33 – Giugno ‘87

giugno , 1987

Alla Galleria dei Banchi Nuovi è stata realizzata un’operazione culturale di notevole interesse che mette gli uni accanto agli altri giovani e vecchi artisti che hanno scelto di privilegiare il discorso dell’astrazione.
Roma 1957-1987 permetterà fino al prossimo 18 luglio di vedere insieme maestri come Accardi, Capogrossi, Colla, Consagra, Perilli, Sanfilippo, Scialoja e Turcato ed epigoni quali Annibel-Cunoldi, Asdrubali, Capaccio, Querci, Romualdi, Rossani e Salvia.
Filiberto Menna, che ha curato anche il catalogo, ha scelto ben al di là delle sole affinità estetiche e di una ovvia successione cronologica; queste infatti non sono tanto opere distinte che si susseguono, quanto un continuo grafismo contenuto e ridotto al minimo dall’esiguità segnica e dall’assoluta mancanza di altri colori che non siano il bianco, nero e grigio.
Questo dipanarsi grafico non giunge però a costruire una grammatica e la complessiva uniformità si esprime soprattutto attraverso la sottile ed opaca inconsistenza di sillabe slegate. Qui è visibile la frivolezza e un artista che cede alla frivolezza è inevitabilmente anche pigro.
Non c’è profondità possibile dietro questi segni che lasciano intravedere ore ed ore di masturbazione cerebrale, che ha prodotto solo la voglia di non dire. Sono opere che rivelano la triste avarizia di chi non sa perché fa quello che fa, o meglio:
di chi non è in grado di comunicare ad altri neppure il proprio smarrimento. Lontano, oltre questi segni, c’è però una insidiosa retorica, vuota ed imbelle.

Joannis Kbounellis, il romano del Pireo, ben noto a chi ha seguito il cammino delle varie avanguardie dal ‘60 ad oggi, espone da Sprovieri, in piazza del Popolo, quattro opere recenti che richiamano il passato per esplicita dichiarazione dell’artista il quale sostiene che: «Il supporto che nel ‘68 raccoglieva il Viva Marat viva Robespierre, raccoglie ora con lo stesso spirito, il ritrovamento di un’immagine che pretende di presentarsi equilibrata davanti alla storia…» Così ecco ci davanti a questi pannelli in metallo scuro di 70xl00 che fanno da supporto a diversi materiali aggiunti tra cui dominano la cera e il sapone: «Vorrei insistere sul valore assoluto, ma laico, di un tondo di sapone.» La caratteristica principale di queste opere è la banalità, unita alla monotonia e ad uno scoperto, dilettantesco, cattivo gusto.
I materiali sono manipolati male, senza capacità tecniche evidenti o nascoste, involontariamente slabbrati e sghembi. Nella ripetizione dei moduli queste opere non hanno neppure il triste pregio di essere presuntuose: sono miserelle ed esprimono lo squallore di un depresso qualunquismo. Non c’è ritmo e neppure dissonanza negli accostamenti di giallo e di nero, di juta e tela, di cilindri e parallelepipedi che smorzano qualunque interesse e si fanno dimenticare rapidamente.

Enzio Cetrangolo fu latinista e poeta, tradusse tra l’altro, nel 1978, il poema di Lucrezio De Rerum natura con sapienza e sensibilità. Cinquantaquattro artisti romani gli rendono oggi omaggio, traducendo a loro volta – visivamente – gli stessi versi. I risultati costituiscono la mostra allestita alla Galleria Trifalco di via del Vantaggio 22 che durerà fino al 30 giugno. Tutte le opere di questo nuovo De Rerum Natura hanno le stesse, piccole dimensioni e sono sistemate a scacchiera su tre grandi pannelli, apparentemente senza nessuno schema prefissato. Gli autori sono pittori di scuole e tendenze diversissime, riuniti solo da un’intenzione comune. Come il clinamen degli atomi crea per caso i vortici e le cose della natura, qui il caso sembra aver riunito tante immagini che formano un universo. L’occhio e la fantasia percepiscono dapprima i tre pannelli come tre opere autonome, ricche di stimoli; poi l’attenzione si concentra sull’una o sull’altra opera: alcune sono gradevoli, altre di profonda sensibilità, qualcuna è solo accattivante, ma ce ne sono anche di squallide, superficiali o semplicemente brutte; come abbiamo già detto, il risultato complessivo è però vitale e stimolante. Si dice che Lucrezio abbia scritto il suo poema negli intervalli dell’insania, quando cioè la follia che la leggenda vuole fosse stata causata da un filtro d’amore gli permetteva di scrivere.
Non siamo certi che tutti i cinquantaquattro artisti conoscano il poeta e il suo poema; alcuni sembrano non aver capito niente, né del singolo brano che hanno scelto di commentare visivamente e tanto meno di quell’universo poetico; altri però sono riusciti con colori e forme ad esprimere l’intensa passionalità dei versi e persino l’amoroso turbamento, l’amore per l’umanità e per la vita e l’orrore per il vuoto e il nulla che percorrono tutto il poema. È inutile e sarebbe scorretto o almeno temerario – dire cosa ci è piaciuto e cosa non ci è piaciuto, anche perché i cinquanta quattro rappresentano molto della migliore farina e della peggiore crusca del campo artistico romano. Invitiamo tutti però a intraprendere il viaggio attraverso quel mondo, con lo stesso impegno con cui si sono avventurati Tsentemaidis, Vahedi, De Mattia, Russo, Passalacqua, Floridia, De Angeli, Carnevali, Ferranti, Mulas, Sbano, Palma, Guccione, Romani, Messina, E. Rizzo, Guastamacchia, Scala, Calabria, Fasan, Ciai, Solendo, Cannistraci, Lombardo, Mirek, Volo, Siviglia, Falciano, La Barbera, Tardia, Razzi, Verrusio, Madonna, A. Rizzo, Sasso, Chirico, Rocca, Gesso, Scandurra, Stinga, Ferrari, Meriichelli, Bardi, Failla, A.Caruso, Sciame, Costa, Carrubba, Fodaro, Guida, Drisaldi, Semyonov, Ekhard e Filocamo. Esortiamo vivamente chi accetterà l’invito a rileggere prima i sei libri del De rerum natura di Lucrezio.