Archivio di novembre 1986

26 – Novembre ‘86

sabato, 1 novembre 1986

Il film Regalo di Natale, di Pupi Avati è un’opera decisamente valida, curata in tutti i suoi aspetti, dalla recitazione al commento musicale, dalla fotografia al montaggio. Particolarmente efficace è il dialogo che, pur avendo ritmi teatrali – nonostante i flash back, vi sono lunghi momenti in cui l’azione si svolge in tempo reale – pure non dà mai l’impressione di essere teatro filmato, ma conserva una ben precisa dimensione cinematografica.

È un film duro, in alcuni punti spietato, però carico di una sensualità, ora sommersa, ora esplosiva. È un film che esalta l’amore omosessuale e usa questa carica erotica, all’inizio, anche per deviare l’attenzione degli spettatori, che non possono fare a meno di essere intrigati da un avvio che sembra il prologo di un appuntamento tra uomini soli, per i quali una partita di poker può essere un plausibile pretesto d’incontro. Così il giornalista che raggiunge l’amico nella stanza d’albergo o l’istruttore atletico che indugia in un contatto col giovane impegnato in un esercizio all’attrezzo o il vecchio che manda a monte con un approccio impossibile l’avventura con una femmina di lusso. Ma poi si vuol far credere allo spettatore che l’obiettivo vero è quello di spennare un ricco industriale con una partita combinata, in cui il campione, spalleggiato dagli amici, spennerà il pollo. Non ci vogliono però molti «giri» di carte per intuire che qualcosa non marcia nel senso giusto. Nel frattempo vengono fuori splendidi personaggi: Franco soprattutto, vero e proprio eroe d’amore; tradito dal suo più caro amico, traditore da sempre, che prima di tradirlo ancora lo induce a manifestare con rabbia dolorosa il suo sensuale innamoramento, in una scena intensissima in cui dai due sdraiati sul letto è tanto ipotizzabile che nasca un bacio, che il regista, consapevole degli effetti che si propone, usa i più frequentati trucchi del mestiere, fino alla sottigliezza di far cessare la musica degli archi proprio nello stesso momento in cui in altri film l’inevitabile scena del bacio finalmente si consuma: se lo aspetta Franco, se lo aspettano gli spettatori… Con una geniale virata la storia cambia ancora direzione: non è il vecchio industriale la vittima del raggiro, ma è proprio Franco, cinematografaro fallito e uomo eccessivamente sentimentale.

Abbiamo appena detto come la musica di Ritz Ortolani sia inserita bene: non è mai commento pleonastico, sottolinea i momenti di tensione, di malinconia, sensualità oppure disperazione, sapendo anche tacere al momento dovuto. Ottimi tutti gli interpreti: Carlo Delle Piane, Gianni Cavina, George Eastman, Alessandro Haber e sopra tutti Diego Abatantuono, dal linguaggio realistico e poetico allo stesso tempo, capace di sprigionare dal personaggio una carica erotica intensa, stupefatta e ingenua, accorato e misuratissimo nel momento della tragedia.

Non è, come sembrerebbe, un film disperato, perché se c’è ancora una persona al mondo capace di amare così fino in fondo, sebbene destinata a divenire vittima, vale comunque la pena di giocare. Nel film le donne sono una presenza così lontana da diventare invisibili o irriconoscibili, come la moglie che Franco incontra nel corridoio dell’albergo, il mattino dopo, quando lui è reduce dalla partita di poker e lei da un convegno galante, consumato poche stanze più in là.

26 – Novembre ‘86

sabato, 1 novembre 1986

Non siamo stati solo una volta al ristorante Ezio di Via del Gesù 71 e sempre aveva destato in noi alcune perplessità, ma la nostra ultima esperienza è stata talmente disastrosa che ci ha convinto a parlarne malissimo.
Il ristorante è indubbiamente situato in un bel punto di Roma, inoltre, d’estate si può anche mangiare fuori. L’interno è invece angusto e tristanzuolo, se per di più vi capita di essere accolti da una ragazza scorbutica vi viene subito voglia di andarvene. I due Farfalloni, coi loro malcapitati amici, si sono seduti, cercando di rimanere allegri e sereni nell’animo; ma ciò che abbiamo mangiato e bevuto è stato talmente sgradevole e avvilente che la nostra iniziale allegria si è andata lentamente spegnendo, ed alla fine eravamo anche noi mogi e antipatici come il locale. Neppure l’alcol, speriamo etilico, contenuto negli orribili vinacci, bianchi e rossi, è riuscito a tenerci un po’ su. Le crèpes agli spinaci ci hanno fatto drizzare i capelli in testa, non erano altro che un rotolo di pasta collosa immerso nella panna; i cannolicchi allo speck erano realmente cannolicchi con speck, senza nessun tentativo di comunicazione tra i due ingredienti; forse altrettanto cattiva era la carbonara, con l’uovo ancora crudo e la pasta acquosa.
Tra i secondi, con stupore, abbiamo trovato un abbacchio scottadito più che mangiabile, fragrante e non rinsecchito, ma poi gli ossibuchi, mal cotti e insignificanti, e l’abbacchio alla cacciatora, troppe volte riscaldato e con un dominante gusto di salsiccia rancida, ci hanno fatto precipitare ai livelli più bassi della cucina. Una charlotte accettabile e una crostata di visciole troppo fredda e dalla pasta cruda hanno chiuso il pasto. Il prezzo non è stato certo basso.

In posizione strategica tra l’aristocratica Via Giulia e l’affollato Corso Vittorio sta la Taverna Giulia, in Vicolo dell’Oro 23. Il locale concede qualcosa al folclore e dichiara la sua ispirazione ligure con un busto di Cristoforo Colombo, l’arredo rusticheggiante e un servizio tra il reticente ed il parsimonioso. Tanto di cappello però per la serietà e la correttezza della gestione e per la conduzione della cucina. E’ vero che i prezzi non sono molto bassi, e lo si capisce subito dalla carta, ma si ha la contropartita di merci di prima qualità. Noi qui ci torniamo spesso e ne siamo usciti sempre abbastanza soddisfatti. La lista non offre una scelta sterminata di piatti, ma è ben equilibrata e abbastanza costante, per cui noi possiamo dire di aver gustato, nel corso degli anni, quasi tutto quello che viene proposto. Ci piace molto il pesce spada affumicato, un antipasto davvero superlativo; proviamo spesso anche il mosciame di tonno, per noi commovente ricordo delle estati infantili passate in «riviera». Tra i primi troviamo eccellenti le troffie al pesto, una pasta rustica al giusto punto di cottura, condita da un pesto profumato e dal sapore grintoso e non aggressivo. I pansotti alle noci costituiscono un primo un po’ insolito e si può essere indulgenti verso una loro forse non indispensabile pannosità. Meno brillanti ci paiono le tagliatelle ai funghi e pomodoro, per il condimento un po’ slegato. Qualche zuppa interessante e qualche altro piatto di pasta completano le offerte di primi.
Tra i secondi preferiamo la trippa, dal sapore delicato, con un sugo profumato di erbe che non prevaricano; lo stinco al forno è perfetto, per qualità della carne, punto della cottura e bontà del trattamento, si scioglie in bocca deliziosamente. Buono anche lo stracotto, benché non abbiamo riconosciuto nel sugo la sontuosità caratteristica del barolo. Tra i dolci troviamo eccellenti la crème
brulée e la mousse di cioccolato.
La scelta dei vini è buona: sono presenti alcuni dei migliori produttori piemontesi e liguri. Noi prediligiamo un Pigato di Albenga, profumato e leggermente salmastro e il Gattinara di Travaglini (spesso accade che i rossi siano serviti a temperatura troppo bassa). Qui ci piace anche ritrovare il Rossese di Dolceacqua che eravamo soliti gustare sul posto, nella mescita di Garosci, nei lontani pomeriggi di estate. Che il giudizio dei Farfalloni sia inquinato dal sentimento?

