immette in una spettrale catacomba, affollata di tavoli e sedie nel peggior stile delle mense aziendali prima dell’autunno caldo; alcuni specchi dilatano all’infinito lo squallore dell’ambiente e quale piccolo raffinato tocco finale ci sono alcune telecamere che riportano ad un monitor alla cassa le immagini del locale e i movimenti degli avventori. La sera questa galleria è disertata dai turisti che all’ora di pranzo l’invadono con l’ardore masochistico che contraddistingue pellegrini e giapponesi ed è frequentata da coppiette di indigeni che trovano accettabile portare le loro storie d’amore in luoghi così tristi. Tanto tristi e infami che, per la prima volta da quando riferiamo le nostre avventure e disavventure gastronomiche noi due, che stoicamente cerchiamo sempre di arrivare alla fine del pasto e che se non siamo convinti del giudizio torniamo più volte, siamo fuggiti dal ristorante dopo aver appena assaggiato antipasti e primi! Non abbiamo neppure permesso che i nostri amici, che spesso ci tengono compagnia per permetterci di ordinare il massimo numero di piatti di una cucina ordinassero alcunché ed anzi li abbiamo portati con noi a cena in un ristorante amico e sicuro. Gli antipasti al carrello erano un misto di indecenti preparazioni dall’aspetto desolante e dal gusto più desolante ancora, basti citare una specie di pizzetta ricoperta di salsa rosa e insalata e i sabbiosi «fasolari» gratinati nel cui guscio forse si celava un mollusco ricoperto però da un compatto strato di freddo cemento.
Il risotto ai frutti esotici consisteva in un brodino di panna in cui annegavano chicchi di riso mal cotti e filamentosi sedimenti di esotica vegetazione; i bucatini alla corsara erano acidi ed amari e le farfalle alla zarina rivoltavano lo stomaco per l’odore sgradevole che emanava dai residui di lompo e salmone. Dopo aver cercato di bere alcuni vini laziali molto mal tenuti: un cannellino passato e dolci astro e un bianco di Guidonia ipermaderizzato, ci è sembrato champagne un insulso Galestro.
L’idea che il turista sia solo un barbaro imbecille cui dare in pasto non importa cosa al prezzo più alto possibile è non solo immorale, ma ha causato all’azienda turistica italiana danni che non si rimargineranno facilmente (malgrado le convention a beneficio degli operatori stranieri). Gli osti senza scrupoli sono i peggiori nemici della loro stessa categoria professionale che ha bisogno più che mai a Roma di riacquistare credibilità!

La piazza di S. Paolo alla Regola è un posto suggestivo, dominato dalla bella facciata della chiesa che, si dice, custodisca i resti della casa in cui abitò S. Paolo ai tempi del suo soggiorno in questa città.
Da febbraio una nuova gestione ha riaperto un ristorante che si trova al numero 40 ed ha avuto l’originalissima idea di chiamarlo Regola 40.
Su di un minuscolo praticello di plastica (Dio li perdoni) sono sistemati, sotto colorati ombrelloni, alcuni tavoli, civettuolmente apparecchiati che, la sera, alla luce delle torce a vento, acquistano un’aria invitante. Il servizio è sbrigato da persone gentili anche se non proprio competenti e l’umore resta sereno mentre si attende sorseggiando un asprigno Chardonnay appena passabile; ma il clima si deteriora rapidamente con l’assaggio dei primi piatti. Ciò è dovuto essenzialmente ad una non strana e pericolosamente diffusa nevrosi dello chef, il quale qualunque piatto prepari, in modo magari ingenuo, rozzo e sommesso, ma tutto sommato sopportabile, subito si precipita sul più vicino tetraedro di panna da un litro, sadicamente lo sventra e ne lascia colare l’intero contenuto sul povero piatto, fino a che ogni traccia di altri ingredienti non scompaia gorgogliando tra i flutti biancastri: così è successo al risotto regola quaranta, alle fettuccine al salmone e caviale, al risotto con curry e asparagi, ai nodini di vitello alle fragole, s’è salvata soltanto l’entrecote sebbene la cosa non sia stata di molto giovamento al livello del piatto che un accettabile Grignolino del Monferrato ci ha aiutato a sopportare. Non tien conto di parlare del tartufo né della crostata.
La regola numero quaranta, puntualmente riportata ad inizio di pagina sulla carta del ristorante (che forse è ispirata a qualche monastica filosofia orientale) dice testualmente: «Se hai due soldi uno spendilo per il cibo, con l’altro compra giacinti per il tuo spirito».
Noi abbiamo speso ben più di due soldi e quindi non ci è rimasta la possibilità di comprare né giacinti né crisantemi per il nostro spirito, così che siamo rimasti feriti prima nel palato e poi nell’anima.

Ai bordi dell’antico ghetto di Roma, in via S. Maria del Pianto 16 abbiamo incontrato sulla nostra strada, a tarda sera, dopo cena, il Caffé Magnani: due ambienti in bianco e nero con bancone e pianoforte ed un arredo un po’ ispirato a quello del celebre Caffè Coste di Parigi, affollato di giovinotti e giovinotte un po’ dark. Su di una mensola accanto al bancone del bar abbiamo visto posate diverse riviste e alcune co
pie di un libro di poesie di Pino Strabioli: «Misteri/Mist’ieri», manciate di versi su Roma ed altro. Abbiamo parlato col giovane autore: un tipetto un po’ scuro e un po’ angelico, con qualche timidezza e qualche facciatosta, che recita anche in teatro, del cui futuro per ora è difficile profetizzare.
Al giovane e grazioso barman abbiamo chiesto due Stinger; con aria volpina ci ha domandato: «È un cocktail?» Alla nostra risposta affermativa ha replicato: «Allora vi faccio due Negroni.» E ci ha somministrato due beveroni gelati ad alto tasso di alcolicità. Gli altri avventori per lo più trincavano intrugli di frutta ed alcool, come fanno i bambini che si sentono già grandi.
Tutti parlavano e nessuno ascoltava. Abbiamo proposto ad uno dei giovani gestori una conversazione-intervista e ci siamo trovati davanti a un ragazzone ombroso e diffidente, che, insospettito dalla nostra curiosità ci ha detto a denti stretti che quello è un locale «per tutti», che è «neo-classico», che il pianoforte è lì a disposizione di chi vuol suonare e che il posto si chiama Magnani perché si vorrebbe anche fame una cineteca. Da ciò abbiamo arguito che Magnani dev’essere un omaggio a Nannarella e non il cognome del proprietario.