Archivio di dicembre 1986

Psicoanalisi contro n. 27 – Mutamenti

lunedì, 1 dicembre 1986

È una cosa risaputa che la maggior parte di coloro che intraprendono un trattamento psicoanalitico prima o poi fantasticheranno di diventare anche loro psicoterapeuti. Le ragioni sono molte, si intrecciano tra loro e spesso sono contraddittorie, alcune affondano in suggestioni antiche, infantili. Il lavorio della psicoanalisi e il rapporto mai banale – si spera – con lo psicoanalista smuovono in profondità acque da lungo tempo stagnanti, sature di lontani desideri che ora si fanno avanti, anche all’improvviso. Può accadere così che un paziente entri nella stanza dell’analisi e, sedendo con aria di sfida o di seduzione, dica: «Ho deciso di mettermi a dipingere: l’altro giorno abbiamo parlato della mia infanzia e mi sono ricordato che allora mi piacevano molto i colori e imbrattavo fogli e fogli di strane figure variopinte. Ho nella mente il ricordo di immagini bellissime – certo è un mio falso ricordo – ma vorrei riprovare». Oppure: «Ho deciso di riprendere gli studi: avevo sostenuto quattro esami, sono tre anni che ho interrotto, ora voglio ricominciare». Altri dichiarano di volersi iscrivere in palestra: «Vorrei migliorare il mio corpo, mi sento flaccido, mi sento brutto, mentre prima mi sentivo meglio, non pensi che la palestra potrebbe servirmi?». Qualcuno ancora dice: «Ho deciso di cambiare disposizione ai mobili della mia stanza, la trovo disarmonica, vi devo aggiungere qualcosa di più caldo, di più sensuale; voglio che divenga accogliente. Non avevo mai pensato prima all’importanza della mia camera». Una ragazza mi disse: «Ho deciso di mangiare i molluschi». Le domandai: «Perché?», «Perché mi hanno sempre fatto schifo e adesso ho l’impressione che non sia più così. L’altra sera, al ristorante, quasi stavo per ordinarli, ma poi mi è venuto tutto un tremito, ero però molto eccitata, come se fosse qualcosa d’importante decidere di ordinare quei molluschi. Certo, l’affermazione che sto per fare, la posso fare solo qui, in questa stanza: sento che riuscire a mangiare quegli animali sarebbe per me molto importante. Ho una sensazione di ribrezzo e di gioia allo stesso tempo se ci penso».

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Sono piccoli-grandi cambiamenti su cui si affollano fantasie. Spesso durante l’analisi la voglia di cambiare nasce dal desiderio di fare qualcosa che possa far piacere all’analista. C’è chi decide di iniziare a studiare uno strumento musicale, di andare a lezione di cucina o di occuparsi di enologia. Ho notato che alcuni miei pazienti si mettono a frequentare i teatri o ad ascoltare con assiduità la musica classica: per farmi piacere, per essere come me e forse anche per scoprirmi, scoprire qualcosa di me senza dovermelo chiedere; perché, se per un verso, è vero che il paziente desidera conoscere molto dell’analista: la sua vita, i suoi gusti, le sue abitudini sessuali, è anche vero che ha paura di conoscerlo direttamente prima di ave re acquisito una certa solidità psichica. Alcuni preferiscono studiare il loro analista facendosi raccontare aneddoti privati da terze persone, oppure scavando di nascosto nei suoi gusti. Io, ad esempio, adoro la Grecia e il barocco, ma soprattutto adoro la musica di Mozart, che, per me, è lavoce di Eros. Così talora si scruta in queste mie predilezioni per conoscere qualche cosa di me. Lo so, è anche come frugarmi tra i pantaloni, ma non solo. Tutte queste fantasie, questi desideri, questi sommovimenti si sommano e fanno sì che molte persone incomincino a fare cose che fino ad allora non avevano mai pensato di voler fare. Questi nuovi interessi talora svaniscono presto, talaltra si rivelano vere e proprie scoperte piacevoli che coinvolgeranno per sempre. Queste novità, oltre che doni al terapeuta, sono anche frutto di un allentamento di tensione; quasi sempre, infatti, poco dopo che l’analisi si è avviata i sintomi più dolorosi e pesanti regrediscono o comunque si fanno meno assillanti e nasce allora una voglia di fare, di scoprire, di provare piacere finalmente!
Quasi tutti i disagi psichici, più o meno gravi, sono a caratterizzati da una estrema difficoltà a provare piacere, tranquillamente e serenamente. O perché realmente si è frigidi, irrigiditi in una difficoltà a godere, oppure perché il piacere, seppur percepito, è accompagnato da ansia, timore di punizione, educazione che tenta lentamente, attraverso la religione e la sorveglianza delle mamme, di indurre il senso di colpa. Quante volte si è sentito dire da una madre al figlio: «Hai fatto questo e adesso Gesù piange, per colpa tua!» Terribile ricatto: forse, invece, Gesù era molto contento.

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Questi desideri, che si manifestano così vivi nel primo periodo del lavoro analitico, debbono essere affrontati con due distinti atteggiamenti, che devono però procedere paralleli. Il primo atteggiamento porta a considerarli come formazioni sintomatiche, poiché sono anche l’elaborazione di conflitti profondi che affiorano sotto forma di desideri allegri, appena velati da un’ombra di ansia; però se si scava più a fondo vi si può vedere dietro una insoddisfazione o, peggio, una depressione latente per cui bisogna lavorare per chiarire i complicati intrighi che li hanno prodotti. Il secondo atteggiamento deve essere di sollecita attenzione, evitando con cura ogni svalutazione. Infatti, anche se possono essere sintomi, sono pur sempre un tentativo di spezzare il grigiore di una vita opaca ed annoiata, afflitta da paure e inibizioni. Bisogna saper esaltare la potenziale allegria che affiora in queste fantasie, isolarne il nucleo ansiogeno e accompagnare affettuosamente il paziente in queste sue nuove avventure, che spesso, magari, finiranno nel nulla.
Coloro che manifestano una più ricca serie di nuovi desideri sono quelli che all’inizio dell’analisi risultavano maggiormente oppressi dall’incapacità di riuscire a portare a termine le imprese iniziate. Sono persone che dicono di aver sempre intrapreso con entusiasmo attività come lo studio delle lingue, o di uno strumento musicale, una nuova professione, un viaggio; ma per le quali poi tutto si tinge di grigio, ogni interesse va perduto, perché le persone e le cose che a prima vista sembrano affascinanti poi risultano noiose. A costoro tutto sembra monotono, tremendamente ripetitivo; perciò, quando è possibile, interrompono quello che hanno appena intrapreso con entusiasmo. È questo un atteggiamento, sgradevole e anche castrante, che sorge da una fuga narcisistica e da desideri di onnipotenza, per cui si vorrebbe chissà che e, alle prime difficoltà, ci si vendica, disinvestendo emotivamente e punendo il mondo, in una punizione che però si rivolta contro. La fantasia di onnipotenza e il narcisismo spiegano come l’obiettivo fosse `diverso da quello apparente, e ben più irraggiungibile e, di conseguenza, come l’interesse per le attività sostitutive presto cada. Molti sono quelli che passano di entusiasmo in entusiasmo e di noia in noia, finché un’apatica ed acida depressione li avvolgerà. Accuseranno gli altri e se stessi, il mondo e la vita. Chi giunge a questo punto è in una brutta situazione, poiché la voglia di punire e far soffrire gli altri diventa sempre meno controllabile ed inizia allora il processo delle aggressioni e dei sensi di colpa a catena.