26 – Novembre ‘86

sabato, 1 novembre 1986

Il libro di Ida Magli Viaggio intorno all’uomo bianco (Rizzoli, 1986, pagg. 295, lit 22.000) contiene, già nel primo risvolto di copertina, una clamorosa sciocchezza, che è anche un indice della approssimatività scientifica che lo caratterizza. Dice la presentazione che: «… sono stati ben pochi gli antropologi che hanno avuto il coraggio (e l’umiltà) di applicare le regole e i postulati della loro scienza all’Uomo bianco, di verificarne i riti e le istituzioni nel flusso della storia, di analizzarne i comportamenti nella via di tutti i giorni». Come se non si ritenesse l’autrice neppure a conoscenza dell’esistenza di una scienza chiamata sociologia, fondata – si fa per dire – da un certo signor Auguste Comte.

La Magli neppure, coi suoi scritti, dimostra di aver rilevato che gli scienziati dell’occidente sono stati così presuntuosi da distinguere addirittura lo studio dell’uomo così detto «selvaggio» – scienza che hanno voluto chiamare antropologia o etnologia – dallo studio di se stessi e della loro cultura – definito boriosamente «sociologia» – infatti il volume di cui ci occupiamo pare essere un testo di sociologia.

Due sono le affermazioni che, sebbene non originali, ci paiono pur sempre corrette e mai abbastanza ribadite. La prima è che: «… il concetto di «natura» è un concetto culturale, che la specie umana, non possiede nessuna natura che non sia stabilita dalla cultura …» (pag. 10); la seconda è che «Un modello culturale (…), è sempre globale, formato da un tessuto fittissimo ed interconnesso di tratti interagenti fra loro.» (pag. 205).

Per il resto, tutti gli articoli, saggi, voci scritte per enciclopedie, trascrizioni di conferenze, che compongono il libro, ci sono parsi un po’ farneticanti, con molte affermazioni apodittiche e scorrette; ma, soprattutto, ispirati da una insistita ed ossessiva coazione ad insultare le donne, le quali vengono tratteggiate come un’orda di imbecilli che, senza consapevolezza e alcuna capacità di giudizio avrebbero da sempre accettato il fatto che la «Donna» fosse una «… immagine ideale costruita dal maschio per il «maschio» …» (pag. 222).

Se è vero che i maschi e le femmine sono diversi e che diverso è anche il loro modo di affacciarsi al mondo, è però assolutamente falso – lo affermiamo senza timore di essere smentiti – che le donne, nei secoli, non abbiano avuto la loro parte di potere. La società occidentale, in modo particolare, non è soltanto patriarcale: lo dimostrano non solo le tracce delle Dee Madri, le sacerdotesse di ogni tempo e le «Padrone» di sempre; ma ciò è ancor più evidente nel mondo odierno: basta infatti parlare con le donne di oggi per constatare che, nella grandissima parte dei casi, sono loro stesse a sostenere che, nella famiglia, chi comanda, anche dal punto di vista economico, è la madre. Inoltre l’affermazione che sia difficile conoscere la storia delle donne nel passato poiché abbiamo pochi documenti scritti da donne che ci parlino delle donne, rivela, se non malafede, una certa faciloneria: chi studia, anche storicamente, una situazione sociale e gli elementi che l’hanno costituita deve saper andare oltre la lettura dei documenti intenzionalmente scelti e tramandati.
La Magli insiste molto nell’affermare che il potere assoluto è prerogativa del maschio padre di famiglia: «La famiglia è la riproduzione, infinitamente ripetuta, dello schema sociale … Ma, pur essendo il «risultato» della struttura della società, la famiglia incultura i nuovi membri ai suoi valori come se ne fosse la prima fonte perché la gestione del potere è anche qui funzione dell’uomo, il padre.» (pag. 60).

L’istituzione famigliare – a nostro avviso – è tenuta in piedi da un potere che è maschile all’apparenza ma che è anche femminile nella sostanza; certamente, però, non è una istituzione maschilista, anzi, i maschi hanno, a questo proposito, avuto modo soprattutto di disquisire, senza neppure essere riusciti a conoscere con qualche precisione come essa sia sorta e anche la scrittrice non riesce a far altro che affermare qualcosa che non può dimostrare.
In tutte le moltissime pagine si nota come Sigmund Freud, scacciato dalla porta, rientri continuamente dalla finestra; ma nei suoi contenuti più vieti e fatto oggetto di una insistita banalizzazione. Inoltre, con un artificio da psicologismo ingenuo, si cerca di distinguere «inconscio» da «inconsapevole», mescolando poi i due concetti, senza nessuna correttezza metodologica.
Anche frivolo, oltre che scorretto, ci pare il discorso sull’anoressia mentale, vista come malattia soltanto delle donne – cosa tutta da discutere -. Paradossale ci pare poi essere la considerazione dell’anoressia mentale come legittima forma di reazione malata per chi, come la donna, non ha alternativa tra: «… accettare la propria simbolicità e viverla oppure morire.» (pag. 135) Tutto è simbolo: l’uomo per la donna, la donna per l’uomo, l’uomo per l’uomo e la donna per la donna; non si capisce proprio perché la donna in particolare debba accettare che: «Essere simbolo è il ruolo fondamentale che la società e la cultura hanno attribuito alle donne, e tutti i conflitti femminili si esplicano in questa zona essenziale dei loro significati di vita.» (pag. 129).

