Psicoanalisi contro n. 26 – Il gioco del “dottore”

novembre , 1986

Penso che tutti i bambini, in ogni gruppo sociale e in qualunque cultura, abbiano sempre imitato i mestieri degli adulti. Spesso si compiacciono di incarnare personaggi potenti, della realtà e della fantasia, detentori di un potere universalmente riconosciuto, o di un potere più limitato, ma che i bambini sentono pesantemente premere sulle proprie spalle: come quello di un portiere di casa, o della bidella di scuola; o anche di un potere che si esercita in un ambiente più vasto, sebbene prossimo, come quello del conduttore di un mezzo pubblico di trasporto.

Ovviamente, la vita, con la sua concretezza, condizionerà poi le scelte professionali ed esistenziali del futuro: non tutti diventeranno imperatori o attrici di fama, commercianti, e nemmeno bidelli o portieri. Circostanze esterne, imposizioni altrui, occasioni fortuite, faranno sì che si intraprenderà una strada piuttosto che un’altra e, lentamente cambieranno anche i desideri e le gerarchie di valori dell’infanzia. Il mondo degli adulti impone altre considerazioni e anche i desideri si volgeranno verso obiettivi diversi: esigenze contingenti e realtà di fatto dicono spesso l’ultima parola sulle scelte umane. Non sempre, però, quegli antichi desideri si perderanno completamente, senza lasciare tracce. Talvolta agiranno, facendo pressione in favore di un’alternativa piuttosto che di un’altra; oppure continueranno ad esistere,insoddisfatti, nella fantasia, per tutta la vita. Un affermato professore universitario mi diceva che gli era sempre rimasta dentro la voglia infantile di poter guidare un autobus pubblico, che carica i passeggeri alle pensiline delle fermate, girando la città notte e giorno; e più ancora sentiva il desiderio di guidare uno dei vecchi «tram», che una volta correvano sui binari, condotti nel traffico cittadino, da misteriosi timonieri, capaci di cogliere con mossa rapida ogni più difficile scambio nel groviglio delle rotaie. Da quando i «tram» sono quasi scomparsi, egli si sente un poco liberato, anche se gli spiace di non poter più salire, ogni tanto, a fare un giretto, preso dal fascino della vecchia vettura, affollata di passeggieri, lanciati sull’ordigno sferragliante, cui il «tranviere» fa compiere ardite evoluzioni, manovrando come un timoniere tra i flutti. Una specie di droga, da cui ora si sente libero, ma di cui si sente al tempo stesso privato; la cui mancanza gli permette di sentirsi però più rilassato, quando siede in cattedra per una delle sue togatissime lezioni che riscuotono sempre tanto consenso.

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Uno dei giochi più diffusi tra i bambini di ogni ceto è quello del «dottore», inteso come medico. Tutti i laureati sono dottori, ma il medico è il dottore per antonomasia. Una persona, cioè, che è così dotta e sapiente da essere in grado, con indiscussa e indiscutibile autorità, di curare gli altri uomini e prescrivere loro i medicamenti più opportuni. È fondamentale, infatti, perché la cura riesca, che il medico goda della fiducia assoluta del paziente. Questi sono i pensieri di ogni essere umano che si affidi ad un medico; ed è curioso osservare che ciò vale anche per gli stessi medici, quando sono, per un caso della vita, costretti al ruolo di pazienti, per un malanno più o meno grave. Troppo facile sarebbe ironizzare, dicendo che questa affermazione è contraddetta dal fatto che, invece, i medici sono meno fiduciosi perché sanno, per esperienza, quanto grande sia la loro incapacità e perciò sono consapevoli più che mai della inadeguatezza dei loro colleghi. Ciò è vero, in parte, ma sono molto più veri il timore reverenziale e il rispetto quasi sacrale che c’è in ciascuno, e che si è insediato in noi fin dalla più tenera infanzia, alla vista del medico che si avvicinava, autorevole e talvolta terrifico, con i suoi oscuri rituali e le sue manipolazioni. Timore certo, ma anche un intimo e profondo piacere sensuale, e sessuale, che si mescola alla paura, nei bambini. Talvolta la pratica terapeutica provoca anche sofferenza nei piccoli pazienti, eppure sentirsi scrutare e palpare da occhi e mani che esplorano le parti più nascoste del corpo – che l’educazione ha già insegnato a difendere con il pudore e per le quali si provano già turbamenti, vergogna e piacevoli ansie – procura emozioni incancellabili. Spesso comportamenti sado-masochistici, con profondo bisogno di umiliazione, nei rapporti sessuali, esplodono in persone che, nell’infanzia, hanno avuto esperienze ripetute e prolungate di ricovero ospedaliero. I racconti di costoro sono pieni di aneddoti di piccole o grandi torture subite, di episodi di umiliazione del sorgente senso del pudore, del ricordo di gesti di tenerezza misti a gesti di libidine, compiuti sui loro corpi indifesi, appena giustificati da esigenze terapeutiche. Su questi ricordi si innestano e si intrecciano anche fantasie; e tutto contribuisce a costruire e a strutturare quel modo particolare di desiderare il rapporto con l’altro, che condiziona spesso profondamente anche i rituali del rapporto sessuale, nel tentativo di ricreare e ritrovare quelle emozioni profonde e intense vissute nell’infanzia e nate dall’unione del dolore e dell’umiliazione con il piacere. È importante liberarsi dalla perversione sadomasochistica, ma è anche utile rendersi conto di quello che è accaduto. Bisogna non avere paura di guardare in faccia i ricordi e i desideri, e avere il coraggio di andare oltre.