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Può anche succedere, sia all’inizio del lavoro analitico, sia mentre l’analisi è in corso, che il paziente decida di cambiare qualcosa di fondamentale nella sua vita, o di compiere un gesto importante la cui portata è anche più significativa delle piccole e numerose decisioni di cui ho finora parlato. Sono gesti che intendono essere definitivi e che, maturati nella profondità dell’inconscio, possono cambiare la vita del paziente. Debbono, perciò, essere presi in attenta considerazione e trattati con grande cautela e capacità di comprensione.
Questa voglia di cambiare è in buona parte conseguenza del lavoro analitico: l’analisi destruttura, disorienta, poi chiarisce molte cose tanto che infine, lentamente, la persona comincia a modificarsi ed a modificare il suo rapporto con gli altri e il mondo stesso cambia. A maggior ragione, in questi casi, l’analista deve sempre andare alla ricerca di tutte le motivazioni e le risonanze presenti in queste decisioni di mutamento, in questi gesti significativi: quanto più il lavoro analitico sarà stato capace di incidere sulla persona, tanto più sarà importante che questi desideri vengano rispettati. Ciò non toglie, però, che assai spesso siano una rete che il paziente tende all’analista per catturarlo. Il bisogno di avere in proprio potere il terapeuta è una esigenza di molti pazienti che hanno tendenze estremamente possessive, derivate da una infanzia troppo libera a contatto con adulti privi di autentico interessamento, apatici o depressi, spesso lontani, malgrado la presenza fisica. Sono persone reduci da esperienze infantili che le hanno viste alle prese con madri querule, lamentose, completamente succube dei capricci dei figli, che hanno finito con l’educare alla violenza, anche affettiva; con padri troppo lontani e indaffarati, o anche troppo timidi e schivi, irrigiditi nel timore del contatto fisico ed emotivo. Questi rapporti educativi hanno abituato quei bambini a ricercare altrove legami stretti ed intensi. Successive frustrazioni li hanno trasformati in tirannici adulti insopportabili, sempre bisognosi d’affetto, e per questo disposti a inglobare, ingoiare e distruggere chi trovano sul loro cammino, nella disperata intenzione di conservare. Ma conservare che cosa? E dove? Quando questo genere di persone comincia a parlare di un cambiamento fondamentale di cui avverte forte il bisogno, l’analista deve essere in grado di riconoscere l’eventuale trappola.
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Questi pazienti diventano assillanti. Non ce la fanno più a continuare nelle occupazioni abituali, si dilungano in racconti di frustrazioni, favoleggiano dell’invidia dei colleghi. Ad esempio, un infermiere era giunto sino a sviluppare un leggero delirio persecutorio, per poter presentare al suo terapeuta una situazione davvero insostenibile, vissuta in ospedale, dove in effetti, col suo comportamento bislacco, era anche riuscito a circondarsi di compagni di lavoro irritati, medici e suore castratori ed infernali. Con questi mezzi si cerca di obbligare il terapeuta a dare il permesso di abbandonare la situazione di lavoro, abbastanza tranquilla in realtà, per altre meno sicure e anche poco congeniali o promettenti. Il paziente spesso giunge ad una astuzia sottilissima con argomentazioni tecniche, che ormai ha acquisito grazie all’analisi, riesce logicamente, quasi, a dimostrare che questo suo desiderio di cambiamento è il segno di una sana risposta vitale, conseguente al lavoro terapeutico: un segno della prossima guarigione.
Il terapeuta deve essere capace di valutare invece quanto sia fittizia la libertà che il suo paziente si ripromette di ottenere e quanto significhi un regresso piuttosto che un progresso, non solo dal punto di vista sociale, ma anche personale e psichico.
In questi casi, infatti, ci si trova di fronte ad un momento di grave disorientamento, con fantasie di onnipotenza deliranti, oppure esplosioni di autodistruttività, o, peggio ancora, si è davanti ad un gesto che intende consegnare il paziente completamente all’analista. Con il fallimento del progetto professionale si innesca una dinamica prevedibile: prima il cambiamento da una posizione di lavoro non entusiasmante ma soddisfacente ad un’altra più precaria e frustrante; dopo, nuove lamentele, nuovi propositi di cambiamento e recriminazioni. Piano piano si opera il passaggio alla colpevolizzazione dell’analista: «Sei stato tu che mi hai dato l’incoraggiamento in questa direzione ed adesso guarda in che stato mi trovo: ancora più insoddisfatto di prima e anche senza soldi; tocca a te ora pensare a me. »
Le richieste d’attenzione aumentano, possono addirittura comparire sintomi fisici. Il paziente comincia col telefonare a casa del terapeuta per chiedere consigli, denuncia sintomi di origine apparentemente neurologica, ha crisi di panico. Dietro a tutto questo c’è l’esigenza di essere accolto tra le braccia dell’analista perché se ne occupi finalmente in maniera totale. Affinché ciò non accada l’analista deve comportarsi in modo particolamente accorto, preciso e attento. Se non sa evitare di essere troppo blando, se ha paura di essere deciso nel toccare gli argomenti che hanno risonanze inconsce profonde, se non sa sensibilizzare il paziente costringendolo a rendersi conto del gioco che sta realmente facendo, si troverà di fronte ad una situazione drammatica
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Talvolta il paziente decide di avere un figlio e, in qualche caso, risulta chiaro che il figlio dovrebbe essere la realizzazione fantastica di un rapporto con il terapeuta. Le risorse della fantasia sono vive tanto che tale situazione si può determinare anche quando il paziente e il terapeuta sono persone del medesimo sesso: il gioco fantastico permette di decidere che lui o lei siano il padre o la madre di un figlio che ovviamente nella realtà è il risultato di un rapporto con un altro o con un’altra.
Un giorno una ragazza disse al suo analista: «Vorrei fare un figlio, ma mi piacerebbe non sapere chi ne fosse il padre; tanto non ho difficoltà a trovare maschi con cui andare a letto. Mi basta non usare precauzioni sino a quando mi accorgerò di essere incinta; non solo non lo dirò a lui, ma forse riuscirò persino a non sapere io stessa chi lo avrà generato. Così il figlio sarà tutto mio, soltanto mio». Dicendo ciò guardava l’analista con occhi volpini, pieni di segrete intenzioni. Rimase molto disorientata quando l’analista rispose: «Vuoi dire nostro !» Ebbe una crisi di rabbia, ma almeno abbandonò il progetto di quel figlio. Più grave è quando una paziente, e talora anche un paziente, vogliono coinvolgere il terapeuta in una pratica abortiva. S’intende non direttamente, ma in modo che sia partecipe di quella decisione espressa con la terribile frase: «Debbo abortire, non posso farne a meno». Sottintesa c’è l’altra frase «Io debbo uccidere e so di uccidere, di sopprimere una vita. Voglio però che anche tu sia partecipe di questo delitto, insieme dobbiamo essere gli autori dell’omicidio, insieme dobbiamo sentire la colpa di essere assassini. Sono stanca (sono stanco) del tuo essere al di sopra delle parti, del tuo voler essere puro; devi darmi tu il permesso di farlo, dobbiamo uccidere insieme». Se l’analista rifiuta il suo assenso, perché afferma il suo diritto e il suo dovere di schierarsi sempre per la vita e mai per la morte, la vendetta del paziente può essere pesante. Se si tratterrà dal realizzare il progetto omicida, presenterà il neonato all’analista come la conseguenza di una decisione che è solo sua: quel figlio sarà solo il figlio del terapeuta, il quale avrà il dovere di provvedervi, come dovrà provvedere al paziente, almeno moralmente. Questi sono trucchi, astuzie, fantasie e desideri che hanno alle spalle disperazioni antiche. L’analista deve stare attento a non cadere in trappola, perché rappresentano le insidie di una persona malata che non è ancora in grado di amare l’altro per quello che è, senza coinvolgerlo e inglobarlo in un meccanismo di ricatti distruttivi.

