Psicoanalisi contro n. 27 – Mutamenti

dicembre , 1986

È una cosa risaputa che la maggior parte di coloro che intraprendono un trattamento psicoanalitico prima o poi fantasticheranno di diventare anche loro psicoterapeuti. Le ragioni sono molte, si intrecciano tra loro e spesso sono contraddittorie, alcune affondano in suggestioni antiche, infantili. Il lavorio della psicoanalisi e il rapporto mai banale – si spera – con lo psicoanalista smuovono in profondità acque da lungo tempo stagnanti, sature di lontani desideri che ora si fanno avanti, anche all’improvviso. Può accadere così che un paziente entri nella stanza dell’analisi e, sedendo con aria di sfida o di seduzione, dica: «Ho deciso di mettermi a dipingere: l’altro giorno abbiamo parlato della mia infanzia e mi sono ricordato che allora mi piacevano molto i colori e imbrattavo fogli e fogli di strane figure variopinte. Ho nella mente il ricordo di immagini bellissime – certo è un mio falso ricordo – ma vorrei riprovare». Oppure: «Ho deciso di riprendere gli studi: avevo sostenuto quattro esami, sono tre anni che ho interrotto, ora voglio ricominciare». Altri dichiarano di volersi iscrivere in palestra: «Vorrei migliorare il mio corpo, mi sento flaccido, mi sento brutto, mentre prima mi sentivo meglio, non pensi che la palestra potrebbe servirmi?». Qualcuno ancora dice: «Ho deciso di cambiare disposizione ai mobili della mia stanza, la trovo disarmonica, vi devo aggiungere qualcosa di più caldo, di più sensuale; voglio che divenga accogliente. Non avevo mai pensato prima all’importanza della mia camera». Una ragazza mi disse: «Ho deciso di mangiare i molluschi». Le domandai: «Perché?», «Perché mi hanno sempre fatto schifo e adesso ho l’impressione che non sia più così. L’altra sera, al ristorante, quasi stavo per ordinarli, ma poi mi è venuto tutto un tremito, ero però molto eccitata, come se fosse qualcosa d’importante decidere di ordinare quei molluschi. Certo, l’affermazione che sto per fare, la posso fare solo qui, in questa stanza: sento che riuscire a mangiare quegli animali sarebbe per me molto importante. Ho una sensazione di ribrezzo e di gioia allo stesso tempo se ci penso».

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Sono piccoli-grandi cambiamenti su cui si affollano fantasie. Spesso durante l’analisi la voglia di cambiare nasce dal desiderio di fare qualcosa che possa far piacere all’analista. C’è chi decide di iniziare a studiare uno strumento musicale, di andare a lezione di cucina o di occuparsi di enologia. Ho notato che alcuni miei pazienti si mettono a frequentare i teatri o ad ascoltare con assiduità la musica classica: per farmi piacere, per essere come me e forse anche per scoprirmi, scoprire qualcosa di me senza dovermelo chiedere; perché, se per un verso, è vero che il paziente desidera conoscere molto dell’analista: la sua vita, i suoi gusti, le sue abitudini sessuali, è anche vero che ha paura di conoscerlo direttamente prima di ave re acquisito una certa solidità psichica. Alcuni preferiscono studiare il loro analista facendosi raccontare aneddoti privati da terze persone, oppure scavando di nascosto nei suoi gusti. Io, ad esempio, adoro la Grecia e il barocco, ma soprattutto adoro la musica di Mozart, che, per me, è lavoce di Eros. Così talora si scruta in queste mie predilezioni per conoscere qualche cosa di me. Lo so, è anche come frugarmi tra i pantaloni, ma non solo. Tutte queste fantasie, questi desideri, questi sommovimenti si sommano e fanno sì che molte persone incomincino a fare cose che fino ad allora non avevano mai pensato di voler fare. Questi nuovi interessi talora svaniscono presto, talaltra si rivelano vere e proprie scoperte piacevoli che coinvolgeranno per sempre. Queste novità, oltre che doni al terapeuta, sono anche frutto di un allentamento di tensione; quasi sempre, infatti, poco dopo che l’analisi si è avviata i sintomi più dolorosi e pesanti regrediscono o comunque si fanno meno assillanti e nasce allora una voglia di fare, di scoprire, di provare piacere finalmente!