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I bambini, quando giocano al «dottore», sentono brulicare dentro di loro tante sensazioni diverse. Hanno presenti le emozioni provate davanti al medico, sentono l’invidia per quel personaggio così potente, cui è permesso di frugare così intimamente nei corpi degli altri. Nel gioco essi simulano quei rituali e si compiacciono di una sensualità che è talvolta timida e talaltra audace; sono capaci di esibirsi e giungono a compiere gesti che sarebbe almeno bizzarro giustificare col pretesto di una «visita medica». Riescono così a soddisfare desideri profondi. Nel gioco del medico e del paziente, il medico, forte della sua autorità, palpa, tocca, scopre sempre di più; i gesti sono via via meno professionali e, spesso anche il paziente diventa parte attiva e avviene nel gioco quello che nella vita non si è mai potuto fare, ma si è tanto desiderato poter fare: anche il medico diventa paziente, oggetto cioè di una replica di emozionanti esplorazioni che rispondono alle sue esplorazioni. Chissà se la terapia medica non trarrebbe giovamento da un’analoga pratica!…
Anche qui le circostanze della vita porteranno più o meno lontano: molti dei bambini che con più intensità e convinzione avevano detto: «Da grande farò il dottore» non potranno farlo davvero, eppure anche in loro le emozioni provate nel gioco infantile agiranno.
Nei medici, le esperienze e le fantasie di quei primi anni determineranno l’atteggiamento verso la professione finalmente scelta, ne favoriranno un approccio più o meno disincantato, cinico od eroico. Chi fa il medico all’interno degli schemi imposti dal ruolo ufficiale, si sente spesso insoddisfatto, in preda a una quantità di emozioni difficili da controllare, necessariamente represse e imbrigliate; tanto che la professione diventa un peso, una funzione che viene svolta distrattamente, col minimo dispendio di energia, con la delusione di chi non riesce più a far tornare quelle lontane emozioni.