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L’esigenza di essere cauto, però, non deve far assumere allo psicoterapeuta un atteggiamento ingiusto e sbagliato: quello di scoraggiare sempre qualunque cambiamento importante durante il periodo dell’analisi. Questa è una prescrizione della psicoanalisi più antica, una delle più tristi e squallide, perché nasconde il desiderio di onnipotenza del terapeuta, convinto di poter e dover tenere il paziente prigioniero e bloccato nel meccanismo dell’analisi che egli solo può gestire. Un simile comportamento compromette irrimediabilmente le possibilità di guarigione, perché molti desideri di cambiamento non sono soltanto desideri di identificazione, di amore malato e di ricatto, ma sono talvolta veri passi verso la salute. Decidere di avere il coraggio di abbandonare un partner, di modificare alcune abitudini sessuali, di cambiare lavoro, di intraprendere con determinazione un difficle studio, di innamorarsi finalmente, sono spesso gesti che proprio dall’analisi debbono essere incoraggiati. Guai se l’analista blocca queste scelte salutari: gli effetti potrebbero essere distruttivi. Certo, queste scelte debbono essere operate nel segno di Eros, debbono essere calde adesioni alla vita, non fuga o irrigidimento difensivo. L’analista deve saper distinguere, se vuole arrogarsi il diritto di curare. Una analisi immobile, con un paziente immoto, prigioniero dei suoi fantasmi, mentre il terapeuta l’osserva impassibile, sentenziando ogni tanto come fosse un oracolo, ma senza aperture all’esterno, è una analisi che può andare avanti all’infinito, ma non per un infinito progredire, bensì per una indefinibile ed indefinita morbosa immobilità. Se durante l’analisi non avvengono cambiamenti capaci di coinvolgere anche l’esistenza esteriore, e non solo quella interiore, la cura dopo un po’ comincerà a girare su se stessa, e un giorno, l’analista, unilateralmente, deciderà che il rapporto deve finire e che ciò che era da chiarire è chiaro ed è stato detto tutto il dicibile, ma nulla a quel punto sarà stato realmente fatto. Una vita circoscritta nell’ambito di una tecnica terapeutica avrà mandato perduti momenti decisivi, che forse non si ripresenteranno mai più con uguale ricchezza di potenzialità. Durante l’analisi debbono essere possibili anche mutamenti radicali, anzi sarebbe bene che ogni evento decisivo si compisse proprio durante il periodo del lavoro analitico, per poterlo seguire nei suoi sviluppi immediati, per controllarne le evoluzioni possibili.

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Alcuni anni or sono, quando il femminismo era più ardente, una giovane signora sposata ad un ricco professionista, con figli, bella casa, bei vestiti ed un intenso impegno politico nel movimento di liberazione della donna, venne da me. Prima era stata impegnata in rapporti psicoanalitici con due analiste – ovviamente donne – una freudiana con la quale sorsero subito ovvie ragioni di scontro che avevano come pretesto la contrapposizione tra la psicoanalisi di Freud, cui la terapeuta faceva riferimento, ed il femminismo della paziente che le impediva di accettare quei moduli di interpetazione; con la seconda terapeuta – femminista questa volta – il lavoro durò un anno, finché un giorno, paziente e terapeuta vennero molto femminilmente alle mani e si presero letteralmente per i capelli, con una esplosione di quell’odio che molte femministe covano inconsapevolmente verso le figure reali delle altre donne. Anche lei non faceva eccezione: dopo avermi sentito parlare in pubblico una sera, si era detta: «Se non riesco a farmi utilmente curare da altre donne perché nel profondo ne ho poca stima e nessuna fiducia, e perché in realtà le odio, non sarebbe meglio se mi facessi curare da un uomo?» Mi scelse per simpatia, perché le piaceva quel che dicevo, per come mi muovevo tra le persone e per come ridevo. Mi raccontò tutto al primo incontro, dopo che c’eravamo stretti la mano, già con molto affetto. Il suo problema era quello di liberarsi del marito: non c’erano di mezzo ragioni economiche, ma il senso di colpa. Era un uomo intelligente e colto, anche divertente nelle situazioni sociali. Per lei era stato assiduo infermiere, dedito e pieno di abnegazione, quando una grave malattia l’aveva quasi condotta al punto di morire. Poi era rinata, ma nel rinascere il rapporto con quell’uomo le divenne intollerabile; il marito avrebbe voluto che lei fosse eternamente malata o bambina, bisognosa delle sue cure, lieta di delegare a lui ogni decisione, priva di qualunque autonomia anche di pensiero, pronto persino a scegliere per lei quelli che avrebbero potuto essere gli amanti giusti, per una evasione benefica dalla routine sessuale. Ebbi molti incontri anche con lui, che faceva pena con quella sua ansia, con la sua certezza che la moglie sarebbe stata incapace di vivere da sola. Ma non disposto a concederle di fare un passo, di avere un pensiero in piena autonomia, indipendentemente dalla sua tutela. Sola con me, nella stanza dell’analisi, quell’elegante signora si tormentava, per il gran senso di colpa. Si chiedeva quale diritto avesse di lasciarlo, dopo tutto quello che aveva fatto per lei. Eppure non poteva più vivere con quell’uomo, quel rapporto la distruggeva, o più precisamente la castrava. Con orgoglio e sfida mi disse: «Vero che anche le donne possono essere castrate da un maschio e che non avviene soltanto il contrario?» Mettemmo da parte questo problema e prima affrontammo complessivamente le dinamiche suscitate da una vita ricca di esperienze, di fantasie e di sofferenze. Per un po’ provai con lei il suo senso di colpa, poi sentii dentro di me che, malgrado l’impressione di compiere un gesto sleale, dovevo operare perché quel rapporto si concludesse, poiché diventava sempre più malato. Così si lasciarono: lei temeva la tragedia, ma non ci fu, anch’egli accettò, magari con un po’ di malinconia, ma anche con sollievo. L’analisi poté proseguire per un certo tempo, poi un giorno ella prese altre decisioni.
Adesso è lontana, mi scrive che è felice con un altro uomo, in una campagna che la rasserena.

