27 – Dicembre ‘86

dicembre , 1986

Gaspare Spontini (Maiolati – Jesi 1774-1851) è noto al vasto pubblico soltanto per la sua Vestale del 1807; ma in realtà fu un compositore abbastanza fecondo e gli effetti del suo passaggio e i risultati della sua ricerca musicale sono rintracciabili anche in compositori come Weber e Wagner. La sua è una musica ricca, fantasiosa, talvolta anche prolissa e magniloquente, però solo di rado piattamente banale. La Vestale è un’opera coerente e organica che rappresenta l’espressione migliore del suo teatro in musica. Tra le altre opere del compositore marchigiano l’Agnese di Hohenstaufen, del 1829, che il Teatro dell’Opera di Roma ha voluto scegliere per inaugurare la stagione, con ricercata e apprezzabile operazione culturale, è senz’altro una delle più significative dell’opera lirica del primo Ottocento.

La trama narra le vicende del difficile amore tra Enrico e Agnese sullo sfondo delle lotte per la supremazia tra Guelfi e Ghibellini tedeschi ai tempi dell’imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa. La ragazza è stata promessa dall’imperatore al re di Francia Filippo II.

I due innamorati si sposano clandestinamente e la cosa rischierebbe di avere poi conseguenze politiche se la magnanimità del re francese e l’arrivo di Enrico il Leone, padre del giovane, non calmassero le acque, ricostituendo la concordia tra il sovrano tedesco e i principi dell’impero. Musicalmente, nella partitura dell’ Agnese si trova davvero di tutto, sì che risulta variopinta, sebbene un po’ elementare, arricchita da un rampollare continuo di melodie, spesso semplicissime, che si arresta in momenti solistici di musicalità accattivante e sapiente. Un esempio di questa sapienza è l’aria della protagonista:

«Quando Zefiro a volo…» all’inizio della seconda parte del primo atto: una bellissima melodia si distende sul sospiro degli archi, con accenti quasi di barcarola, reminiscenza forse del periodo napoletano del musicista. Duetti e concertati sembrano ogni tanto dilungarsi in cincischiamenti, ma ecco d’improvviso che avviene di nuovo il miracolo e il canto acquista sinuosità suggestive ed efficaci, sostenuto e accompagnato dall’orchestra, governata con vera perizia compositiva. Tra i molti momenti di grande efficacia musicale, ricordiamo la scena con cui si apre la parte seconda del secondo atto, col coro delle monache nella cappella del convento, in cui la semplicità melodica riesce ad accentuare il pathos, evitando ogni scivolata in un cattivo gusto che si affaccerà qua e là nel seguito, annoiando un poco, per quel sospetto di convenzionalità che, del resto si era già insinuato nel primo atto con la Danza dei Tritoni al seguito del Reno, oscillante tra Offenbach e la musica da circo. Effettacci da banda sono stati spesso il risultato ottenuto dall’orchestra che Maximiano Valdes non ha saputo controllare, permettendo squilibri in tutte le sezioni orchestrali e pesantezze insopportabili. Un pasticcio strumentale attraverso cui. le voci stentavano a farsi sentire.

Del resto, la realizzazione complessiva di questa non facile opera è stata pessima per ogni aspetto, a cominciare dalla scelta di Montserrat Caballé nella parte della giovane Agnese. Noi pensiamo che in teatro tutto si possa fare: gli uomini possono interpretare parti femminili e le donne ruoli maschili, i brutti dar corpo a personaggi avvenenti, i giovani far parti da vecchi; purché però il trucco non si veda; o, se si vede, deve essere funzionale all’espressione artistica. La scelta della cantante è stata invece dissennata, non solo perché, immensa e immota, limitava la sua gestualità all’atto di aprire le braccia con le palme delle mani rivolte al cielo, come chi si aspetti da un momento all’altro le divine stimmate; ma ancor più perché sprigionava una voce del tutto inadatta al personaggio, per quanto di per sé potesse essere bella, come ha saputo dimostrare in un solo momento che è stato di assoluta perfezione, proprio in quella sorta di dolce barcarola napoletana di cui abbiamo detto. Per il resto era totalmente fuori ruolo e quando traspariva – abbastanza spesso a dire il vero – l’artigliata della grande cantante, allora faceva pensare più a una splendida Azucena che non a una vergine tedesca. Ci piacerebbe sapere, poi, chi è stato il burlone che ha scelto Glenys Linos per la parte della madre di Agnese: la sua minuta figura e la flebile voce ne facevano l’esatta metà fisica e vocale della «figlia».

Molto bravi Ezio Di Cesare e Veriano Luchetti, rispettivamente Filippo ed Enrico, dalle belle voci, fluide e bene impostate, anche se un po’ troppo simili. Gli altri hanno fatto del loro meglio, come pure il coro diretto da Ine Meisters.

Ci risulta incomprensibile perché Antonio Calenda si ostini a voler firmare la regia di opere liriche, se poi si guarda bene dal dare anche la ben minima impostazione registica percepibile. Se poi qualche responsabilità gli si può attribuire, allora è sua la colpa di una collocazione sempre sbagliata dei cantanti sulla scena, come se non si fosse reso conto che chi canta emette un suono, ed è bene che questo suono sia percepito al meglio da tutto il pubblico.

Le scene di Nicola Rubertelli ci sono parse eccessive ed incoerenti: con citazioni sparse dal gotico al neo-classico, con frammenti barocchi cui i costumi di Maurizio Monteverde si adeguavano in rassegnata monotonia cromatica. La coreografia di Margarita Trayanova ha perduto una bella occasione al momento della danza dei tritoni.

Il pubblico ha quasi sempre una gran voglia di applaudire, questa voglia non può che accentuarsi la sera dell’inaugurazione della stagione, così è stato, in un trionfo di dorata mondanità, tra la generale soddisfazione!