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A chi intraprende un trattamento di psicoanalisi, per varie che possano essere le motivazioni che lo inducono a tale passo, càpita quasi sempre una strana esperienza: quando il lavoro analitico è ancora agli inizi, ma già abbastanza avanzato perché il paziente e il terapeuta abbiano raggiunto un certo grado di intesa e di coinvolgimento e si incomincia a scavare un po’ nel profondo, portando alla luce argomenti e problematiche insospettati e importanti, accade che nella mente dell’analizzato si faccia avanti, prepotente, il desiderio di diventare a sua volta psicoanalista. Talvolta questo desiderio si manifesta tra moltissime resistenze: resistenza all’analisi, a farsi psicoanalizzare, a lasciarsi andare al flusso dell’inconscio. Persone che già si erano distese, anche fisicamente, assumendo persino positure rilassate, tornano a irrigidirsi, dritte in contratte posizioni, piene di una cordialità aggressiva, o addirittura violente e senza più morbidezze di alcun genere; contestano tutto ciò che viene loro detto, oppure affermano di avere sempre saputo ciò che l’analista crede di svelare loro per primo. Non vogliono ascoltare più, ma pongono domande in continuazione, autorispondendosi; raccontano i loro sogni e subito se li interpretano; tutto il comportamento di costoro dichiara con forza che vogliono essere i soli psicoanalisti di loro stessi. Questa, molto spesso, non è che una forma di difesa dall’analisi, da ciò che l’analista può aver capito; ma, altrettanto spesso, equivale ad una esplicita affermazione del desiderio di diventare psicoanalisti. Quando questo desiderio incomincia a farsi consapevole, le difese si abbassano, quei pazienti si trasformano in seduttori, miti, anche troppo umili; non si oppongono più a nulla e accettano tutto quello che l’analista dice loro, per dimostrare quanto credano nell’analisi: non per niente vorrebbero diventare analisti essi stessi. Anche in questo caso si tratta di un modo di difendersi dall’analisi: l’analista diventa l’aggressore con cui ci si identifica e si risvegliano gli antichi desideri infantili, l’identificazione con le figure potenti di coloro che «visitavano», manipolando con sicurezza e autorità anche le parti che dovevano restare celate.

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Il desiderio di prendere il posto dello psicoanalista si può rivelare anche attraverso i sogni. Una ragazza in analisi con me mi raccontò questo sogno: «Un giorno, su di un autobus affollato, diretto verso un luogo lontano, un tale mi, chiede di sfogliare il suo diario…» Dopo alcune sedute fece quest’altro sogno: «Sulla scena interpretavo alcuni personaggi; ma la parola importante era interpretazione… ». Quella ragazza associò il sogno alle mie teorie sul teatro, sullo psicoanalista come attore, l’analisi come recita… ma l’analista interpreta non solo perché incarna alcuni personaggi, ma anche perché usa l’interpretazione, intesa nel senso di chiarimento di ciò che è oscuro. Un’altra volta ancora sognò di tirar fuori da un cratere profondo alcune marionette… sogno di parto, senza dubbio, o anche di aborto, che si mescolava con la voglia di trarre dall’inconscio i vivi e i morti. Un giorno, finalmente, mi disse chiaramente: «Sai che mi piacerebbe fare la psicoanalista? Non ci avevo mai pensato prima e avrei riso, se qualcuno me l’avesse detto qualche anno fa. Poi ho avuto quel disagio che mi ha portata qui…». Il desiderio di fare lo psicoanalista può nascere in persone che non hanno nessun tipo di precedente preparazione; improvvisamente alcuni pazienti scoprono di voler essere un giorno terapeuti; abbiamo visto come ciò avvenga a un punto dell’analisi abbastanza avanzato per cui sono in grado di capire come si sia venuta a determinare questa situazione: per un desiderio di identificazione con il terapeuta, per innamoramento, per la speranza di poter fare lo stesso mestiere e di restare per sempre vicino all’oggetto d’amore. Qualcuno afferma che l’aver provato di persona l’efficacia della psicoanalisi come strumento terapeutico – nessun altro tipo di cura li aveva mai fatti sentire così bene, permettendo loro di affrontare problemi da sempre “tenuti sotto la soglia della coscienza e che da soli non sarebbero mai stati in grado di guardare in faccia – li ha convinti a voler fare un mestiere tanto utile ed entusiasmante. Le motivazioni sono dunque moltissime, ed hanno valore anche quelle che vengono espresse chiaramente, con ingenuità e spudoratezza; come sono veri gli innamoramenti, le identificazioni, le difese dall’analisi e l’influenza dei lontani giochi infantili; così che le ragioni della mente e del corpo si mescolano, in una realtà calda e concreta, come è giusto che sia. Certo, ho anche conosciuto persone che sono venute da me già determinate a diventare psicoanalisti o psicoterapeuti e, in questi casi come negli altri, ciascuno aveva la propria storia e le proprie valide o meno valide motivazioni, consce ed inconsce.