27 – Dicembre ‘86

lunedì, 1 dicembre 1986

Gaspare Spontini (Maiolati – Jesi 1774-1851) è noto al vasto pubblico soltanto per la sua Vestale del 1807; ma in realtà fu un compositore abbastanza fecondo e gli effetti del suo passaggio e i risultati della sua ricerca musicale sono rintracciabili anche in compositori come Weber e Wagner. La sua è una musica ricca, fantasiosa, talvolta anche prolissa e magniloquente, però solo di rado piattamente banale. La Vestale è un’opera coerente e organica che rappresenta l’espressione migliore del suo teatro in musica. Tra le altre opere del compositore marchigiano l’Agnese di Hohenstaufen, del 1829, che il Teatro dell’Opera di Roma ha voluto scegliere per inaugurare la stagione, con ricercata e apprezzabile operazione culturale, è senz’altro una delle più significative dell’opera lirica del primo Ottocento.

La trama narra le vicende del difficile amore tra Enrico e Agnese sullo sfondo delle lotte per la supremazia tra Guelfi e Ghibellini tedeschi ai tempi dell’imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa. La ragazza è stata promessa dall’imperatore al re di Francia Filippo II.

I due innamorati si sposano clandestinamente e la cosa rischierebbe di avere poi conseguenze politiche se la magnanimità del re francese e l’arrivo di Enrico il Leone, padre del giovane, non calmassero le acque, ricostituendo la concordia tra il sovrano tedesco e i principi dell’impero. Musicalmente, nella partitura dell’ Agnese si trova davvero di tutto, sì che risulta variopinta, sebbene un po’ elementare, arricchita da un rampollare continuo di melodie, spesso semplicissime, che si arresta in momenti solistici di musicalità accattivante e sapiente. Un esempio di questa sapienza è l’aria della protagonista:

«Quando Zefiro a volo…» all’inizio della seconda parte del primo atto: una bellissima melodia si distende sul sospiro degli archi, con accenti quasi di barcarola, reminiscenza forse del periodo napoletano del musicista. Duetti e concertati sembrano ogni tanto dilungarsi in cincischiamenti, ma ecco d’improvviso che avviene di nuovo il miracolo e il canto acquista sinuosità suggestive ed efficaci, sostenuto e accompagnato dall’orchestra, governata con vera perizia compositiva. Tra i molti momenti di grande efficacia musicale, ricordiamo la scena con cui si apre la parte seconda del secondo atto, col coro delle monache nella cappella del convento, in cui la semplicità melodica riesce ad accentuare il pathos, evitando ogni scivolata in un cattivo gusto che si affaccerà qua e là nel seguito, annoiando un poco, per quel sospetto di convenzionalità che, del resto si era già insinuato nel primo atto con la Danza dei Tritoni al seguito del Reno, oscillante tra Offenbach e la musica da circo. Effettacci da banda sono stati spesso il risultato ottenuto dall’orchestra che Maximiano Valdes non ha saputo controllare, permettendo squilibri in tutte le sezioni orchestrali e pesantezze insopportabili. Un pasticcio strumentale attraverso cui. le voci stentavano a farsi sentire.

Del resto, la realizzazione complessiva di questa non facile opera è stata pessima per ogni aspetto, a cominciare dalla scelta di Montserrat Caballé nella parte della giovane Agnese. Noi pensiamo che in teatro tutto si possa fare: gli uomini possono interpretare parti femminili e le donne ruoli maschili, i brutti dar corpo a personaggi avvenenti, i giovani far parti da vecchi; purché però il trucco non si veda; o, se si vede, deve essere funzionale all’espressione artistica. La scelta della cantante è stata invece dissennata, non solo perché, immensa e immota, limitava la sua gestualità all’atto di aprire le braccia con le palme delle mani rivolte al cielo, come chi si aspetti da un momento all’altro le divine stimmate; ma ancor più perché sprigionava una voce del tutto inadatta al personaggio, per quanto di per sé potesse essere bella, come ha saputo dimostrare in un solo momento che è stato di assoluta perfezione, proprio in quella sorta di dolce barcarola napoletana di cui abbiamo detto. Per il resto era totalmente fuori ruolo e quando traspariva – abbastanza spesso a dire il vero – l’artigliata della grande cantante, allora faceva pensare più a una splendida Azucena che non a una vergine tedesca. Ci piacerebbe sapere, poi, chi è stato il burlone che ha scelto Glenys Linos per la parte della madre di Agnese: la sua minuta figura e la flebile voce ne facevano l’esatta metà fisica e vocale della «figlia».

Molto bravi Ezio Di Cesare e Veriano Luchetti, rispettivamente Filippo ed Enrico, dalle belle voci, fluide e bene impostate, anche se un po’ troppo simili. Gli altri hanno fatto del loro meglio, come pure il coro diretto da Ine Meisters.

Ci risulta incomprensibile perché Antonio Calenda si ostini a voler firmare la regia di opere liriche, se poi si guarda bene dal dare anche la ben minima impostazione registica percepibile. Se poi qualche responsabilità gli si può attribuire, allora è sua la colpa di una collocazione sempre sbagliata dei cantanti sulla scena, come se non si fosse reso conto che chi canta emette un suono, ed è bene che questo suono sia percepito al meglio da tutto il pubblico.

Le scene di Nicola Rubertelli ci sono parse eccessive ed incoerenti: con citazioni sparse dal gotico al neo-classico, con frammenti barocchi cui i costumi di Maurizio Monteverde si adeguavano in rassegnata monotonia cromatica. La coreografia di Margarita Trayanova ha perduto una bella occasione al momento della danza dei tritoni.

Il pubblico ha quasi sempre una gran voglia di applaudire, questa voglia non può che accentuarsi la sera dell’inaugurazione della stagione, così è stato, in un trionfo di dorata mondanità, tra la generale soddisfazione!

27 – Dicembre ‘86

lunedì, 1 dicembre 1986

Il 3 novembre porta ancora con sé l’atmosfera lugubre e gelida del giorno dei Morti; forse ciò spiega la gelida depressione che aleggiava nella sala Orfeo del Teatro dell’Orologio, all’apertura della settimana dedicata alle Nuove Forme Sonore. Abbiamo visto un pubblico dall’atteggiamento scostante, subire, fingendo (male) di apprezzarla, un’ora di orribile musica. A noi è soprattutto dispiaciuto che, in queste pretese nuove forme della musica, ci sia così poco di nuovo e tutto invece risulti scontato e risaputo: un’obsoleta accozzaglia di vecchie sonorità, malamente riciclate.