A proposito ancora dell’anoressia mentale, è quanto mai evidente l’ignoranza clinica dell’autrice e il suo stucchevole bisogno di giustificare ad ogni costo qualunque gesto femminile. Tanto che pur accennando all’aspetto aggressivo dell’anoressia mentale nella donna, subito però la consola e la scusa addossando tutte le colpe ad una società costruita (inspiegabilmente) solo dal maschio. Invece, il maschio è, per lei, colpevole sempre, anche quando muore; come Bobby Sands, il cui gesto di lasciarsi morire per fame nelle carceri inglesi è visto solo come regressione e ricatto. È vero che c’è anche questa componente di ricatto ma definirla «il massimo della violenza» troppo sbrigativamente, significa che, nel caso degli uomini e delle donne, si usano pesi e misure diverse. Noi non siamo d’accordo nel considerare diavoli tutti i maschi e cretine tutte le donne: queste semplificazioni sono pericolose, soprattutto quando si pretenda di fare un lavoro scientifico. Il più preciso commento a tutto il volume dell’antropologa Magli ci pare possa consistere in una sua stessa frase, a proposito – guarda un po’ – di una donna scienziato: «…Perché non si può trascurare il danno che deriva dalla disinvoltura scientifica di certe donne, adesso che hanno ottenuto il sacrosanto diritto di studiare e di adoperare gli strumenti culturali a disposizione. Un danno … per la società, visto che questa è formata da uomini e da donne e quindi gli errori, teorici e pratici, li paghiamo tutti.» (pag. 239).

26 – Novembre ‘86

sabato, 1 novembre 1986

Alla Sala Umberto abbiamo avuto l’occasione di apprezzare un ottimo concerto di musica contemporanea. Tre bravi esecutori: Antonella Franceschi (violino), Michele Modigliani (fagotto), Danilo Rossi (clarinetto); hanno eseguito con perizia le musiche di Giovanna Marini, stando, con garbo, sulla scena di: Nina, è un’altra cosa di Michel Vinaver, allestito da La Fabbrica dell’Attore. Una musica di ottima fattura e di grande efficacia che, da sola, costituisce uno spettacolo: sinuose melodie che si intrecciano, sensuali sgocciolii di note, morbidi e sentimentali accordi. Un’atmosfera romantica molto intensa, con ricordi di Milhaud e Poulenc, che si insinua da ogni parte, costruendo un mondo sonoro ricco di emozioni e di cangianti stati d’animo che vale la pena di impegnarsi a seguire. Non vale invece la pena di seguire il testo di Vinaver: si tratta infatti di uno striminzito assemblaggio di battute imbecilli, noiose e senza alcuna efficacia: un fratello parrucchiere porta la sua ragazza in casa, dove vive insieme col fratello sindacalista. I tre si trovano insieme prima nella vasca da bagno e poi nel letto; ma poi la ragazza fugge con un polacco e al sindacalista non resta che il ricordo tunisino di una scatola di datteri.

La recitazione di Stefano Santospago, Fabio Maraschi e Manuela Kustermann, se pure a livello professionale, è stanca e priva di ritmo, non riescono a ravvivarla neppure i continui squittii della Kustermann insistentemente nuda coi suoi nudi compagni.
La regia di Marco Mattolini non pare capace di fare nulla per risvegliare un qualunque tipo di interesse e l’azione scenica si svolge stancamente in una povertà di idee desolante, se si eccettua il tentativo di animare i personaggi costringendoli ad un via vai squinternato, come di chi patisca di una grande instabilità psicomotoria. Forse volutamente, miseri anche gli elementi scenici di Mario Romano.

Sebbene ad un altro livello, del tutto scialbo ci è parso anche il testo di Bernard Slade, autore americano, scioccamente televisivo, di una mielosa storia che si srotola per due atti infarciti di battute che vorrebbero essere spiritose, ma che non lo sono (in sé) quasi mai. In questo modo, due personaggi improbabili e malissimo costruiti, psicologicamente e teatralmente, vorrebbero raccontare la loro Commedia d’amore. I protagonisti sono un brillante scrittore di commedie di successo e una goffa ragazza con la vocazione a scrivere, i quali si incontrano nel giorno del matrimonio di lui con la figlia di un importante uomo politico e promettente «donna in carriera» lei medesima. Mentre il matrimonio fallisce, procede l’intesa artistica ed esistenziale in bianco, tra i due, finché si arriva al punto in cui il groviglio è così inestricabile che lei decide di andarsene con un altro uomo. La separazione provoca il crollo di lui e l’affermazione di lei, ma nel momento in cui si ritrovano riescono persino a provarci, senza riuscirci però. L’assoluta incapacità drammaturgica dell’autore si rivela macroscopicamente nel finale, flaccido e irritante. Slade si mette infatti, e mette i suoi personaggi, nelle condizioni di far risultare cretina qualunque possibile conclusione. Siamo rimasti stupiti da tanta balordaggine e ci siamo chiesti che senso abbia avuto l’operazione di Ardenzi, di far tradurre e acquistare i diritti di un testo così insulso. Qualunque sceneggiatore televisivo di casa nostra ne produce – di testi del genere – a tonnellate, senza obbligare la produzione ad assumersi anche le spese di un traduttore. Assolutamente eccezionali, per bravura e fascino, gli interpreti: Giorgio Albertazzi e Ornella Vanoni. Lui dinamico, spigliato, ammiccante. Lei estrosa, accattivante, anche clownesca, nel senso migliore. Entrambi, dall’inizio alla fine, impegnati in un vero e proprio saggio di virtuosismo teatrale.
Da qualche parte, abbiamo sentito Albertazzi difendere la trovata del suo nudo integrale in scena, con l’affermazione che lo spettatore vedrebbe in questo personaggio, nudo, l’Amleto che da sempre ha nella memoria e tutti i personaggi, vestiti, che l’attore ha interpretato. Possiamo assicurargli che a far sensazione è proprio l’Albertazzi nudo, con ciò che di bello e di brutto c’è in questa curiosità soddisfatta. Ci piacerebbe sentirgli dire che questo piccolo gesto esibizionista lo diverte ed anche che è consapevole di quanto contribuisca a destare interesse per lo spettacolo.
Fanno corona briosa ai due protagonisti Tatiana Winteler, Mirella D’Angelo e Alessandra Stordy, mentre riesce invece a costruire un carattere di qualche robustezza, l’intelligente interpretazione di Gabriele Antonini, nelle vesti del marito-giornalista, geloso e appassionato.
La regia firmata dall’attore è astuta e sapiente, pronta a non lasciarsi sfuggire neppure la minima possibilità, capace anche di aggiungere spunti e trovate, dove servono, a getto continuo. La scena di Vittorio Rossi è essenziale e efficace, permette ai personaggi di restare padroni del campo; i costumi di Ambra Danon sono gustosamente ironici e Gianni Versace veste in modo divertente la Vanoni, nel secondo atto. Le musiche discrete di Mauro Paoluzzi si inseriscono con gradevole tocco tra le molte parole. Il pubblico dell’Eliseo pareva soddisfatto

Psicoanalisi contro n. 26 – Il gioco del “dottore”

sabato, 1 novembre 1986

Penso che tutti i bambini, in ogni gruppo sociale e in qualunque cultura, abbiano sempre imitato i mestieri degli adulti. Spesso si compiacciono di incarnare personaggi potenti, della realtà e della fantasia, detentori di un potere universalmente riconosciuto, o di un potere più limitato, ma che i bambini sentono pesantemente premere sulle proprie spalle: come quello di un portiere di casa, o della bidella di scuola; o anche di un potere che si esercita in un ambiente più vasto, sebbene prossimo, come quello del conduttore di un mezzo pubblico di trasporto.