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In queste righe mi interessa non solo analizzare perché una persona desideri diventare psicoanalista; ma ancor di più vorrei parlare del significato che questa decisione riveste ad un certo punto del lavoro analitico – che coincide generalmente con il primo periodo dell’analisi -. Soprattutto vorrei trattare il problema di quello che, secondo me, dovrebbe essere il comportamento dell’analista in queste situazioni.
Da quello che ho detto finora, risulta che le ragioni predominanti della nascita di un simile desiderio sono per lo più cinque: una è la difesa dall’analisi; la seconda è la ricerca di un potere che si percepisce essere nell’analista; la terza, un innamoramento ancora claudicante, ancora troppo basato sulla pura e semplice identificazione; la quarta, il voler fare un mestiere che si è scoperto essere così affascinante e che talvolta sembra in contrasto col grigiore e l’insoddisfazione che procurano altri tipi di lavoro, la cui routine è stata una delle cause del disagio personale; in ultimo, le fantasie più antiche di identificazione con figure potenti e sensuali e il desiderio di riprovare quei piaceri così intensi.

Come deve comportarsi l’analista in questi casi? Innanzitutto deve essere ben consapevole che questo è un momento importante, spesso uno dei primi momenti importanti, dell’analisi. È abbastanza evidente che questo desiderio porta con sé una congerie di significati che vanno ben oltre la semplice voglia di fare lo stesso mestiere del proprio psicoanalista. Esternando questi suoi sentimenti, spesso, il paziente rivela per la prima volta tutto se stesso. Si può vedere, sia pure attraverso un’angolazione del tutto particolare, lo spaccato della sua personalità e anche molti dei fili che hanno costruito l’essere umano che ora sta davanti al suo psicoanalista, con le proprie fantasie, gioie e sofferenze: con tutta la sua realtà. Esplicitare subito tutto quello che si è scoperto, e che ora viene confermato, non è possibile; l’analista deve tenere molto per sé, accantonare e mettere da parte contenuti che poi dovrà usare, al momento opportuno, tenendo conto della situazione analitica ed esistenziale del suo paziente. L’analista non può dire tutto, ma deve cercare di chiarire il più possibile queste motivazioni.

Anche quelli che iniziano l’analisi dichiarando esplicitàmente la loro intenzione di diventare psicoanalisti, sembrano per un tratto accantonare il problema della professione, salvo riportare alla luce il loro progetto più o meno allo stesso tempo e negli stessi modi di coloro che intraprendono una psicoterapia per alleviare un disagio personale. A tutta prima, le argomentazioni degli uni sembano diverse da quelle degli altri: gli aspiranti terapeuti sembrano più lucidi e consapevoli; ma poi anch’essi affondano nei meandri dell’inconscio e quel loro progetto si rivela essere usato come un meccanismo di resistenza analogo. A questo punto il compito dell’analista non è più facile o più difficile in un caso o nell’altro: quel parametro diverso che pareva dovesse venire applicato cessa di valere. In entrambe le situazioni, il desiderio si rivela ben presente e deve essere valutato in tutta la sua pregnanza. Bisogna procedere con estrema attenzione e serietà, lavorando con la minuziosa pazienza di un certosino a raccogliere elementi e a chiarirli. Talvolta è bene che il terapeuta lasci trasparire qualcosa dei propri sentimenti, della propria storia di psicoanalista e di uomo. Questo atteggiamento può riuscire a sciogliere irrigidimenti difensivi e a far superare sentimenti d’amore ancora troppo distorti e viziati dall’identificazione. È importante però che egli non permetta che questi elementi della sua storia personale vengano inglobati dal paziente ed usati per la difesa o per la parodia dell’innamoramento.