Sono stati eseguiti cinque brani di cui riferiamo per dovere di cronaca:

Under the Moon, di Fernando Mencherini, per trombone, in prima esecuzione assoluta, consisteva in una bruttissima ricerca timbrica, basata su di una sola idea, noiosamente ripetuta: dopo un’amalgama di suoni, sempre molto sgradevoli, veniva dallo strumento, puntuale e prevedibile, uno «schiocco-pernacchia» e questo per tutto il pezzo.

Etiquettes, di Edgar Alandia, per pianoforte, tentava di costruire un discorso timbrico; ma l’esito era uno squallidissimo brano da salotto.

Chez Perez, di Giancarlo Schiaffini, per otto strumenti, in prima esecuzione assoluta, risultava essere di sconfortante ovvietà, intriso di sentimentalismo dolci astro, e trovava i suoi spunti migliori in una risibile parodia delle sonorità di Ligeti.

Estructuras I, di Jesus Villa Rojo, per quattro legni, in prima esecuzione italiana, si limitava ad un’antologia di trilli, cigolii, rumori, volgari trucchi, come la riproduzione onomatopeica del rumore del vento tra le fronde e lo struscio delle labbra sull’imboccatura dello strumento ed in più qualche suono direttamente proveniente dall’apparato gastrico e respiratorio.

Monsieur Piquot l’eremita, di Arduino Gottardo, per trombone e otto strumenti, riproponeva (inspiegabilmente, poiché gli autori sono diversi) la stessa formula sonora del trombone udita nel primo brano, con l’aggiunta, qua e là, di qualche muggito, su di un brulicante ed indistinto sotto fondo sonoro.

Sebbene gli esecutori fossero abbastanza giovani, ci hanno stupito le loro esecuzioni flaccide ed eccessivamente depresse, consiglieremmo loro, visto che sembrano avere rapporti di amicizia, non solo di smettere di comporre e di suonare, ma di iniziare un trattamento psicoterapeutico di gruppo.

Sempre per quel dovere di cronaca cui abbiamo prima accennato, elenchiamo i loro nomi, ma non siamo certi che ciò li possa favorire: Annalisa Spadolini, flauto; Sandro Pippa, oboe; Roberto Rosi, clarinetto; Silvia Pizzolato, fagotto; Giancarlo Schiaffini, trombone; Shalom Budeer e Luciana Ciolfi, violini; Dan Vartolomei, viola; Vincenzo Cavallo, violoncello; Valeria Tarsetti, pianoforte.

27 – Dicembre ‘86

lunedì, 1 dicembre 1986

Tabacchiere

Pare che Wolfgang Amadeus Mozart fosse affranto dal numero eccessivo di tabacchiere con cui principi e vescovi ritenevano opportuno ricompensarlo dopo un concerto o per una partitura appositamente scritta. Questi oggetti assolutamente superflui, per quanto preziosi, potevano difficilmente costituire una solida base per un padre di famiglia alle prese con i problemi di ogni giorno. Evidentemente non riuscì a fare in modo che i nobili del tempo cambiassero le loro abitudini, se ancora nel 1790 scriveva all’amico Puchberg che era sua viva speranza di arrivare ad avere almeno otto allievi che gli garantissero l’indispensabile per sopravvivere. Così accadde che morisse in miseria l’uomo la cui musica avrebbe garantito a molti la ricchezza nei secoli successivi. Anche oggi il mondo è prodigo di tabacchiere con artisti e scienziati, che, spesso, per vivere e per lavorare, sono costretti a restar abbarbicati ad un impiego o, peggio, a far le muse «appigionate» alla corte di questo o di quello. Persino il premio Nobel è una sorta di tabacchiera, se confrontato con i problemi economici della ricerca scientifica; e le passerelle dei premi letterari ed artistici sono addirittura un affronto all’indigenza di troppi letterati ed artisti. Eppure l’arte e la scienza rendono ricche molte persone che solo raramente sono artisti e scienziati. Il problema non è solo quello della mercificazione: infatti perché turbarsi, visto che tutti siamo anche
merce? Il problema caso mai potrebbe essere quello della distribuzione dei guadagni, visto che scienziati ed artisti producono ricchezza. Un problema che si aggiunge ai problemi è quello del criterio in base al quale si decide di rimunerare lo scienziato e l’artista, che, in genere, è proporzionale alla quantità di denaro che è capace di mettere in movimento. Qui la strada dello scienziato si divide da quella dell’artista: infatti il valore scientifico è proporzionale al valore economico in modo diretto, mentre inverso sembra essere il rapporto tra valore artistico e la moneta con cui lo si paga, almeno fino ad una certa soglia.
Questa inversione del rapporto fa pensare con profonda sfiducia al possibile valore morale di gran parte dell’umanità, che infatti, rivolgendo le sue preferenze alle manifestazioni più scadenti dell’arte dello spettacolo, ne determina il successo anche economico. Si viene così a determinare un razzismo metafisico: da una parte pochi intellettuali che disprezzano l’umanità sterminata che ha il difetto di essere mediocre e dall’altra folle che sopraffanno, insieme con il proprio, ogni altro anelito individuale verso meno piatti valori. A monte, c’è il problema culturale ed il problema economico da cui la cultura dipende: il circolo è, come si dice, «vizioso». Chi è più furbo: Mozart, morto di fame tra le inutili tabacchiere o chi, oltre che ottenere il Premio Nobel, avrà saputo organizzare un maggiore o minore organismo economico in grado di dare la sicurezza a lui ed ai suoi figli? Ai posteri non importerà neppure di saperlo.

27 – Dicembre ‘86

lunedì, 1 dicembre 1986

Arturo Martini (Treviso 1889 – Milano 1947) è indubbiamente un artista significativo nel panorama della scultura italiana recente. In anni di intensa attività, ha saputo assorbire suggestioni dell’antico e del presente, rielaborandole e riproponendole con intelligenza ed originalità.
La mostra allestita alla galleria Arco Farnese in via Giulia 180, potrebbe offrire buoni spunti di riflessione, se lo spettatore non fosse oppresso da un ambiente angusto e sgradevole e le opere affastellate malamente. In quel soffocante affollamento si ha una brutta sensazione che accentua anche la poca simpatia che le opere di Martini ispirano. Il lavorio dell’artista è evidente, così la ricerca, ma tutto è leggermente odioso, con un pizzico di volgarità, una paura di dire che fa sì che si dica troppo poco. Non c’è, nella sua opera, eroismo e c’è poca poesia. Il tentativo poetico è insistito soprattutto nei lavori del periodo dègli «etruschi» o «alessandrino» come le terre cotte Figura d’uomo, L’ospitalità e La moglie del pescatore, tutte datate tra il 1930 e il 1931 e nella Nena di poco precedente (1928), ispirata ad una scultura classica di cui una copia è conservata al Museo dei Conservatori di Roma. Ancora di ispirazione classica il Torso virile del 1928 versione in terracotta di un soggetto replicato anche in bronzo, e in gesso, che raffigura in realtà solo una schiena di ragazzo (il verso è cavo), in cui lo sforzo di ritrovare il ritmo e il respiro degli antichi capolavori greci è più che mai evidente, benché malamente riuscito.
Due enormi bronzi: Il dormiente del 1921 e La Zingara del 1934-35, pur nella distanza cronologica, ci paiono confermare un grande limite di Martini, che soggiace spesso al peso delle grandi masse, grevi ed inespressive e decisamente volgari. Del tutto squallida è anche quell’orribile smorfia che appare su alcuni volti, che dissennatamente è stata da qualcuno chiamata «sorriso arcaico». Il movimento dei «Valori plastici», di cui Martini è considerato notevole esponente, accolse tra le sue fila artisti di orientamento molto diverso che, per un certo periodo, cedettero ad una sorta di fraintesa esigenza di classicità che vollero rintracciare nell’arte italiana del quattordicesimo e quindicesimo secolo e in una sorta di filosofia neo-platonica che Mario Broglio propagandò dalle pagine della sua rivista. I Greci e gli Etruschi sono però quasi estranei a Martini che si trova più a suo agio in un espressionismo borghese che si esprime al meglio in ritratti come Lo Zio del 1924 o Lilian Gish del 1930.