Ovviamente, la vita, con la sua concretezza, condizionerà poi le scelte professionali ed esistenziali del futuro: non tutti diventeranno imperatori o attrici di fama, commercianti, e nemmeno bidelli o portieri. Circostanze esterne, imposizioni altrui, occasioni fortuite, faranno sì che si intraprenderà una strada piuttosto che un’altra e, lentamente cambieranno anche i desideri e le gerarchie di valori dell’infanzia. Il mondo degli adulti impone altre considerazioni e anche i desideri si volgeranno verso obiettivi diversi: esigenze contingenti e realtà di fatto dicono spesso l’ultima parola sulle scelte umane. Non sempre, però, quegli antichi desideri si perderanno completamente, senza lasciare tracce. Talvolta agiranno, facendo pressione in favore di un’alternativa piuttosto che di un’altra; oppure continueranno ad esistere,insoddisfatti, nella fantasia, per tutta la vita. Un affermato professore universitario mi diceva che gli era sempre rimasta dentro la voglia infantile di poter guidare un autobus pubblico, che carica i passeggeri alle pensiline delle fermate, girando la città notte e giorno; e più ancora sentiva il desiderio di guidare uno dei vecchi «tram», che una volta correvano sui binari, condotti nel traffico cittadino, da misteriosi timonieri, capaci di cogliere con mossa rapida ogni più difficile scambio nel groviglio delle rotaie. Da quando i «tram» sono quasi scomparsi, egli si sente un poco liberato, anche se gli spiace di non poter più salire, ogni tanto, a fare un giretto, preso dal fascino della vecchia vettura, affollata di passeggieri, lanciati sull’ordigno sferragliante, cui il «tranviere» fa compiere ardite evoluzioni, manovrando come un timoniere tra i flutti. Una specie di droga, da cui ora si sente libero, ma di cui si sente al tempo stesso privato; la cui mancanza gli permette di sentirsi però più rilassato, quando siede in cattedra per una delle sue togatissime lezioni che riscuotono sempre tanto consenso.

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Uno dei giochi più diffusi tra i bambini di ogni ceto è quello del «dottore», inteso come medico. Tutti i laureati sono dottori, ma il medico è il dottore per antonomasia. Una persona, cioè, che è così dotta e sapiente da essere in grado, con indiscussa e indiscutibile autorità, di curare gli altri uomini e prescrivere loro i medicamenti più opportuni. È fondamentale, infatti, perché la cura riesca, che il medico goda della fiducia assoluta del paziente. Questi sono i pensieri di ogni essere umano che si affidi ad un medico; ed è curioso osservare che ciò vale anche per gli stessi medici, quando sono, per un caso della vita, costretti al ruolo di pazienti, per un malanno più o meno grave. Troppo facile sarebbe ironizzare, dicendo che questa affermazione è contraddetta dal fatto che, invece, i medici sono meno fiduciosi perché sanno, per esperienza, quanto grande sia la loro incapacità e perciò sono consapevoli più che mai della inadeguatezza dei loro colleghi. Ciò è vero, in parte, ma sono molto più veri il timore reverenziale e il rispetto quasi sacrale che c’è in ciascuno, e che si è insediato in noi fin dalla più tenera infanzia, alla vista del medico che si avvicinava, autorevole e talvolta terrifico, con i suoi oscuri rituali e le sue manipolazioni. Timore certo, ma anche un intimo e profondo piacere sensuale, e sessuale, che si mescola alla paura, nei bambini. Talvolta la pratica terapeutica provoca anche sofferenza nei piccoli pazienti, eppure sentirsi scrutare e palpare da occhi e mani che esplorano le parti più nascoste del corpo – che l’educazione ha già insegnato a difendere con il pudore e per le quali si provano già turbamenti, vergogna e piacevoli ansie – procura emozioni incancellabili. Spesso comportamenti sado-masochistici, con profondo bisogno di umiliazione, nei rapporti sessuali, esplodono in persone che, nell’infanzia, hanno avuto esperienze ripetute e prolungate di ricovero ospedaliero. I racconti di costoro sono pieni di aneddoti di piccole o grandi torture subite, di episodi di umiliazione del sorgente senso del pudore, del ricordo di gesti di tenerezza misti a gesti di libidine, compiuti sui loro corpi indifesi, appena giustificati da esigenze terapeutiche. Su questi ricordi si innestano e si intrecciano anche fantasie; e tutto contribuisce a costruire e a strutturare quel modo particolare di desiderare il rapporto con l’altro, che condiziona spesso profondamente anche i rituali del rapporto sessuale, nel tentativo di ricreare e ritrovare quelle emozioni profonde e intense vissute nell’infanzia e nate dall’unione del dolore e dell’umiliazione con il piacere. È importante liberarsi dalla perversione sadomasochistica, ma è anche utile rendersi conto di quello che è accaduto. Bisogna non avere paura di guardare in faccia i ricordi e i desideri, e avere il coraggio di andare oltre.

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I bambini, quando giocano al «dottore», sentono brulicare dentro di loro tante sensazioni diverse. Hanno presenti le emozioni provate davanti al medico, sentono l’invidia per quel personaggio così potente, cui è permesso di frugare così intimamente nei corpi degli altri. Nel gioco essi simulano quei rituali e si compiacciono di una sensualità che è talvolta timida e talaltra audace; sono capaci di esibirsi e giungono a compiere gesti che sarebbe almeno bizzarro giustificare col pretesto di una «visita medica». Riescono così a soddisfare desideri profondi. Nel gioco del medico e del paziente, il medico, forte della sua autorità, palpa, tocca, scopre sempre di più; i gesti sono via via meno professionali e, spesso anche il paziente diventa parte attiva e avviene nel gioco quello che nella vita non si è mai potuto fare, ma si è tanto desiderato poter fare: anche il medico diventa paziente, oggetto cioè di una replica di emozionanti esplorazioni che rispondono alle sue esplorazioni. Chissà se la terapia medica non trarrebbe giovamento da un’analoga pratica!…
Anche qui le circostanze della vita porteranno più o meno lontano: molti dei bambini che con più intensità e convinzione avevano detto: «Da grande farò il dottore» non potranno farlo davvero, eppure anche in loro le emozioni provate nel gioco infantile agiranno.
Nei medici, le esperienze e le fantasie di quei primi anni determineranno l’atteggiamento verso la professione finalmente scelta, ne favoriranno un approccio più o meno disincantato, cinico od eroico. Chi fa il medico all’interno degli schemi imposti dal ruolo ufficiale, si sente spesso insoddisfatto, in preda a una quantità di emozioni difficili da controllare, necessariamente represse e imbrigliate; tanto che la professione diventa un peso, una funzione che viene svolta distrattamente, col minimo dispendio di energia, con la delusione di chi non riesce più a far tornare quelle lontane emozioni.