Ma questi sono problemi di tecnica psicoanalitica così specifici che potrebbero annoiare il lettore non psicoanalista! Basti qui mettere in guardia il terapeuta contro la pericolosità del semplice diniego che cerca di scoraggiare. Chi ha trovato in sé questo desiderio, lo offre talvolta al suo analista come un dono, che può anche essere un dono d’amore. È indispensabile cercare di chiarire subito tutto quello che è possibile, analizzare le motivazioni del presente e quelle che si radicano nel passato. Voglio qui sottolineare, con la massima incisività, quanto sia utile che lo psicoanalista raggiunga questi obiettivi, anche compromettendosi personalmente, mettendosi in gioco direttamente. Perché questa potrebbe essere la sua prima vera possibilità di cominciare ad esistere, per il suo paziente, come persona reale, fisica e concreta: non più soltanto voce. Io vorrei sempre che coloro i quali fanno analisi con me mi sentissero persona con la mia realtà, la mia ingenuità, il mio corpo, il mio sesso, le mie paure e le mie sicurezze. Il terapeuta deve affrontare, coi suoi pazienti, tutti i meandri oscuri dai quali è sorto questo desiderio di fare l’analista, ma non deve mai assumere l’atteggiamento di svalutazione o di scoraggiamento del progetto: sarebbe questo un errore tecnico che potrebbe provocare chissà quali disastri. Si potrebbe addirittura compromettere la possibilità che questo desiderio, ancora così poco chiaro per il momento, riesca in futuro a trasformarsi in una capacità desiderante in grado di realizzarsi. Sarebbe ovviamente altrettanto sbagliato sciogliersi in elogi od espressioni di compiacimento ammirativo: basta accettare questo desiderio tenendo conto di tutte le forze, oscure e meno oscure, che lo hanno generato; senza mai assumere l’atteggiamento dell’adulto, ormai smaliziato, che su queste cose la sa lunga.

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Le motivazioni che stanno dietro al desiderio di diventare terapeuta che, a me personalmente, danno più fastidio, e che mi fanno, contro la mia volontà, irrigidire, sono quelle che partono dal cosiddetto «bene degli altri». Ci sono persone che sostengono di voler fare gli psicoanalisti, perché desiderano aiutare gli altri: c’è tanta sofferenza nel mondo, loro pensano di riuscire a capire la gente e quindi vogliono mettersi a disposizione. Talvolta arrivano a pronunciare la gigantesca negazione, dicendo: «Non per desiderio di potere…» Soggiungono: «Da sempre io sono abituato ad ascoltare i miei amici e le mie amiche. Quando c’è un disagio, quando sorgono problemi sentimentali, o con lo studio, o con la famiglia, insoddisfazioni, vengono da me, mi parlano e io mi accorgo che li capisco profondamente: molte volte sono stato loro di grandissimo aiuto; certo, vorrei acquisire una tecnica, per essere più efficace nei miei interventi; ma la cosa che io voglio soprattutto è aiutare gli altri.» Questo sentimento è quanto mai encomiabile, anch’io dopo tanti anni che lavoro con la gente, che lotto contro la sofferenza, psichica e non solo, spero di fare questo anche per gli altri. Quando, insieme col mio paziente, riesco a trionfare sui sintomi, a debellare parte del suo star male e vedo in lui diventare più chiari la vita e il mondo e operarsi profondi cambiamenti, sento, certamente, un senso di potere, ma anche un sentimento di tenerezza e di amore. Dovrei quindi essere forse più tollerante con quelli che, con sussiego, mi parlano dei loro sentimenti missionari, altruistici e caritatevoli; dovrei essere più tollerante nei confronti della loro inconsapevolezza; ma forse questo è soprattutto un problema mio. Forse, io stesso non ho superato l’eccessivo fascino del potere. È vero: sono consapevole che mi piace il potere, anche quello dello psicoanalista, e vorrei però che a questa consapevolezza non risultasse frammisto un atteggiamento di petulante compassione, di ipocrita carità.
Non bisogna, infine, dimenticare coloro che, per ragioni derivanti dalla loro preparazione e da scelte precedenti (è il caso dei laureati in psicologia e in medicina), poco tempo dopo l’inizio dell’analisi, dichiarano la loro urgenza di fare al più presto gli psicoterapeuti. Generalmente procedono in questo modo: prima mi chiedono se io li consideri adatti a diventare, in una ipotesi remota, psicoanalisti – esigendo, ovviamente, una mia risposta affermativa – e poi pretendono che io li aiuti a realizzare subito il loro progetto. Taluni, anzi, sfuggendo al mio controllo, approfittano delle pretestuose stampelle di un titolo di studio – quella laurea che lo stato mette così facilmente a disposizione – per iniziare immediatamente, sia pure in sordina, a fare i terapeuti. Quasi sempre costoro sono inesorabilmente da me condannati e allontanati. Nel caso particolare che mi riguarda, gioca un ruolo importante il fatto che io abbia costituito una scuola di psicoanalisi; così mi accade che molti pazienti mi chiedano di poterla intraprendere: quando non li ritengo pronti, dico loro di no, ma qualche volta rispondo di sì, anche perché sono convinto che lavorare culturalmente con la psicoanalisi possa comunque essere loro utile. Che poi riescano o meno a diventare psicoanalisti è cosa che avrà modo di essere chiarita con l’andare del tempo e col procedere del lavoro: non ho nessuna voglia di propormi come mago o indovino delle potenzialità altrui.