Alla galleria d’arte la Margherita di via Giulia 108, sono esposte le ultime sculture ed alcuni acquarelli di Valeriano Trubbiani, scultore marchigiano attivo ormai da molti anni e approdato a questa «Insula felix» come ha intitolato questa sua mostra, dopo esperienze apocalittiche ed orripilanti che ora ci pare avere raggiunto una visione della realtà distesa, ironica, magari un po’ favolistica e che ha acquisito una capacità di trattare i materiali con morbida eleganza. Qua e là è ancora percepibile una sottile ansia, come un timore di catastrofe, stemperato però dall’accentuata piacevolezza delle forme. Quelle che si vedono sono immagini antiche di città metafisiche come l’insula silentis o la urbis fragilis: architetture in cima a paesaggi di rocce cangianti, tra cui sono acquattate belve, dominate da fallici e pudichi alberi, e dallo sguardo di un fisso Savonarola. Oppure migrazioni di ippopotami e rinoceronti in compagnia di pesci, affondati in immersioni lacustri, o impegnati in pericolosi trasbordi. Ancora macchine belliche o industriali, minacciose e presaghe come il nosocomium rhinoceros o le mirabilia turrita urbis. Il gioco con una bizzarra lingua latina, insieme con le citazioni stilistiche, che vanno dall’antichità più remota . al futuro, passando per il gotico, il barocco ed il neo-classicismo, sono un tentativo di comunicare che, se pure non sempre va in porto, ugualmente coinvolge. Più liberi e soltanto piacevoli gli acquarelli dai bei colori e dal segno preciso che riecheggiano soggetti analoghi con meno preoccupazione.

All’Isola, di via Gregoriana 5, sono esposte 16 sculture di Giacomo Manzù realizzate tra il 1980 ed il 1986, accompagnate anche da alcuni disegni.
Non sappiamo se chi ha curato la mostra abbia fatto una scelta o semplicemente si tratti di opere che hanno in comune il periodo della loro creazione, ma l’effetto complessivo è di grande intensità espressiva, tanto coerente appare il dialogo tra di loro e con il visitatore.
L’arte di Manzù ha secondo noi un pregio che è proprio dei prodotti dei grandi artisti: l’immediata comprensibilità. Una comprensibilità che però non si esaurisce, ma si approfondisce e si rinnova continuamente. La sua poetica non usa mai il facile effetto, ma costruisce immagini salde nella fattura, di una raffinatezza semplicissima e disarmante.
Noi vogliamo tra le opere esposte privilegiarne una: Il muro dell’Odissea, un bronzo dorato del 1985. Ci è così piaciuta che avremmo desiderato che fosse presentata da sola, tanto è perfetta, completa espressione di un mondo artistico che ha i pregi della prorompente sensualità, della narrazione mitica, del gusto minuzioso del particolare. Tutte caratteristiche esaltate dalla solarità splendente dell’oro che ricopre le figure, scandite con mirabile euritmia su di un unico fronte.
Anche in tutte le altre opere esposte si manifesta però evidente un grande amore per la vita e per l’essere umano, visto in atteggiamenti quotidiani e divini ad un tempo. Forme che affascinano lo sguardo, che si accarezzano con un brivido:
siano fanciulle, cardinali oppure persino cesti di frutta di caravaggesco vigore, e di barocca monumentalità.
Non pensiamo che Manzù sia lo scultore perfetto: anzi anche tra le opere di questa mostra abbiamo qualche cosa da ridire: non c’è piaciuta per esempio la retorica del grande passo di danza e abbiamo trovato che gli amanti sono un bronzo sgradevole, con un sospetto di oscenità che, però, stranamente, non si ritrova nel disegno sullo stesso argomento, pure esposto. Non è la perfezione la qualità che si richiede ad un grande scultore!

27 – Dicembre ‘86

lunedì, 1 dicembre 1986

Giorgio Caproni, con Il Conte di Kevenhüller (ed. Garzanti, 1986, p. 182, Lit. 26.000) ha offerto agli amanti della sua poesia un dono quasi inatteso, che ha stupito più d’uno, nel momento del suo apparire, non molto tempo dopo che nella stessa collana era stato stampato il volume contenente tutte le poesie. Insieme al dono c’è forse un’intenzione che è enigmatico decifrare e che pare essere contenuta già nel titolo. Il titolo è un elemento forse non necessario per una raccolta di poesie; eppure questa volta tutti i titoli paiono specchiarsi nei versi che seguono, ma i versi sono titoli, a loro volta, per i titoli che li precedono. Un governatore di Milano emana un editto, promettendo una ricompensa a chi ucciderà la fiera che ha sbranato due fanciulli. Ma «La Bestia assassina/La Bestia che nessuno mai vide» è proprio la Parola: se si ucciderà la Parola non resterà che il silenzio?
Allora ecco le immagini, e, oltre, i suoni, che non sono Parola e non hanno corpo, eppure con i suoni e con le immagini ritorna la Parola: «la porta Morgana» che conduce al luogo dove si trova «la sola preda degna».
Vorremmo dire a Caproni che abbiamo trovato i suoi versi bellissimi, immediati e antichi, in cui ironia e paura si confondono, e rivolgergli una domanda: perché il suo Papageno non dice esplicito quell’unico verso (Gute Nacht du falsche Welt!) in cui ci pare sia racchiuso il senso di questo bellissimo libro di Poesia?