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A chi intraprende un trattamento di psicoanalisi, per varie che possano essere le motivazioni che lo inducono a tale passo, càpita quasi sempre una strana esperienza: quando il lavoro analitico è ancora agli inizi, ma già abbastanza avanzato perché il paziente e il terapeuta abbiano raggiunto un certo grado di intesa e di coinvolgimento e si incomincia a scavare un po’ nel profondo, portando alla luce argomenti e problematiche insospettati e importanti, accade che nella mente dell’analizzato si faccia avanti, prepotente, il desiderio di diventare a sua volta psicoanalista. Talvolta questo desiderio si manifesta tra moltissime resistenze: resistenza all’analisi, a farsi psicoanalizzare, a lasciarsi andare al flusso dell’inconscio. Persone che già si erano distese, anche fisicamente, assumendo persino positure rilassate, tornano a irrigidirsi, dritte in contratte posizioni, piene di una cordialità aggressiva, o addirittura violente e senza più morbidezze di alcun genere; contestano tutto ciò che viene loro detto, oppure affermano di avere sempre saputo ciò che l’analista crede di svelare loro per primo. Non vogliono ascoltare più, ma pongono domande in continuazione, autorispondendosi; raccontano i loro sogni e subito se li interpretano; tutto il comportamento di costoro dichiara con forza che vogliono essere i soli psicoanalisti di loro stessi. Questa, molto spesso, non è che una forma di difesa dall’analisi, da ciò che l’analista può aver capito; ma, altrettanto spesso, equivale ad una esplicita affermazione del desiderio di diventare psicoanalisti. Quando questo desiderio incomincia a farsi consapevole, le difese si abbassano, quei pazienti si trasformano in seduttori, miti, anche troppo umili; non si oppongono più a nulla e accettano tutto quello che l’analista dice loro, per dimostrare quanto credano nell’analisi: non per niente vorrebbero diventare analisti essi stessi. Anche in questo caso si tratta di un modo di difendersi dall’analisi: l’analista diventa l’aggressore con cui ci si identifica e si risvegliano gli antichi desideri infantili, l’identificazione con le figure potenti di coloro che «visitavano», manipolando con sicurezza e autorità anche le parti che dovevano restare celate.

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Il desiderio di prendere il posto dello psicoanalista si può rivelare anche attraverso i sogni. Una ragazza in analisi con me mi raccontò questo sogno: «Un giorno, su di un autobus affollato, diretto verso un luogo lontano, un tale mi, chiede di sfogliare il suo diario…» Dopo alcune sedute fece quest’altro sogno: «Sulla scena interpretavo alcuni personaggi; ma la parola importante era interpretazione… ». Quella ragazza associò il sogno alle mie teorie sul teatro, sullo psicoanalista come attore, l’analisi come recita… ma l’analista interpreta non solo perché incarna alcuni personaggi, ma anche perché usa l’interpretazione, intesa nel senso di chiarimento di ciò che è oscuro. Un’altra volta ancora sognò di tirar fuori da un cratere profondo alcune marionette… sogno di parto, senza dubbio, o anche di aborto, che si mescolava con la voglia di trarre dall’inconscio i vivi e i morti. Un giorno, finalmente, mi disse chiaramente: «Sai che mi piacerebbe fare la psicoanalista? Non ci avevo mai pensato prima e avrei riso, se qualcuno me l’avesse detto qualche anno fa. Poi ho avuto quel disagio che mi ha portata qui…». Il desiderio di fare lo psicoanalista può nascere in persone che non hanno nessun tipo di precedente preparazione; improvvisamente alcuni pazienti scoprono di voler essere un giorno terapeuti; abbiamo visto come ciò avvenga a un punto dell’analisi abbastanza avanzato per cui sono in grado di capire come si sia venuta a determinare questa situazione: per un desiderio di identificazione con il terapeuta, per innamoramento, per la speranza di poter fare lo stesso mestiere e di restare per sempre vicino all’oggetto d’amore. Qualcuno afferma che l’aver provato di persona l’efficacia della psicoanalisi come strumento terapeutico – nessun altro tipo di cura li aveva mai fatti sentire così bene, permettendo loro di affrontare problemi da sempre “tenuti sotto la soglia della coscienza e che da soli non sarebbero mai stati in grado di guardare in faccia – li ha convinti a voler fare un mestiere tanto utile ed entusiasmante. Le motivazioni sono dunque moltissime, ed hanno valore anche quelle che vengono espresse chiaramente, con ingenuità e spudoratezza; come sono veri gli innamoramenti, le identificazioni, le difese dall’analisi e l’influenza dei lontani giochi infantili; così che le ragioni della mente e del corpo si mescolano, in una realtà calda e concreta, come è giusto che sia. Certo, ho anche conosciuto persone che sono venute da me già determinate a diventare psicoanalisti o psicoterapeuti e, in questi casi come negli altri, ciascuno aveva la propria storia e le proprie valide o meno valide motivazioni, consce ed inconsce.

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In queste righe mi interessa non solo analizzare perché una persona desideri diventare psicoanalista; ma ancor di più vorrei parlare del significato che questa decisione riveste ad un certo punto del lavoro analitico – che coincide generalmente con il primo periodo dell’analisi -. Soprattutto vorrei trattare il problema di quello che, secondo me, dovrebbe essere il comportamento dell’analista in queste situazioni.
Da quello che ho detto finora, risulta che le ragioni predominanti della nascita di un simile desiderio sono per lo più cinque: una è la difesa dall’analisi; la seconda è la ricerca di un potere che si percepisce essere nell’analista; la terza, un innamoramento ancora claudicante, ancora troppo basato sulla pura e semplice identificazione; la quarta, il voler fare un mestiere che si è scoperto essere così affascinante e che talvolta sembra in contrasto col grigiore e l’insoddisfazione che procurano altri tipi di lavoro, la cui routine è stata una delle cause del disagio personale; in ultimo, le fantasie più antiche di identificazione con figure potenti e sensuali e il desiderio di riprovare quei piaceri così intensi.