Quasi tutti i disagi psichici, più o meno gravi, sono a caratterizzati da una estrema difficoltà a provare piacere, tranquillamente e serenamente. O perché realmente si è frigidi, irrigiditi in una difficoltà a godere, oppure perché il piacere, seppur percepito, è accompagnato da ansia, timore di punizione, educazione che tenta lentamente, attraverso la religione e la sorveglianza delle mamme, di indurre il senso di colpa. Quante volte si è sentito dire da una madre al figlio: «Hai fatto questo e adesso Gesù piange, per colpa tua!» Terribile ricatto: forse, invece, Gesù era molto contento.

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Questi desideri, che si manifestano così vivi nel primo periodo del lavoro analitico, debbono essere affrontati con due distinti atteggiamenti, che devono però procedere paralleli. Il primo atteggiamento porta a considerarli come formazioni sintomatiche, poiché sono anche l’elaborazione di conflitti profondi che affiorano sotto forma di desideri allegri, appena velati da un’ombra di ansia; però se si scava più a fondo vi si può vedere dietro una insoddisfazione o, peggio, una depressione latente per cui bisogna lavorare per chiarire i complicati intrighi che li hanno prodotti. Il secondo atteggiamento deve essere di sollecita attenzione, evitando con cura ogni svalutazione. Infatti, anche se possono essere sintomi, sono pur sempre un tentativo di spezzare il grigiore di una vita opaca ed annoiata, afflitta da paure e inibizioni. Bisogna saper esaltare la potenziale allegria che affiora in queste fantasie, isolarne il nucleo ansiogeno e accompagnare affettuosamente il paziente in queste sue nuove avventure, che spesso, magari, finiranno nel nulla.
Coloro che manifestano una più ricca serie di nuovi desideri sono quelli che all’inizio dell’analisi risultavano maggiormente oppressi dall’incapacità di riuscire a portare a termine le imprese iniziate. Sono persone che dicono di aver sempre intrapreso con entusiasmo attività come lo studio delle lingue, o di uno strumento musicale, una nuova professione, un viaggio; ma per le quali poi tutto si tinge di grigio, ogni interesse va perduto, perché le persone e le cose che a prima vista sembrano affascinanti poi risultano noiose. A costoro tutto sembra monotono, tremendamente ripetitivo; perciò, quando è possibile, interrompono quello che hanno appena intrapreso con entusiasmo. È questo un atteggiamento, sgradevole e anche castrante, che sorge da una fuga narcisistica e da desideri di onnipotenza, per cui si vorrebbe chissà che e, alle prime difficoltà, ci si vendica, disinvestendo emotivamente e punendo il mondo, in una punizione che però si rivolta contro. La fantasia di onnipotenza e il narcisismo spiegano come l’obiettivo fosse `diverso da quello apparente, e ben più irraggiungibile e, di conseguenza, come l’interesse per le attività sostitutive presto cada. Molti sono quelli che passano di entusiasmo in entusiasmo e di noia in noia, finché un’apatica ed acida depressione li avvolgerà. Accuseranno gli altri e se stessi, il mondo e la vita. Chi giunge a questo punto è in una brutta situazione, poiché la voglia di punire e far soffrire gli altri diventa sempre meno controllabile ed inizia allora il processo delle aggressioni e dei sensi di colpa a catena.

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Può anche succedere, sia all’inizio del lavoro analitico, sia mentre l’analisi è in corso, che il paziente decida di cambiare qualcosa di fondamentale nella sua vita, o di compiere un gesto importante la cui portata è anche più significativa delle piccole e numerose decisioni di cui ho finora parlato. Sono gesti che intendono essere definitivi e che, maturati nella profondità dell’inconscio, possono cambiare la vita del paziente. Debbono, perciò, essere presi in attenta considerazione e trattati con grande cautela e capacità di comprensione.