Una volta, un ragazzo, ancora abbastanza giovane, dopo un’esperienza depressiva in età adolescenziale, apparentemente del tutto risolta, improvvisamente, avendo notato allo specchio alcuni segni di invecchiamento: qualche ruga, i capelli un po’ più radi e altre inezie del genere, si sentì precipitare in uno stato depressivo-fobico, con momenti di vero e proprio panico: terrore della morte; non della morte come ipotesi, per qualche accidente o malattia; ma della ineluttabilità, sia pure remota, della morte. Aveva solo venticinque anni, ma non riusciva più ad addormentarsi per la paura di non svegliarsi. Guardava il mondo che gli sembrava bellissimo: il cielo, la campagna, persino la città; godeva degli incontri interessanti, delle splendide occasioni che la vita offre, dell’amore, del crescente suo successo professionale; ma si sentiva straziare al pensiero che tutto quell’universo così bello, avrebbe dovuto comunque sparire ai suoi occhi, non essere più niente per lui. Lo facevano star male il sapore gradito di un cibo, il ricordo di una stanza e cominciavano crisi davvero terribili: tremori, ansie, mancamenti. Gli martellava nella testa un insistente «perché?». Con sfida, un giorno, mi disse: «Ma neppure tu puoi garantirmi l’immortalità!» Io non risposi, sapevo che in lui era esplosa, clamorosamente, una paura che è in tutti, anche negli animali e nelle cose. Conosco, purtroppo, questa paura, che è unita alla consapevolezza dell’inevitabilità: vincerla significherebbe vincere il destino degli uomini:
«…un poco ancora lascia che guardi l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo, cose ch’han molti secoli o un anno o un’ora, e quelle nubi che vanno. lasciami immoto qui rimanere…» (G.Pascoli, L’ora di Barga) dice la poesia semplice e antica che ci hanno fatto imparare da bambini e che ci insinua dentro una malinconica paura. Gli dissi: «Io posso curare questi tremori, quest’ansia, questa paura che ti prende prima di addormentarti, questo disperato senso di inutilità del tutto, perché sono cose che, bada bene, non derivano dal timore della morte; ma da qualcosa che è dentro la vita. Saremo compagni, uniti anche da questa paura che tutti ci portiamo dentro e che tu non capisci.» Il lavoro si avviò subito e il rapporto fu intenso, caldo, coinvolgente. I momenti di panico scomparvero, gradatamente, ma rapidamente. Per lui la morte era l’assenza, la difficoltà a percepire l’altro; dietro a questo c’era anche un padre inerte, depresso, che, nelle fantasie del figlio, era pensato sempre con un grande pene moscio; un padre che non lo voleva accogliere, mentre lui avrebbe voluto giocare tra quelle cosce che lo respingevano. Si buttò letteralmente su di me: un padre ritrovato, che lui sentiva energico, diverso dall’altro depresso e anemico, che ogni mattina recitava la farsa di un risveglio che sembrava però una morte. Mi voleva turbolento e vitale ed io ero spaventato da quella sua voglia di vivere, da una così intensa capacità di lottare e dal constatare quanto poco gli importassero le mie contraddizioni. Un giorno mi disse: «Voglio diventare psicoanalista.» Mi colse quasi di sorpresa; eppure, pensai dopo, era il tempo, ed io non me n’ero accorto. Mi domandò ancora: «Mi aiuti?» Gli risposi di si: non lo potevo respingere. Trascurò e fece male persino il suo lavoro, pur di prepararsi alla nuova professione.
Attesi con pazienza che si rendesse conto che il mestiere di psicoanalista non era adatto per lui.

Volevo che comprendesse che guarire vuol dire ritrovare il coraggio di prendersi cura di sé e degli altri, e che ci si può prendere cura, nel mondo, anche con mezzi diversi da quelli propri dello psicoanalista.