Come deve comportarsi l’analista in questi casi? Innanzitutto deve essere ben consapevole che questo è un momento importante, spesso uno dei primi momenti importanti, dell’analisi. È abbastanza evidente che questo desiderio porta con sé una congerie di significati che vanno ben oltre la semplice voglia di fare lo stesso mestiere del proprio psicoanalista. Esternando questi suoi sentimenti, spesso, il paziente rivela per la prima volta tutto se stesso. Si può vedere, sia pure attraverso un’angolazione del tutto particolare, lo spaccato della sua personalità e anche molti dei fili che hanno costruito l’essere umano che ora sta davanti al suo psicoanalista, con le proprie fantasie, gioie e sofferenze: con tutta la sua realtà. Esplicitare subito tutto quello che si è scoperto, e che ora viene confermato, non è possibile; l’analista deve tenere molto per sé, accantonare e mettere da parte contenuti che poi dovrà usare, al momento opportuno, tenendo conto della situazione analitica ed esistenziale del suo paziente. L’analista non può dire tutto, ma deve cercare di chiarire il più possibile queste motivazioni.

Anche quelli che iniziano l’analisi dichiarando esplicitàmente la loro intenzione di diventare psicoanalisti, sembrano per un tratto accantonare il problema della professione, salvo riportare alla luce il loro progetto più o meno allo stesso tempo e negli stessi modi di coloro che intraprendono una psicoterapia per alleviare un disagio personale. A tutta prima, le argomentazioni degli uni sembano diverse da quelle degli altri: gli aspiranti terapeuti sembrano più lucidi e consapevoli; ma poi anch’essi affondano nei meandri dell’inconscio e quel loro progetto si rivela essere usato come un meccanismo di resistenza analogo. A questo punto il compito dell’analista non è più facile o più difficile in un caso o nell’altro: quel parametro diverso che pareva dovesse venire applicato cessa di valere. In entrambe le situazioni, il desiderio si rivela ben presente e deve essere valutato in tutta la sua pregnanza. Bisogna procedere con estrema attenzione e serietà, lavorando con la minuziosa pazienza di un certosino a raccogliere elementi e a chiarirli. Talvolta è bene che il terapeuta lasci trasparire qualcosa dei propri sentimenti, della propria storia di psicoanalista e di uomo. Questo atteggiamento può riuscire a sciogliere irrigidimenti difensivi e a far superare sentimenti d’amore ancora troppo distorti e viziati dall’identificazione. È importante però che egli non permetta che questi elementi della sua storia personale vengano inglobati dal paziente ed usati per la difesa o per la parodia dell’innamoramento.

Ma questi sono problemi di tecnica psicoanalitica così specifici che potrebbero annoiare il lettore non psicoanalista! Basti qui mettere in guardia il terapeuta contro la pericolosità del semplice diniego che cerca di scoraggiare. Chi ha trovato in sé questo desiderio, lo offre talvolta al suo analista come un dono, che può anche essere un dono d’amore. È indispensabile cercare di chiarire subito tutto quello che è possibile, analizzare le motivazioni del presente e quelle che si radicano nel passato. Voglio qui sottolineare, con la massima incisività, quanto sia utile che lo psicoanalista raggiunga questi obiettivi, anche compromettendosi personalmente, mettendosi in gioco direttamente. Perché questa potrebbe essere la sua prima vera possibilità di cominciare ad esistere, per il suo paziente, come persona reale, fisica e concreta: non più soltanto voce. Io vorrei sempre che coloro i quali fanno analisi con me mi sentissero persona con la mia realtà, la mia ingenuità, il mio corpo, il mio sesso, le mie paure e le mie sicurezze. Il terapeuta deve affrontare, coi suoi pazienti, tutti i meandri oscuri dai quali è sorto questo desiderio di fare l’analista, ma non deve mai assumere l’atteggiamento di svalutazione o di scoraggiamento del progetto: sarebbe questo un errore tecnico che potrebbe provocare chissà quali disastri. Si potrebbe addirittura compromettere la possibilità che questo desiderio, ancora così poco chiaro per il momento, riesca in futuro a trasformarsi in una capacità desiderante in grado di realizzarsi. Sarebbe ovviamente altrettanto sbagliato sciogliersi in elogi od espressioni di compiacimento ammirativo: basta accettare questo desiderio tenendo conto di tutte le forze, oscure e meno oscure, che lo hanno generato; senza mai assumere l’atteggiamento dell’adulto, ormai smaliziato, che su queste cose la sa lunga.

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Le motivazioni che stanno dietro al desiderio di diventare terapeuta che, a me personalmente, danno più fastidio, e che mi fanno, contro la mia volontà, irrigidire, sono quelle che partono dal cosiddetto «bene degli altri». Ci sono persone che sostengono di voler fare gli psicoanalisti, perché desiderano aiutare gli altri: c’è tanta sofferenza nel mondo, loro pensano di riuscire a capire la gente e quindi vogliono mettersi a disposizione. Talvolta arrivano a pronunciare la gigantesca negazione, dicendo: «Non per desiderio di potere…» Soggiungono: «Da sempre io sono abituato ad ascoltare i miei amici e le mie amiche. Quando c’è un disagio, quando sorgono problemi sentimentali, o con lo studio, o con la famiglia, insoddisfazioni, vengono da me, mi parlano e io mi accorgo che li capisco profondamente: molte volte sono stato loro di grandissimo aiuto; certo, vorrei acquisire una tecnica, per essere più efficace nei miei interventi; ma la cosa che io voglio soprattutto è aiutare gli altri.» Questo sentimento è quanto mai encomiabile, anch’io dopo tanti anni che lavoro con la gente, che lotto contro la sofferenza, psichica e non solo, spero di fare questo anche per gli altri. Quando, insieme col mio paziente, riesco a trionfare sui sintomi, a debellare parte del suo star male e vedo in lui diventare più chiari la vita e il mondo e operarsi profondi cambiamenti, sento, certamente, un senso di potere, ma anche un sentimento di tenerezza e di amore. Dovrei quindi essere forse più tollerante con quelli che, con sussiego, mi parlano dei loro sentimenti missionari, altruistici e caritatevoli; dovrei essere più tollerante nei confronti della loro inconsapevolezza; ma forse questo è soprattutto un problema mio. Forse, io stesso non ho superato l’eccessivo fascino del potere. È vero: sono consapevole che mi piace il potere, anche quello dello psicoanalista, e vorrei però che a questa consapevolezza non risultasse frammisto un atteggiamento di petulante compassione, di ipocrita carità.
Non bisogna, infine, dimenticare coloro che, per ragioni derivanti dalla loro preparazione e da scelte precedenti (è il caso dei laureati in psicologia e in medicina), poco tempo dopo l’inizio dell’analisi, dichiarano la loro urgenza di fare al più presto gli psicoterapeuti. Generalmente procedono in questo modo: prima mi chiedono se io li consideri adatti a diventare, in una ipotesi remota, psicoanalisti – esigendo, ovviamente, una mia risposta affermativa – e poi pretendono che io li aiuti a realizzare subito il loro progetto. Taluni, anzi, sfuggendo al mio controllo, approfittano delle pretestuose stampelle di un titolo di studio – quella laurea che lo stato mette così facilmente a disposizione – per iniziare immediatamente, sia pure in sordina, a fare i terapeuti. Quasi sempre costoro sono inesorabilmente da me condannati e allontanati. Nel caso particolare che mi riguarda, gioca un ruolo importante il fatto che io abbia costituito una scuola di psicoanalisi; così mi accade che molti pazienti mi chiedano di poterla intraprendere: quando non li ritengo pronti, dico loro di no, ma qualche volta rispondo di sì, anche perché sono convinto che lavorare culturalmente con la psicoanalisi possa comunque essere loro utile. Che poi riescano o meno a diventare psicoanalisti è cosa che avrà modo di essere chiarita con l’andare del tempo e col procedere del lavoro: non ho nessuna voglia di propormi come mago o indovino delle potenzialità altrui.