Questa voglia di cambiare è in buona parte conseguenza del lavoro analitico: l’analisi destruttura, disorienta, poi chiarisce molte cose tanto che infine, lentamente, la persona comincia a modificarsi ed a modificare il suo rapporto con gli altri e il mondo stesso cambia. A maggior ragione, in questi casi, l’analista deve sempre andare alla ricerca di tutte le motivazioni e le risonanze presenti in queste decisioni di mutamento, in questi gesti significativi: quanto più il lavoro analitico sarà stato capace di incidere sulla persona, tanto più sarà importante che questi desideri vengano rispettati. Ciò non toglie, però, che assai spesso siano una rete che il paziente tende all’analista per catturarlo. Il bisogno di avere in proprio potere il terapeuta è una esigenza di molti pazienti che hanno tendenze estremamente possessive, derivate da una infanzia troppo libera a contatto con adulti privi di autentico interessamento, apatici o depressi, spesso lontani, malgrado la presenza fisica. Sono persone reduci da esperienze infantili che le hanno viste alle prese con madri querule, lamentose, completamente succube dei capricci dei figli, che hanno finito con l’educare alla violenza, anche affettiva; con padri troppo lontani e indaffarati, o anche troppo timidi e schivi, irrigiditi nel timore del contatto fisico ed emotivo. Questi rapporti educativi hanno abituato quei bambini a ricercare altrove legami stretti ed intensi. Successive frustrazioni li hanno trasformati in tirannici adulti insopportabili, sempre bisognosi d’affetto, e per questo disposti a inglobare, ingoiare e distruggere chi trovano sul loro cammino, nella disperata intenzione di conservare. Ma conservare che cosa? E dove? Quando questo genere di persone comincia a parlare di un cambiamento fondamentale di cui avverte forte il bisogno, l’analista deve essere in grado di riconoscere l’eventuale trappola.
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Questi pazienti diventano assillanti. Non ce la fanno più a continuare nelle occupazioni abituali, si dilungano in racconti di frustrazioni, favoleggiano dell’invidia dei colleghi. Ad esempio, un infermiere era giunto sino a sviluppare un leggero delirio persecutorio, per poter presentare al suo terapeuta una situazione davvero insostenibile, vissuta in ospedale, dove in effetti, col suo comportamento bislacco, era anche riuscito a circondarsi di compagni di lavoro irritati, medici e suore castratori ed infernali. Con questi mezzi si cerca di obbligare il terapeuta a dare il permesso di abbandonare la situazione di lavoro, abbastanza tranquilla in realtà, per altre meno sicure e anche poco congeniali o promettenti. Il paziente spesso giunge ad una astuzia sottilissima con argomentazioni tecniche, che ormai ha acquisito grazie all’analisi, riesce logicamente, quasi, a dimostrare che questo suo desiderio di cambiamento è il segno di una sana risposta vitale, conseguente al lavoro terapeutico: un segno della prossima guarigione.
Il terapeuta deve essere capace di valutare invece quanto sia fittizia la libertà che il suo paziente si ripromette di ottenere e quanto significhi un regresso piuttosto che un progresso, non solo dal punto di vista sociale, ma anche personale e psichico.
In questi casi, infatti, ci si trova di fronte ad un momento di grave disorientamento, con fantasie di onnipotenza deliranti, oppure esplosioni di autodistruttività, o, peggio ancora, si è davanti ad un gesto che intende consegnare il paziente completamente all’analista. Con il fallimento del progetto professionale si innesca una dinamica prevedibile: prima il cambiamento da una posizione di lavoro non entusiasmante ma soddisfacente ad un’altra più precaria e frustrante; dopo, nuove lamentele, nuovi propositi di cambiamento e recriminazioni. Piano piano si opera il passaggio alla colpevolizzazione dell’analista: «Sei stato tu che mi hai dato l’incoraggiamento in questa direzione ed adesso guarda in che stato mi trovo: ancora più insoddisfatto di prima e anche senza soldi; tocca a te ora pensare a me. »
Le richieste d’attenzione aumentano, possono addirittura comparire sintomi fisici. Il paziente comincia col telefonare a casa del terapeuta per chiedere consigli, denuncia sintomi di origine apparentemente neurologica, ha crisi di panico. Dietro a tutto questo c’è l’esigenza di essere accolto tra le braccia dell’analista perché se ne occupi finalmente in maniera totale. Affinché ciò non accada l’analista deve comportarsi in modo particolamente accorto, preciso e attento. Se non sa evitare di essere troppo blando, se ha paura di essere deciso nel toccare gli argomenti che hanno risonanze inconsce profonde, se non sa sensibilizzare il paziente costringendolo a rendersi conto del gioco che sta realmente facendo, si troverà di fronte ad una situazione drammatica
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Talvolta il paziente decide di avere un figlio e, in qualche caso, risulta chiaro che il figlio dovrebbe essere la realizzazione fantastica di un rapporto con il terapeuta. Le risorse della fantasia sono vive tanto che tale situazione si può determinare anche quando il paziente e il terapeuta sono persone del medesimo sesso: il gioco fantastico permette di decidere che lui o lei siano il padre o la madre di un figlio che ovviamente nella realtà è il risultato di un rapporto con un altro o con un’altra.
