26 – Novembre ‘86

novembre , 1986

Alla Sala Umberto abbiamo avuto l’occasione di apprezzare un ottimo concerto di musica contemporanea. Tre bravi esecutori: Antonella Franceschi (violino), Michele Modigliani (fagotto), Danilo Rossi (clarinetto); hanno eseguito con perizia le musiche di Giovanna Marini, stando, con garbo, sulla scena di: Nina, è un’altra cosa di Michel Vinaver, allestito da La Fabbrica dell’Attore. Una musica di ottima fattura e di grande efficacia che, da sola, costituisce uno spettacolo: sinuose melodie che si intrecciano, sensuali sgocciolii di note, morbidi e sentimentali accordi. Un’atmosfera romantica molto intensa, con ricordi di Milhaud e Poulenc, che si insinua da ogni parte, costruendo un mondo sonoro ricco di emozioni e di cangianti stati d’animo che vale la pena di impegnarsi a seguire. Non vale invece la pena di seguire il testo di Vinaver: si tratta infatti di uno striminzito assemblaggio di battute imbecilli, noiose e senza alcuna efficacia: un fratello parrucchiere porta la sua ragazza in casa, dove vive insieme col fratello sindacalista. I tre si trovano insieme prima nella vasca da bagno e poi nel letto; ma poi la ragazza fugge con un polacco e al sindacalista non resta che il ricordo tunisino di una scatola di datteri.

La recitazione di Stefano Santospago, Fabio Maraschi e Manuela Kustermann, se pure a livello professionale, è stanca e priva di ritmo, non riescono a ravvivarla neppure i continui squittii della Kustermann insistentemente nuda coi suoi nudi compagni.
La regia di Marco Mattolini non pare capace di fare nulla per risvegliare un qualunque tipo di interesse e l’azione scenica si svolge stancamente in una povertà di idee desolante, se si eccettua il tentativo di animare i personaggi costringendoli ad un via vai squinternato, come di chi patisca di una grande instabilità psicomotoria. Forse volutamente, miseri anche gli elementi scenici di Mario Romano.

Sebbene ad un altro livello, del tutto scialbo ci è parso anche il testo di Bernard Slade, autore americano, scioccamente televisivo, di una mielosa storia che si srotola per due atti infarciti di battute che vorrebbero essere spiritose, ma che non lo sono (in sé) quasi mai. In questo modo, due personaggi improbabili e malissimo costruiti, psicologicamente e teatralmente, vorrebbero raccontare la loro Commedia d’amore. I protagonisti sono un brillante scrittore di commedie di successo e una goffa ragazza con la vocazione a scrivere, i quali si incontrano nel giorno del matrimonio di lui con la figlia di un importante uomo politico e promettente «donna in carriera» lei medesima. Mentre il matrimonio fallisce, procede l’intesa artistica ed esistenziale in bianco, tra i due, finché si arriva al punto in cui il groviglio è così inestricabile che lei decide di andarsene con un altro uomo. La separazione provoca il crollo di lui e l’affermazione di lei, ma nel momento in cui si ritrovano riescono persino a provarci, senza riuscirci però. L’assoluta incapacità drammaturgica dell’autore si rivela macroscopicamente nel finale, flaccido e irritante. Slade si mette infatti, e mette i suoi personaggi, nelle condizioni di far risultare cretina qualunque possibile conclusione. Siamo rimasti stupiti da tanta balordaggine e ci siamo chiesti che senso abbia avuto l’operazione di Ardenzi, di far tradurre e acquistare i diritti di un testo così insulso. Qualunque sceneggiatore televisivo di casa nostra ne produce – di testi del genere – a tonnellate, senza obbligare la produzione ad assumersi anche le spese di un traduttore. Assolutamente eccezionali, per bravura e fascino, gli interpreti: Giorgio Albertazzi e Ornella Vanoni. Lui dinamico, spigliato, ammiccante. Lei estrosa, accattivante, anche clownesca, nel senso migliore. Entrambi, dall’inizio alla fine, impegnati in un vero e proprio saggio di virtuosismo teatrale.
Da qualche parte, abbiamo sentito Albertazzi difendere la trovata del suo nudo integrale in scena, con l’affermazione che lo spettatore vedrebbe in questo personaggio, nudo, l’Amleto che da sempre ha nella memoria e tutti i personaggi, vestiti, che l’attore ha interpretato. Possiamo assicurargli che a far sensazione è proprio l’Albertazzi nudo, con ciò che di bello e di brutto c’è in questa curiosità soddisfatta. Ci piacerebbe sentirgli dire che questo piccolo gesto esibizionista lo diverte ed anche che è consapevole di quanto contribuisca a destare interesse per lo spettacolo.
Fanno corona briosa ai due protagonisti Tatiana Winteler, Mirella D’Angelo e Alessandra Stordy, mentre riesce invece a costruire un carattere di qualche robustezza, l’intelligente interpretazione di Gabriele Antonini, nelle vesti del marito-giornalista, geloso e appassionato.
La regia firmata dall’attore è astuta e sapiente, pronta a non lasciarsi sfuggire neppure la minima possibilità, capace anche di aggiungere spunti e trovate, dove servono, a getto continuo. La scena di Vittorio Rossi è essenziale e efficace, permette ai personaggi di restare padroni del campo; i costumi di Ambra Danon sono gustosamente ironici e Gianni Versace veste in modo divertente la Vanoni, nel secondo atto. Le musiche discrete di Mauro Paoluzzi si inseriscono con gradevole tocco tra le molte parole. Il pubblico dell’Eliseo pareva soddisfatto