Una volta, un ragazzo, ancora abbastanza giovane, dopo un’esperienza depressiva in età adolescenziale, apparentemente del tutto risolta, improvvisamente, avendo notato allo specchio alcuni segni di invecchiamento: qualche ruga, i capelli un po’ più radi e altre inezie del genere, si sentì precipitare in uno stato depressivo-fobico, con momenti di vero e proprio panico: terrore della morte; non della morte come ipotesi, per qualche accidente o malattia; ma della ineluttabilità, sia pure remota, della morte. Aveva solo venticinque anni, ma non riusciva più ad addormentarsi per la paura di non svegliarsi. Guardava il mondo che gli sembrava bellissimo: il cielo, la campagna, persino la città; godeva degli incontri interessanti, delle splendide occasioni che la vita offre, dell’amore, del crescente suo successo professionale; ma si sentiva straziare al pensiero che tutto quell’universo così bello, avrebbe dovuto comunque sparire ai suoi occhi, non essere più niente per lui. Lo facevano star male il sapore gradito di un cibo, il ricordo di una stanza e cominciavano crisi davvero terribili: tremori, ansie, mancamenti. Gli martellava nella testa un insistente «perché?». Con sfida, un giorno, mi disse: «Ma neppure tu puoi garantirmi l’immortalità!» Io non risposi, sapevo che in lui era esplosa, clamorosamente, una paura che è in tutti, anche negli animali e nelle cose. Conosco, purtroppo, questa paura, che è unita alla consapevolezza dell’inevitabilità: vincerla significherebbe vincere il destino degli uomini:
«…un poco ancora lascia che guardi l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo, cose ch’han molti secoli o un anno o un’ora, e quelle nubi che vanno. lasciami immoto qui rimanere…» (G.Pascoli, L’ora di Barga) dice la poesia semplice e antica che ci hanno fatto imparare da bambini e che ci insinua dentro una malinconica paura. Gli dissi: «Io posso curare questi tremori, quest’ansia, questa paura che ti prende prima di addormentarti, questo disperato senso di inutilità del tutto, perché sono cose che, bada bene, non derivano dal timore della morte; ma da qualcosa che è dentro la vita. Saremo compagni, uniti anche da questa paura che tutti ci portiamo dentro e che tu non capisci.» Il lavoro si avviò subito e il rapporto fu intenso, caldo, coinvolgente. I momenti di panico scomparvero, gradatamente, ma rapidamente. Per lui la morte era l’assenza, la difficoltà a percepire l’altro; dietro a questo c’era anche un padre inerte, depresso, che, nelle fantasie del figlio, era pensato sempre con un grande pene moscio; un padre che non lo voleva accogliere, mentre lui avrebbe voluto giocare tra quelle cosce che lo respingevano. Si buttò letteralmente su di me: un padre ritrovato, che lui sentiva energico, diverso dall’altro depresso e anemico, che ogni mattina recitava la farsa di un risveglio che sembrava però una morte. Mi voleva turbolento e vitale ed io ero spaventato da quella sua voglia di vivere, da una così intensa capacità di lottare e dal constatare quanto poco gli importassero le mie contraddizioni. Un giorno mi disse: «Voglio diventare psicoanalista.» Mi colse quasi di sorpresa; eppure, pensai dopo, era il tempo, ed io non me n’ero accorto. Mi domandò ancora: «Mi aiuti?» Gli risposi di si: non lo potevo respingere. Trascurò e fece male persino il suo lavoro, pur di prepararsi alla nuova professione.
Attesi con pazienza che si rendesse conto che il mestiere di psicoanalista non era adatto per lui.

Volevo che comprendesse che guarire vuol dire ritrovare il coraggio di prendersi cura di sé e degli altri, e che ci si può prendere cura, nel mondo, anche con mezzi diversi da quelli propri dello psicoanalista.

26 – Novembre ‘86

sabato, 1 novembre 1986

Martedì 28 ottobre siamo finalmente riusciti ad arrivare all’Auditorium di Via della Conciliazione, dopo che una serie di contrattempi ci aveva costretto alla rinuncia nelle sere precedenti. Il programma comprendeva il Concerto n. 2 in mi bemolle maggiore, per clarinetto e orchestra di Carl Maria von Weber e la Sinfonia n. 6 in la minore («Tragica») di Gustav Mahler; il solista era Vincenzo Mariozzi e dirigeva Giuseppe Sinopoli. Nella prima parte delle serata il famosissimo brano di Weber ha fatto bella mostra di sé: l’allegro iniziale è stato interpretato da Sinopoli correttamente, sottolineando non solo gli aspetti brillanti, ma anche quelli un po’ ombrosi e malinconici. Ci ha stupito la prima entrata del clarino, assolutamente fuori tempo, come se fosse stato colto di sorpresa; poi però il bravissimo Mariozzi si è messo a dialogare perfettamente con l’orchestra. Nel secondo movimento si infittiscono le ombre e si accentua la malinconia e il clarino ha saputo sfoggiare un’ottima velata cantabilità. Bene anche l’ultimo tempo: abbiamo apprezzato che Sinopoli fosse attentissimo a non offuscare e spegnere la bella e vellutata sonorità del clarino. Certo che in alcuni punti avremmo voluto l’orchestra ritmicamente più incisiva.