Un giorno una ragazza disse al suo analista: «Vorrei fare un figlio, ma mi piacerebbe non sapere chi ne fosse il padre; tanto non ho difficoltà a trovare maschi con cui andare a letto. Mi basta non usare precauzioni sino a quando mi accorgerò di essere incinta; non solo non lo dirò a lui, ma forse riuscirò persino a non sapere io stessa chi lo avrà generato. Così il figlio sarà tutto mio, soltanto mio». Dicendo ciò guardava l’analista con occhi volpini, pieni di segrete intenzioni. Rimase molto disorientata quando l’analista rispose: «Vuoi dire nostro !» Ebbe una crisi di rabbia, ma almeno abbandonò il progetto di quel figlio. Più grave è quando una paziente, e talora anche un paziente, vogliono coinvolgere il terapeuta in una pratica abortiva. S’intende non direttamente, ma in modo che sia partecipe di quella decisione espressa con la terribile frase: «Debbo abortire, non posso farne a meno». Sottintesa c’è l’altra frase «Io debbo uccidere e so di uccidere, di sopprimere una vita. Voglio però che anche tu sia partecipe di questo delitto, insieme dobbiamo essere gli autori dell’omicidio, insieme dobbiamo sentire la colpa di essere assassini. Sono stanca (sono stanco) del tuo essere al di sopra delle parti, del tuo voler essere puro; devi darmi tu il permesso di farlo, dobbiamo uccidere insieme». Se l’analista rifiuta il suo assenso, perché afferma il suo diritto e il suo dovere di schierarsi sempre per la vita e mai per la morte, la vendetta del paziente può essere pesante. Se si tratterrà dal realizzare il progetto omicida, presenterà il neonato all’analista come la conseguenza di una decisione che è solo sua: quel figlio sarà solo il figlio del terapeuta, il quale avrà il dovere di provvedervi, come dovrà provvedere al paziente, almeno moralmente. Questi sono trucchi, astuzie, fantasie e desideri che hanno alle spalle disperazioni antiche. L’analista deve stare attento a non cadere in trappola, perché rappresentano le insidie di una persona malata che non è ancora in grado di amare l’altro per quello che è, senza coinvolgerlo e inglobarlo in un meccanismo di ricatti distruttivi.

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L’esigenza di essere cauto, però, non deve far assumere allo psicoterapeuta un atteggiamento ingiusto e sbagliato: quello di scoraggiare sempre qualunque cambiamento importante durante il periodo dell’analisi. Questa è una prescrizione della psicoanalisi più antica, una delle più tristi e squallide, perché nasconde il desiderio di onnipotenza del terapeuta, convinto di poter e dover tenere il paziente prigioniero e bloccato nel meccanismo dell’analisi che egli solo può gestire. Un simile comportamento compromette irrimediabilmente le possibilità di guarigione, perché molti desideri di cambiamento non sono soltanto desideri di identificazione, di amore malato e di ricatto, ma sono talvolta veri passi verso la salute. Decidere di avere il coraggio di abbandonare un partner, di modificare alcune abitudini sessuali, di cambiare lavoro, di intraprendere con determinazione un difficle studio, di innamorarsi finalmente, sono spesso gesti che proprio dall’analisi debbono essere incoraggiati. Guai se l’analista blocca queste scelte salutari: gli effetti potrebbero essere distruttivi. Certo, queste scelte debbono essere operate nel segno di Eros, debbono essere calde adesioni alla vita, non fuga o irrigidimento difensivo. L’analista deve saper distinguere, se vuole arrogarsi il diritto di curare. Una analisi immobile, con un paziente immoto, prigioniero dei suoi fantasmi, mentre il terapeuta l’osserva impassibile, sentenziando ogni tanto come fosse un oracolo, ma senza aperture all’esterno, è una analisi che può andare avanti all’infinito, ma non per un infinito progredire, bensì per una indefinibile ed indefinita morbosa immobilità. Se durante l’analisi non avvengono cambiamenti capaci di coinvolgere anche l’esistenza esteriore, e non solo quella interiore, la cura dopo un po’ comincerà a girare su se stessa, e un giorno, l’analista, unilateralmente, deciderà che il rapporto deve finire e che ciò che era da chiarire è chiaro ed è stato detto tutto il dicibile, ma nulla a quel punto sarà stato realmente fatto. Una vita circoscritta nell’ambito di una tecnica terapeutica avrà mandato perduti momenti decisivi, che forse non si ripresenteranno mai più con uguale ricchezza di potenzialità. Durante l’analisi debbono essere possibili anche mutamenti radicali, anzi sarebbe bene che ogni evento decisivo si compisse proprio durante il periodo del lavoro analitico, per poterlo seguire nei suoi sviluppi immediati, per controllarne le evoluzioni possibili.