27 – Dicembre ‘86

lunedì, 1 dicembre 1986

Da pochissimo tempo, in Trastevere, e più precisamente al numero 80 di via di Ponte Sisto, appena attraversato il fiume, è sorto l’ennesimo nuovo ristorantino, che pretende di aver cucina e décor fuori dall’ordinario. Orient Express recita l’insegna metallica sull’angolo. All’interno,in una doppia lunga sala, si trova l’arredo un po’ incongruo di un vagone di terza classe della antica linea Roma Viterbo. Sono infatti sedili, reticelle per i bagagli, finestrini, suppellettili misere e ben lontane dal rievocare gli splendori di principi russi in esilio, miliardari sudamericani e avventurieri balcanici.
Anche il cibo risente di un «volere e non potere» e avrebbe provocato vere crisi di nervi all’imperturbabile investigatore Hercule Poirot.
Per cominciare, ci è stato servito un aperitivo che non apre un bel niente, si tratta infatti di una mistura dolcissima, caldiccia e pesante, forse gradevole all’ora del punch, ma assolutamente fuori luogo all’inizio di una cena, sia pure ad ora tarda. Gli antipasti che abbiamo assaggiato sono stati un taboulet (cous-cous) servito in minuscole ciotoline, completamente asciutto, con tre olive e alcune striscioline di peperone crudo e la perelle savoiarde, cioè una rielaborazione del cacio e pere dell’antico villano, ma neanche colui avrebbe saputo apprezzare quella peruzza cotta, tagliata a metà e guarnita da un baffo di formaggio montato a crema e un gheriglio di noce. Tra i primi piatti, non ci sono piaciute le quiche per la sfoglia cruda e l’inconsistenza del sapore, mentre abbiamo trovato passabile il gateau Parmantier, nonostante una consistenza e un aspetto più degni di un crocchettone di patate che altro; il trionfo dell’orrido esilarante è però stato un piatto di spaghetti alla Vedova allegra, giustamente immersi in un luttuoso nero di seppia, che seppur avesse solo sapore di sale, era veramente allegro e, a dispetto di ogni legge gravitazionale schizzava il nero inchiostro per ogni dove, ancor prima che la sgomenta nostra amica tentasse, con la forchetta, un movimento qualsiasi, riempiendo di nere macchioline nasi, vestiti, tovaglie e pareti. Tra i secondi, oltre un ovvio e rinsecchito Kebab e al filetto ai funghi (secchi) porcini, immerso nella solita panna, lo chef ha avuto la presunzione di proporre un pomposo filetto alla Wellington (una preparazione in crosta della cosiddetta «grande cui sine» quanto mai difficile anche per il più provetto dei cuochi) e mal gliene è incolto, poiché la sfoglia pareva strappata al muro del palazzo di Erode di un presepio napoletano e avvolgeva un filetto «ricostituito», quanto mai a pezzi e bocconi. Per dessert, oltre alla prevedibile mousse al cioccolato farinosa più del lecito, ‘c’è stata proposta una assurda lumaca, formata da una banana ricoperta di cioccolato, con una pallina di gelato e due pericolosi stecchini in guisa di cornetti, la pasta delle crepes era poi troppo elastica, segno di poca freschezza, e la preparazione fiammeggiata era senza sapore.
Abbiamo bevuto il solito buon Pinot Grigio di Gajerhof del 1985 e un Valpolicella Bolla del 1984, giusto per colore, profumo e sapidità. Il conto, pur elevato, non c’è parso eccessivo per l’ora tarda, per lo spreco di personale gentile, anche se non molto esperto, e per un viaggio in compagnia di tante illusioni perdute!

In via del Vantaggio 43, non lontano da piazza del Popolo, prospera da qualche tempo il ristorante Il Melarancio: due sale di gusto vagamente retrò, con rilievi di stucco colorato sulle pareti arancioni, cascate di verde, naturale ed artificiale, troppi tavolini con fiorellini e candeline sulle tovagliette verdi e arancioni. Tutti gli ingredienti, insomma, per una cenetta tra buone cose di pessimo gusto. Ma non buona e solo pessima è la cucina, tanto che ha ispirato ad uno dei, nostri più cari amici un lepido calembour: «poubelle cuisine». In effetti, nei piatti ci è arrivata proprio spazzatura: l’insalata esotica era un miscuglio insensato di verdure tagliuzzate, praticamente senza condimento, in una grandissima e appariscente coppa di vetro; l’avocado, pur maturo al punto giusto, era appena velato da una timida e triste vinaigrette; i chicchi caldi del mais al burro erano incomprensibilmente associati ad un mucchietto di carote grattugiate e scondite. Se questi sono stati gli antipasti, coi primi piatti ci è andata anche peggio: rigatoni ai funghi porcini, rivoltanti per l’accostamento tra l’eccessiva panna dolciastra e l’amaro del formaggio che ricoprivano una pasta senza sapore e poche scagliette di funghi disseccati; le linguine con la rughetta erano salate in modo assurdo e acide per il pomodoro quasi crudo; il colmo l’hanno raggiunto però i due piatti di riso, i cui chicchi super-brillati e super-plastificati erano pure scotti, entrambi dolci come conviene solo ai dessert, benché uno fosse al radicchio, inoltre consideriamo un infortunio il biondo capello nel piatto, ma di quelli che un ristoratore deve ad ogni costo evitare. Olivette con funghi erano l’equivoco nome di un secondo a base di polpettine al pomodoro e il boccone del melarancio consisteva in due fettine arrotolate attorno ad uno stecchino; solo la pezza al gorgonzola aveva il vantaggio di corrispondere alle aspettative, consisteva infatti nell’incontro casuale, avvenuto in un piatto, tra una fetta di carne ed un pezzo di gorgonzola; accettabile sarebbe stato il filetto al pepe, per il buon taglio di carne, sommerso però da una densa pappina farinosa, cosparsa di piccanti chicchi di pepe che risultavano, a quel punto, corpi estranei.
Coi vini, l’inizio è stato tragico: un rosé Coccianello, novello 1985, imbevibile, per l’assurdo gusto metallico, che ci ha subito fatto ripiegare sui «soliti» affidabili, tra i pochi della lista: un Pinot Grigio di Livon dell’85 e un Dolcetto d’Alba di Oddero del 1984, gradevole, armonico, e dalla buona stoffa.
Il servizio, assolutamente non professionale, ha oscillato sempre tra l’inefficacia e l’invadenza. Riconosciamo che il nostro scarso spirito di abnegazione ci ha fatto venir meno le forze al momento del dolce; così abbiamo rapidamente pagato un conto, bisogna dire molto onesto, e siamo usciti da questa specie di «ristorante di Barbie» coi suoi tavoli affollatissimi di bambinacce e bambinoni, impegnati nel gioco: andiamo fuori a cena.

