26 – Novembre ‘86

novembre , 1986

Il libro di Ida Magli Viaggio intorno all’uomo bianco (Rizzoli, 1986, pagg. 295, lit 22.000) contiene, già nel primo risvolto di copertina, una clamorosa sciocchezza, che è anche un indice della approssimatività scientifica che lo caratterizza. Dice la presentazione che: «… sono stati ben pochi gli antropologi che hanno avuto il coraggio (e l’umiltà) di applicare le regole e i postulati della loro scienza all’Uomo bianco, di verificarne i riti e le istituzioni nel flusso della storia, di analizzarne i comportamenti nella via di tutti i giorni». Come se non si ritenesse l’autrice neppure a conoscenza dell’esistenza di una scienza chiamata sociologia, fondata – si fa per dire – da un certo signor Auguste Comte.

La Magli neppure, coi suoi scritti, dimostra di aver rilevato che gli scienziati dell’occidente sono stati così presuntuosi da distinguere addirittura lo studio dell’uomo così detto «selvaggio» – scienza che hanno voluto chiamare antropologia o etnologia – dallo studio di se stessi e della loro cultura – definito boriosamente «sociologia» – infatti il volume di cui ci occupiamo pare essere un testo di sociologia.

Due sono le affermazioni che, sebbene non originali, ci paiono pur sempre corrette e mai abbastanza ribadite. La prima è che: «… il concetto di «natura» è un concetto culturale, che la specie umana, non possiede nessuna natura che non sia stabilita dalla cultura …» (pag. 10); la seconda è che «Un modello culturale (…), è sempre globale, formato da un tessuto fittissimo ed interconnesso di tratti interagenti fra loro.» (pag. 205).

Per il resto, tutti gli articoli, saggi, voci scritte per enciclopedie, trascrizioni di conferenze, che compongono il libro, ci sono parsi un po’ farneticanti, con molte affermazioni apodittiche e scorrette; ma, soprattutto, ispirati da una insistita ed ossessiva coazione ad insultare le donne, le quali vengono tratteggiate come un’orda di imbecilli che, senza consapevolezza e alcuna capacità di giudizio avrebbero da sempre accettato il fatto che la «Donna» fosse una «… immagine ideale costruita dal maschio per il «maschio» …» (pag. 222).

Se è vero che i maschi e le femmine sono diversi e che diverso è anche il loro modo di affacciarsi al mondo, è però assolutamente falso – lo affermiamo senza timore di essere smentiti – che le donne, nei secoli, non abbiano avuto la loro parte di potere. La società occidentale, in modo particolare, non è soltanto patriarcale: lo dimostrano non solo le tracce delle Dee Madri, le sacerdotesse di ogni tempo e le «Padrone» di sempre; ma ciò è ancor più evidente nel mondo odierno: basta infatti parlare con le donne di oggi per constatare che, nella grandissima parte dei casi, sono loro stesse a sostenere che, nella famiglia, chi comanda, anche dal punto di vista economico, è la madre. Inoltre l’affermazione che sia difficile conoscere la storia delle donne nel passato poiché abbiamo pochi documenti scritti da donne che ci parlino delle donne, rivela, se non malafede, una certa faciloneria: chi studia, anche storicamente, una situazione sociale e gli elementi che l’hanno costituita deve saper andare oltre la lettura dei documenti intenzionalmente scelti e tramandati.
La Magli insiste molto nell’affermare che il potere assoluto è prerogativa del maschio padre di famiglia: «La famiglia è la riproduzione, infinitamente ripetuta, dello schema sociale … Ma, pur essendo il «risultato» della struttura della società, la famiglia incultura i nuovi membri ai suoi valori come se ne fosse la prima fonte perché la gestione del potere è anche qui funzione dell’uomo, il padre.» (pag. 60).

L’istituzione famigliare – a nostro avviso – è tenuta in piedi da un potere che è maschile all’apparenza ma che è anche femminile nella sostanza; certamente, però, non è una istituzione maschilista, anzi, i maschi hanno, a questo proposito, avuto modo soprattutto di disquisire, senza neppure essere riusciti a conoscere con qualche precisione come essa sia sorta e anche la scrittrice non riesce a far altro che affermare qualcosa che non può dimostrare.
In tutte le moltissime pagine si nota come Sigmund Freud, scacciato dalla porta, rientri continuamente dalla finestra; ma nei suoi contenuti più vieti e fatto oggetto di una insistita banalizzazione. Inoltre, con un artificio da psicologismo ingenuo, si cerca di distinguere «inconscio» da «inconsapevole», mescolando poi i due concetti, senza nessuna correttezza metodologica.
Anche frivolo, oltre che scorretto, ci pare il discorso sull’anoressia mentale, vista come malattia soltanto delle donne – cosa tutta da discutere -. Paradossale ci pare poi essere la considerazione dell’anoressia mentale come legittima forma di reazione malata per chi, come la donna, non ha alternativa tra: «… accettare la propria simbolicità e viverla oppure morire.» (pag. 135) Tutto è simbolo: l’uomo per la donna, la donna per l’uomo, l’uomo per l’uomo e la donna per la donna; non si capisce proprio perché la donna in particolare debba accettare che: «Essere simbolo è il ruolo fondamentale che la società e la cultura hanno attribuito alle donne, e tutti i conflitti femminili si esplicano in questa zona essenziale dei loro significati di vita.» (pag. 129).

A proposito ancora dell’anoressia mentale, è quanto mai evidente l’ignoranza clinica dell’autrice e il suo stucchevole bisogno di giustificare ad ogni costo qualunque gesto femminile. Tanto che pur accennando all’aspetto aggressivo dell’anoressia mentale nella donna, subito però la consola e la scusa addossando tutte le colpe ad una società costruita (inspiegabilmente) solo dal maschio. Invece, il maschio è, per lei, colpevole sempre, anche quando muore; come Bobby Sands, il cui gesto di lasciarsi morire per fame nelle carceri inglesi è visto solo come regressione e ricatto. È vero che c’è anche questa componente di ricatto ma definirla «il massimo della violenza» troppo sbrigativamente, significa che, nel caso degli uomini e delle donne, si usano pesi e misure diverse. Noi non siamo d’accordo nel considerare diavoli tutti i maschi e cretine tutte le donne: queste semplificazioni sono pericolose, soprattutto quando si pretenda di fare un lavoro scientifico. Il più preciso commento a tutto il volume dell’antropologa Magli ci pare possa consistere in una sua stessa frase, a proposito – guarda un po’ – di una donna scienziato: «…Perché non si può trascurare il danno che deriva dalla disinvoltura scientifica di certe donne, adesso che hanno ottenuto il sacrosanto diritto di studiare e di adoperare gli strumenti culturali a disposizione. Un danno … per la società, visto che questa è formata da uomini e da donne e quindi gli errori, teorici e pratici, li paghiamo tutti.» (pag. 239).