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Alcuni anni or sono, quando il femminismo era più ardente, una giovane signora sposata ad un ricco professionista, con figli, bella casa, bei vestiti ed un intenso impegno politico nel movimento di liberazione della donna, venne da me. Prima era stata impegnata in rapporti psicoanalitici con due analiste – ovviamente donne – una freudiana con la quale sorsero subito ovvie ragioni di scontro che avevano come pretesto la contrapposizione tra la psicoanalisi di Freud, cui la terapeuta faceva riferimento, ed il femminismo della paziente che le impediva di accettare quei moduli di interpetazione; con la seconda terapeuta – femminista questa volta – il lavoro durò un anno, finché un giorno, paziente e terapeuta vennero molto femminilmente alle mani e si presero letteralmente per i capelli, con una esplosione di quell’odio che molte femministe covano inconsapevolmente verso le figure reali delle altre donne. Anche lei non faceva eccezione: dopo avermi sentito parlare in pubblico una sera, si era detta: «Se non riesco a farmi utilmente curare da altre donne perché nel profondo ne ho poca stima e nessuna fiducia, e perché in realtà le odio, non sarebbe meglio se mi facessi curare da un uomo?» Mi scelse per simpatia, perché le piaceva quel che dicevo, per come mi muovevo tra le persone e per come ridevo. Mi raccontò tutto al primo incontro, dopo che c’eravamo stretti la mano, già con molto affetto. Il suo problema era quello di liberarsi del marito: non c’erano di mezzo ragioni economiche, ma il senso di colpa. Era un uomo intelligente e colto, anche divertente nelle situazioni sociali. Per lei era stato assiduo infermiere, dedito e pieno di abnegazione, quando una grave malattia l’aveva quasi condotta al punto di morire. Poi era rinata, ma nel rinascere il rapporto con quell’uomo le divenne intollerabile; il marito avrebbe voluto che lei fosse eternamente malata o bambina, bisognosa delle sue cure, lieta di delegare a lui ogni decisione, priva di qualunque autonomia anche di pensiero, pronto persino a scegliere per lei quelli che avrebbero potuto essere gli amanti giusti, per una evasione benefica dalla routine sessuale. Ebbi molti incontri anche con lui, che faceva pena con quella sua ansia, con la sua certezza che la moglie sarebbe stata incapace di vivere da sola. Ma non disposto a concederle di fare un passo, di avere un pensiero in piena autonomia, indipendentemente dalla sua tutela. Sola con me, nella stanza dell’analisi, quell’elegante signora si tormentava, per il gran senso di colpa. Si chiedeva quale diritto avesse di lasciarlo, dopo tutto quello che aveva fatto per lei. Eppure non poteva più vivere con quell’uomo, quel rapporto la distruggeva, o più precisamente la castrava. Con orgoglio e sfida mi disse: «Vero che anche le donne possono essere castrate da un maschio e che non avviene soltanto il contrario?» Mettemmo da parte questo problema e prima affrontammo complessivamente le dinamiche suscitate da una vita ricca di esperienze, di fantasie e di sofferenze. Per un po’ provai con lei il suo senso di colpa, poi sentii dentro di me che, malgrado l’impressione di compiere un gesto sleale, dovevo operare perché quel rapporto si concludesse, poiché diventava sempre più malato. Così si lasciarono: lei temeva la tragedia, ma non ci fu, anch’egli accettò, magari con un po’ di malinconia, ma anche con sollievo. L’analisi poté proseguire per un certo tempo, poi un giorno ella prese altre decisioni.
Adesso è lontana, mi scrive che è felice con un altro uomo, in una campagna che la rasserena.