27 – Dicembre ‘86

lunedì, 1 dicembre 1986

Due parole sono di prammatica sul ripristinato Teatro della Cometa, sorto a nuova vita dopo l’incendio del 1969, rifatto con cura e buon gusto, negli stessi piccoli, ma armonici spazi, del palazzo Pecci-Blunt, proprio ai piedi dell’Ara Coeli. Il primo spettacolo di questa nuova e speriamo lunghissima vita teatrale è stato La Santa sulla scopa, di Luigi Magni, testo gradevole, simpatico, ironico, in alcuni punti decisamente umoristico, con qualche momento di tristezza e di autentica commozione, per di più presentato in veste quanto mai adatta alla circostanza: ben confezionato e persino un po’ patinato. La storia è tutta giocata tra fantasia e realtà, proprio come si addice ad una vicenda di streghe. Nella Roma barocca, la strega Silvestra e la suora Apollonia, in odore di santità, si incontrano nel carcere dove vegliano in attesa dell’alba in cui la prima dovrà bruciare sul rogo. Silvestra, che è una vera strega, è anche umana, tenera ed ironica; la santa monaca è stralunata, presuntuosa e sadomasochista. In un gradevole dialetto romanesco, peraltro abbastanza addomesticato, le due intrecciano dialoghi spassosissimi. Sulla sfondo si percepisce Roma, magica come sempre, mezza vera e mezza falsa, favolosa e pezzente, ma con un fascino irresistibile.
Bene si inseriscono in questa atmosfera magico-realistica le belle canzoni di Bruno Lauzi.
Abbiamo detto che lo spettacolo è ben confezionato e «patinato», ma Luigi Magni, che è anche il regista, tiene sempre sotto controllo ogni gesto, valutandone tutti i possibili effetti, riuscendo a dominare anche la policroma, fastosa orgia di forme e colori delle scene e dei costumi di Lucia Mirisola, assecondato dalla cura dei movimenti coreografici di Mirella Aguiaro. Valeria D’Obici, nelle vesti della monaca Apollonia è assolutamente impareggiabile; fisicamente rilevante, capace di una mimica irresistibile, dal ritmo sempre preciso, con un repertorio quasi infinito di cangianti sfumature. Invece Maria Rosaria Omaggio è di una bellezza eccessiva, ma è immobile come una statua, dice le sue battute con troppa lentezza, come se leggesse versi di Trilussa ad una recita di beneficenza.
Riesce però ad essere brava solo quando canta con la sua voce sensualissima le canzoni dedicate a Roma.
Dopo questo ottimo spettacolo, fa particolarmente piacere trovare fuori dal teatro questa Roma fascinosa, «mezza vera e mezza falsa», più bella a tarda notte, perché si sono diradate persino le automobili.

Chi va per le fronde di Franz Xaver Kroetz, è un capitolo della rassegna «Tradimenti brechtiani», la nuova drammaturgia tedesca tra il 1956 e il 1986, in programma in questi mesi al Teatro Colosseo di via Capo d’Africa 5, con la collaborazione di molte istituzioni e inserito nella produzione della stagione teatrale del Beat ‘72.
Non sappiamo bene perché gli organizzatori ritengano questo teatro un tradimento di Bertolt Brecht, ma poco ci importa chiarirlo. Sta di fatto che Kroetz è un autore che nel suo paese sta registrando un certo successo. Questo suo testo ha caratteristiche di marcato iper-realismo. La storia è quella di Otto e Marta: il primo è un volgare ed antipatico operaio, maschio con le caratteristiche un po’ stereotipe del personaggio della commedia femminista: tirannico e infantile allo stesso tempo, monotonamente insistito nel suo alternare la strafottenza alla debolezza. La seconda è Marta, donna sola, non più giovane e non bella, con tutte le caratteristiche della commerciante: concreta, avara ed astuta, che, però, per amore di Otto, diventa talvolta ingenua e persino tenera. Il negozio di cui si occupa è una «tripperia», cioè una sorta di macelleria specializzata in interiora e frattaglie, il che da ovvie tinte sanguigne all’ambiente generale. Otto è dapprima geloso del cane di lei, poi non regge il confronto con le trippe, per cui se ne va come è venuto, e a Marta restano solo le pagine del suo diario.
Questo è iper-realismo, per cui la iper-noia dello spettatore è davanti ad una iper-realtà e non già alla realtà pura e semplice che, per fortuna, è sempre un po’ più divertente, anche nelle situazioni più volutamente desolanti come quelle che l’autore vuole rappresentare.
Il linguaggio, poverissimo di vocaboli (non sappiamo però se ciò sia dovuto alla traduzione di Peter Kammerer e Graziella Galvani), rende ancor più penosi da seguire i ripetitivi dialoghi.
La scena e i costumi di Carlo Savi sono punte di accurata meticolosità iper-realista, per le forme, i colori, gli spazi e gli ambienti, con particolari esasperati (l’acqua che esce davvero dal rubinetto, la pioggia che scroscia, il vassoio delle trippe nel frigidaire).
Molto bravi Remo Girone e Graziella Galvani nei due ruoli: non hanno cercato di andare oltre il testo, magari violentandolo per vivacizzarlo, cosa che comunque non sarebbe stata possibile.
Bene hanno quindi fatto a scegliere di calarsi fino in fondo nella penosa monotonia di uno squallido rapporto d’amore, in una cittadina di provincia tedesca, tra parolacce, gesti volgari e odore di trippe.
Hanno anche scelto una dizione scorretta, con forti inflessioni «cispadane», sgradevole ma efficace. I movimenti scenici, suggeriti dalla buona regia di Flavio Ambrosini, erano accurati e intelligenti. Qua e là si udivano sprazzi di canzoni di Wolf Bierman, che avevano la funzione di stacco tra un momento e l’altro della narrazione.
Ci dispiace che uno spettacolo culturalmente molto interessante risultasse, almeno la sera in cui c’eravamo noi, disertato dal pubblico: noi invitiamo chi ha interesse per,la cultura e le sue manifestazioni più attuali a seguire questa rassegna di testi e autori di grande interesse.

I Farfalloni seguono e apprezzano Marco Maltauro fin dagli anni della Accademia d’arte drammatica; ci ha lasciati però perplessi questo suo gesto, per metà coraggioso e per metà ribaldo, di scrivere per sé il testo Me & My Shadow: gli è infatti uscito dalle mani un guazzabuglio spocchioso, antiteatrale e incomprensibile. Inconsistente è la vicenda di Giovanni, chiuso nella sua stanza in compagnia del poster di Frank Sinatra, sordo al richiamo di Fiamma, innamorato ectoplasma, che gli parla del suo compleanno e di un professore che gli ha scritto tante lettere, prima di morire. Vestito come il vetusto idolo della gigantografia, il giovane Maltauro snocciola tiritere ondeggianti tra D’Annunzio, De André e Kerouac, esibendosi in una pretesa poeticità sfacciatamente narcisistica. L’attore è in gamba, ma l’autore gli si accanisce contro, massacrandone le velleità.
Molto brava Almerica Schiavo nei panni della donna presente solo perché evocata da un pensiero che anche la respinge.
Bravissimi i dieci componenti della «Swing Time» nell’eseguire le musiche più note del repertorio dell’idolo di Las Vegas; solo non si capisce – o forse si capisce troppo che è per allentare la noia – perché ogni tanto entri in scena, corredata di coppie di fidanzatini che ballano.
La regista Rita Tamburi ha fatto del suo meglio per coordinare il tutto, ma non è riuscita a brillare su quel nero totale, spezzato solo dai tre bianchi gradinoni di Adolfo Mazza.
Continuiamo ad apprezzare l’attore Maltauro cui consigliamo lo studio approfondito di un testo come L’amore delle tre melarance di Carlo Gozzi.