27 – Dicembre ‘86

dicembre , 1986

Da pochissimo tempo, in Trastevere, e più precisamente al numero 80 di via di Ponte Sisto, appena attraversato il fiume, è sorto l’ennesimo nuovo ristorantino, che pretende di aver cucina e décor fuori dall’ordinario. Orient Express recita l’insegna metallica sull’angolo. All’interno,in una doppia lunga sala, si trova l’arredo un po’ incongruo di un vagone di terza classe della antica linea Roma Viterbo. Sono infatti sedili, reticelle per i bagagli, finestrini, suppellettili misere e ben lontane dal rievocare gli splendori di principi russi in esilio, miliardari sudamericani e avventurieri balcanici.
Anche il cibo risente di un «volere e non potere» e avrebbe provocato vere crisi di nervi all’imperturbabile investigatore Hercule Poirot.
Per cominciare, ci è stato servito un aperitivo che non apre un bel niente, si tratta infatti di una mistura dolcissima, caldiccia e pesante, forse gradevole all’ora del punch, ma assolutamente fuori luogo all’inizio di una cena, sia pure ad ora tarda. Gli antipasti che abbiamo assaggiato sono stati un taboulet (cous-cous) servito in minuscole ciotoline, completamente asciutto, con tre olive e alcune striscioline di peperone crudo e la perelle savoiarde, cioè una rielaborazione del cacio e pere dell’antico villano, ma neanche colui avrebbe saputo apprezzare quella peruzza cotta, tagliata a metà e guarnita da un baffo di formaggio montato a crema e un gheriglio di noce. Tra i primi piatti, non ci sono piaciute le quiche per la sfoglia cruda e l’inconsistenza del sapore, mentre abbiamo trovato passabile il gateau Parmantier, nonostante una consistenza e un aspetto più degni di un crocchettone di patate che altro; il trionfo dell’orrido esilarante è però stato un piatto di spaghetti alla Vedova allegra, giustamente immersi in un luttuoso nero di seppia, che seppur avesse solo sapore di sale, era veramente allegro e, a dispetto di ogni legge gravitazionale schizzava il nero inchiostro per ogni dove, ancor prima che la sgomenta nostra amica tentasse, con la forchetta, un movimento qualsiasi, riempiendo di nere macchioline nasi, vestiti, tovaglie e pareti. Tra i secondi, oltre un ovvio e rinsecchito Kebab e al filetto ai funghi (secchi) porcini, immerso nella solita panna, lo chef ha avuto la presunzione di proporre un pomposo filetto alla Wellington (una preparazione in crosta della cosiddetta «grande cui sine» quanto mai difficile anche per il più provetto dei cuochi) e mal gliene è incolto, poiché la sfoglia pareva strappata al muro del palazzo di Erode di un presepio napoletano e avvolgeva un filetto «ricostituito», quanto mai a pezzi e bocconi. Per dessert, oltre alla prevedibile mousse al cioccolato farinosa più del lecito, ‘c’è stata proposta una assurda lumaca, formata da una banana ricoperta di cioccolato, con una pallina di gelato e due pericolosi stecchini in guisa di cornetti, la pasta delle crepes era poi troppo elastica, segno di poca freschezza, e la preparazione fiammeggiata era senza sapore.
Abbiamo bevuto il solito buon Pinot Grigio di Gajerhof del 1985 e un Valpolicella Bolla del 1984, giusto per colore, profumo e sapidità. Il conto, pur elevato, non c’è parso eccessivo per l’ora tarda, per lo spreco di personale gentile, anche se non molto esperto, e per un viaggio in compagnia di tante illusioni perdute!

In via del Vantaggio 43, non lontano da piazza del Popolo, prospera da qualche tempo il ristorante Il Melarancio: due sale di gusto vagamente retrò, con rilievi di stucco colorato sulle pareti arancioni, cascate di verde, naturale ed artificiale, troppi tavolini con fiorellini e candeline sulle tovagliette verdi e arancioni. Tutti gli ingredienti, insomma, per una cenetta tra buone cose di pessimo gusto. Ma non buona e solo pessima è la cucina, tanto che ha ispirato ad uno dei, nostri più cari amici un lepido calembour: «poubelle cuisine». In effetti, nei piatti ci è arrivata proprio spazzatura: l’insalata esotica era un miscuglio insensato di verdure tagliuzzate, praticamente senza condimento, in una grandissima e appariscente coppa di vetro; l’avocado, pur maturo al punto giusto, era appena velato da una timida e triste vinaigrette; i chicchi caldi del mais al burro erano incomprensibilmente associati ad un mucchietto di carote grattugiate e scondite. Se questi sono stati gli antipasti, coi primi piatti ci è andata anche peggio: rigatoni ai funghi porcini, rivoltanti per l’accostamento tra l’eccessiva panna dolciastra e l’amaro del formaggio che ricoprivano una pasta senza sapore e poche scagliette di funghi disseccati; le linguine con la rughetta erano salate in modo assurdo e acide per il pomodoro quasi crudo; il colmo l’hanno raggiunto però i due piatti di riso, i cui chicchi super-brillati e super-plastificati erano pure scotti, entrambi dolci come conviene solo ai dessert, benché uno fosse al radicchio, inoltre consideriamo un infortunio il biondo capello nel piatto, ma di quelli che un ristoratore deve ad ogni costo evitare. Olivette con funghi erano l’equivoco nome di un secondo a base di polpettine al pomodoro e il boccone del melarancio consisteva in due fettine arrotolate attorno ad uno stecchino; solo la pezza al gorgonzola aveva il vantaggio di corrispondere alle aspettative, consisteva infatti nell’incontro casuale, avvenuto in un piatto, tra una fetta di carne ed un pezzo di gorgonzola; accettabile sarebbe stato il filetto al pepe, per il buon taglio di carne, sommerso però da una densa pappina farinosa, cosparsa di piccanti chicchi di pepe che risultavano, a quel punto, corpi estranei.
Coi vini, l’inizio è stato tragico: un rosé Coccianello, novello 1985, imbevibile, per l’assurdo gusto metallico, che ci ha subito fatto ripiegare sui «soliti» affidabili, tra i pochi della lista: un Pinot Grigio di Livon dell’85 e un Dolcetto d’Alba di Oddero del 1984, gradevole, armonico, e dalla buona stoffa.
Il servizio, assolutamente non professionale, ha oscillato sempre tra l’inefficacia e l’invadenza. Riconosciamo che il nostro scarso spirito di abnegazione ci ha fatto venir meno le forze al momento del dolce; così abbiamo rapidamente pagato un conto, bisogna dire molto onesto, e siamo usciti da questa specie di «ristorante di Barbie» coi suoi tavoli affollatissimi di bambinacce e bambinoni, impegnati nel gioco: andiamo fuori a cena.