Mahler diceva che le sinfonie sono come le città, ma le sue sono, a dir la verità, vere metropoli e la sesta è una costruzione gigantesca. Nonostante le inevitabili prolissità, il compositore riesce però a tener sempre desta l’attenzione. L’allegro iniziale è stato affrontato dall’orchestra con un bel piglio energico evidenziando con ironia anche gli aspetti impettiti. Lo scherzo è una serrata danza intrisa di momenti di uno strano barocco-rococò e da suggestioni che si troveranno poi esplicitate nella musica di Strawinsky, poi, a sorpresa, si stende in momenti più dilatati. L’andante è un bellissimo brano, stupefatto, languido e meditativo. Il finale, per lo più concitato, è ricco di chiaroscuri e di suoni gravi e, talvolta, grevi, con momenti di ingenua e disarmante serenità.
Abbiamo trovato bravissimo Sinopoli, sia nella chiara esposizione di quella miriade di spunti tematici, sia nella sua capacità di seguirli, senza mai affossarli in una nebulosità indistinta, in quel loro errare continuo attraverso tutte le sezioni dell’orchestra. Qualche entrata ci è parsa leggermente esitante: poteva anche essere una scelta estetica. Il pubblico, per niente stancato da quella valanga di note, ha applaudito entusiasticamente.

26 – Novembre ‘86

sabato, 1 novembre 1986

Un giovane artista diciassettenne, Bernardo Siciliano, presenta alla galleria di Carlo Virgilio, in Via della Lupa 10, una trentina di pastelli che testimoniano un lavoro assiduo e intelligente, che gli ha permesso di raggiungere una capacità espressiva coinvolgente e non superficiale. Non c’è nessun bisogno di assumere atteggiamenti paterni o indulgenti per apprezzare questo ragazzo dalla personalità artistica tanto matura. Usando una tecnica tra le meno ovvie e allo stesso tempo delle meno presuntuose: il pastello, egli propone, su grandi fogli di carta cui il passe par tout bianco conferisce ancor più ampio respiro, i suoi paesaggi campestri o urbani. Il discorso poetico si svolge sommessamente, anche con qualche ripetitività, nei soggetti modesti, che sono per lo più boschi, prati e colline. Il colore è disteso con segno trasparente e la luce è morbida e velata. In quattro o cinque di questi fogli compaiono le sagome e i muri delle case di città, i lungotevere, e qui diventa importane la presenza delle ombre che danno un’impressione di misteriosa riservatezza, che contrasta con l’apparenza serena del rosa e del giallo degli intonaci. In due fogli più grandi degli altri: Umbria: sul Tevere e Sera verso Asproli, cambia il tono generalmente sommesso e luci e colori vi sono più decisi e contrastati.

Walter Valentini insegna alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano ed è nato cinquantotto anni fa a Pergola in provincia di Pesaro. Sono dati scarni, ma che fanno intuire un lungo cammino anche artistico. Questo approdo alla Galleria L’Isola in Via Gregoriana 5 è quindi probabilmente solo una tappa. L’architettura delle città del sole, le stanze del silenzio, la sezione aurea e Raffaello sono gli elementi conduttori di questa proposta «Costruttività della memoria».
Chi vede tutti insieme i grandi pannelli raccolti nella mostra ha l’impressione di una unica idea compositiva, stancamente ripetuta attraverso l’uso di un lessico piuttosto povero. Sotto il gelido plexiglas che li ricopre giacciono lontani ricordi di tristi città morte, percorse dai segni di geometriche architetture. L’arco incombe come una presenza ossessiva, incapace di risolvere o di costruire alcunché. Non c’è mai nulla di solare, né di campanelliano, in queste città sbiancate come cadaveri appena dissepolti o in attesa di una sepoltura che tarda a venire. Qualche volta al bianco si alternano il blu o il nero, ma permane l’impressione luttuosa, accentuata dalle brevi tele sospese, come sudari che coprano ciò che non deve più essere visto.
La memoria è slabbrata e corrotta, come lo sono le superfici ad ampia campitura gessosa, attraversate da grosse crepe, o i bordi sfilacciati della tela. La citazione dell’incendio di Borgo, in quello che vuole essere un Omaggio a Raffaello ci è parsa così frivola che non siamo neppure riusciti a considerarla blasfema.

Il visitatore che entri allo Studio S di Via della Penna 59 per vedere gli acquerelli del Carnet di viaggio che Mario Luzzatto ha compilato negli ultimi anni rischia di essere deluso. Ci si aspetterebbe infatti di trovarsi di fronte a visitazioni, sia pur brevi, ma in qualche modo insaporite dal personale ricordo, di luoghi più meno lontani nello spazio e nel tempo e invece ci si trova di fronte a cartoline di pessimo gusto.
Luzzatto non sa padroneggiare gli strumenti che si propone di usare – in questo caso gli acquerelli – per cui ottiene colori poveri e dissennati, un disegno sporco, immagini che, nel migliore dei casi, sono citazioni post-impressioniste o svaniti grafismi di picassiana presunzione. Sembra che il pittore voglia percorrere le vie degli affetti, ma sui fogli di carta arriva ben poca cosa, come se le pur comprensibili ragioni del cuore non sempre fossero le migliori mediatrici tra l’uomo e l’artista.

Alla galleria di Ugo Ferranti, in Via di Tor Millina 26, viene presentato un tentativo – l’ennesimo, non solo nel mondo dell’arte – di negare quello che in realtà si va facendo. Così che un fotografo come Claudio Abate, vergognandosi forse della propria macchina fotografica, dichiara di non volerla usare e ricorre ad un procedimento di impressione «diretta» della carta fotosensibile, per fissare immagini che egli chiama: Contatti ad occhio nudo. Fin qui, però, non ci sarebbe troppo di male, se non fosse che i risultati sono un po’ squallidi ed anche banali, quando non cercano addirittura effettacci, come quel Dopo cena che coinvolge anche Leonardo da Vinci in una operazione di tardiva pop-art. Anche le altre grandi Immagini uniche sembrano ricercare tutt’al più scontati effetti allegorici, come la silhouette del pittore che vomita colore, o l’uccellino contenuto dalla macchina fotografica, o meramente decorativi come il fiammifero acceso o il pesce, tutto, s’intende, presuntuosamente, in «quadri» di grandi dimensioni molto adatti a vestire le pareti del salotto borghese di una ipotetica coppia di coniugi un po’ demodé e nostalgici. Non riteniamo che sia sempre giusto fare un processo alle intenzioni di chi si vuole cimentare con l’opera d’arte e crediamo che qualunque tecnica sia in grado di raggiungere obiettivi artistici; quello che un poco ci disturba in alcuni casi è che gli alibi culturali vengano presi a giustificazione dei risultati estetici e poetici e che, con evidente malafede, si dichiari di voler rendere «l’istante colto dall’occhio senza alcuna mediazione tecnica» facendo ricorso ad una tecnica che, se mai, proprio perché audace, difficile e sperimentalistica mette lo spettatore dal punto di vista di chi è forzato a vedere, chiuso nella gabbia o «prigione» predisposta dall’autore.