26 – Novembre ‘86

novembre , 1986

Un giovane artista diciassettenne, Bernardo Siciliano, presenta alla galleria di Carlo Virgilio, in Via della Lupa 10, una trentina di pastelli che testimoniano un lavoro assiduo e intelligente, che gli ha permesso di raggiungere una capacità espressiva coinvolgente e non superficiale. Non c’è nessun bisogno di assumere atteggiamenti paterni o indulgenti per apprezzare questo ragazzo dalla personalità artistica tanto matura. Usando una tecnica tra le meno ovvie e allo stesso tempo delle meno presuntuose: il pastello, egli propone, su grandi fogli di carta cui il passe par tout bianco conferisce ancor più ampio respiro, i suoi paesaggi campestri o urbani. Il discorso poetico si svolge sommessamente, anche con qualche ripetitività, nei soggetti modesti, che sono per lo più boschi, prati e colline. Il colore è disteso con segno trasparente e la luce è morbida e velata. In quattro o cinque di questi fogli compaiono le sagome e i muri delle case di città, i lungotevere, e qui diventa importane la presenza delle ombre che danno un’impressione di misteriosa riservatezza, che contrasta con l’apparenza serena del rosa e del giallo degli intonaci. In due fogli più grandi degli altri: Umbria: sul Tevere e Sera verso Asproli, cambia il tono generalmente sommesso e luci e colori vi sono più decisi e contrastati.

Walter Valentini insegna alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano ed è nato cinquantotto anni fa a Pergola in provincia di Pesaro. Sono dati scarni, ma che fanno intuire un lungo cammino anche artistico. Questo approdo alla Galleria L’Isola in Via Gregoriana 5 è quindi probabilmente solo una tappa. L’architettura delle città del sole, le stanze del silenzio, la sezione aurea e Raffaello sono gli elementi conduttori di questa proposta «Costruttività della memoria».
Chi vede tutti insieme i grandi pannelli raccolti nella mostra ha l’impressione di una unica idea compositiva, stancamente ripetuta attraverso l’uso di un lessico piuttosto povero. Sotto il gelido plexiglas che li ricopre giacciono lontani ricordi di tristi città morte, percorse dai segni di geometriche architetture. L’arco incombe come una presenza ossessiva, incapace di risolvere o di costruire alcunché. Non c’è mai nulla di solare, né di campanelliano, in queste città sbiancate come cadaveri appena dissepolti o in attesa di una sepoltura che tarda a venire. Qualche volta al bianco si alternano il blu o il nero, ma permane l’impressione luttuosa, accentuata dalle brevi tele sospese, come sudari che coprano ciò che non deve più essere visto.
La memoria è slabbrata e corrotta, come lo sono le superfici ad ampia campitura gessosa, attraversate da grosse crepe, o i bordi sfilacciati della tela. La citazione dell’incendio di Borgo, in quello che vuole essere un Omaggio a Raffaello ci è parsa così frivola che non siamo neppure riusciti a considerarla blasfema.

Il visitatore che entri allo Studio S di Via della Penna 59 per vedere gli acquerelli del Carnet di viaggio che Mario Luzzatto ha compilato negli ultimi anni rischia di essere deluso. Ci si aspetterebbe infatti di trovarsi di fronte a visitazioni, sia pur brevi, ma in qualche modo insaporite dal personale ricordo, di luoghi più meno lontani nello spazio e nel tempo e invece ci si trova di fronte a cartoline di pessimo gusto.
Luzzatto non sa padroneggiare gli strumenti che si propone di usare – in questo caso gli acquerelli – per cui ottiene colori poveri e dissennati, un disegno sporco, immagini che, nel migliore dei casi, sono citazioni post-impressioniste o svaniti grafismi di picassiana presunzione. Sembra che il pittore voglia percorrere le vie degli affetti, ma sui fogli di carta arriva ben poca cosa, come se le pur comprensibili ragioni del cuore non sempre fossero le migliori mediatrici tra l’uomo e l’artista.

Alla galleria di Ugo Ferranti, in Via di Tor Millina 26, viene presentato un tentativo – l’ennesimo, non solo nel mondo dell’arte – di negare quello che in realtà si va facendo. Così che un fotografo come Claudio Abate, vergognandosi forse della propria macchina fotografica, dichiara di non volerla usare e ricorre ad un procedimento di impressione «diretta» della carta fotosensibile, per fissare immagini che egli chiama: Contatti ad occhio nudo. Fin qui, però, non ci sarebbe troppo di male, se non fosse che i risultati sono un po’ squallidi ed anche banali, quando non cercano addirittura effettacci, come quel Dopo cena che coinvolge anche Leonardo da Vinci in una operazione di tardiva pop-art. Anche le altre grandi Immagini uniche sembrano ricercare tutt’al più scontati effetti allegorici, come la silhouette del pittore che vomita colore, o l’uccellino contenuto dalla macchina fotografica, o meramente decorativi come il fiammifero acceso o il pesce, tutto, s’intende, presuntuosamente, in «quadri» di grandi dimensioni molto adatti a vestire le pareti del salotto borghese di una ipotetica coppia di coniugi un po’ demodé e nostalgici. Non riteniamo che sia sempre giusto fare un processo alle intenzioni di chi si vuole cimentare con l’opera d’arte e crediamo che qualunque tecnica sia in grado di raggiungere obiettivi artistici; quello che un poco ci disturba in alcuni casi è che gli alibi culturali vengano presi a giustificazione dei risultati estetici e poetici e che, con evidente malafede, si dichiari di voler rendere «l’istante colto dall’occhio senza alcuna mediazione tecnica» facendo ricorso ad una tecnica che, se mai, proprio perché audace, difficile e sperimentalistica mette lo spettatore dal punto di vista di chi è forzato a vedere, chiuso nella gabbia o «prigione» predisposta dall’autore.