Archivio di giugno 1986

Psicoanalisi contro n. 23 – Le stelle fisse

domenica, 1 giugno 1986

Parlare è piacevole, almeno quanto lo è ascoltare. I1 linguaggio parlato, però, può conoscere vari tipi di disturbo: morbi che lo spezzano, lo imbruttiscono, lo involgariscono e lo rendono poco efficace. Senza dubbio, la parola malata è l’espressione di un disagio che coinvolge tutta la persona e non solo una parte di essa. Si dice che qualcuno ha mal di fegato, come se questo organo fosse una piccola persona brunastra, annidata all’interno del corpo, dove vivrebbe di vita quasi autonoma; capace di ammalarsi e di guarire, che duole, ma non si fa percepire. Sarebbe più giusto dire che «quella persona» è ammalata e il disagio maggiore lo sopporta il suo fegato. L’anatomia e la fisiologia hanno insegnato a dividere l’organismo umano in «apparati». Non tanto i grossi trattati universitari, ma anche i libricini per le scuole inferiori operano queste rigide distinzioni. Se ciò può essere utile da un punto di vista metodologico e di chiarezza, clinica e scientifica, ha però ottenuto l’effetto di condizionare la mente umana, in occidente soprattutto, ma anche in oriente, a considerare l’individuo come una somma di entità in cui viene smembrato il corpo umano: l’apparato respiratorio, quello cardiocircolatorio, il sistema nervoso e poi quello che sembra costituire uno strano «doppio» della persona: lo scheletro, ridicolo e terrifico allo stesso tempo. Fra tutti questi apparati, quello che è percepito come la realtà più autonoma è l’apparato genitale maschile. La mia lunghissima esperienza mi permette di affermare con una certa sicurezza, che, mentre le donne sentono il proprio apparato genitale come qualcosa di autonomo e in parte estraneo, ma non diversamente dai polmoni o, almeno, da quello che, in genere, si fantastica siano i polmoni (purtroppo c’è una scarsissima conoscenza del nostro corpo interno, che invece sarebbe così gradevole e grazioso da conoscere a fondo), il maschio percepisce invece il pene, con i due testicoli, come un’entità a sé di cui andare orgoglioso, se è bello e grande e obbediente, come un cavallo di razza, un po’ focoso, ma così intelligente da capire subito gli ordini del padrone. O di cui vergognarsi, se si comporta come un ribelle che si muove o non si muove a suo piacimento. La parte esterna degli organi genitale femminili è, spesso, percepita dalla donna un po’ come un equivalente dell’organo maschile; ma le decine e centinaia di donne con cui ho parlato mi confermano nella mia opinione, quando affermo che quella tenera rosa di carne non è, almeno consapevolmente, percepita come un’entità individuale autonoma. Naturalmente ci sono moltissime eccezioni, tante sfumature. Certamente qualche donna imbecille, leggendo queste mie righe, metterà in forse il mio diritto di maschio di parlare intorno all’organo genitale femminile. Con un gioco logico un po’ spinto, potrei ribadire che poco può saperne lei di come io percepisco la donna. Di fronte a prese di posizione troppo stupide, qualche volta, è bene scherzare. Identica è invece la percezione che il maschio e la femmina hanno del linguaggio-parola che, se per un verso è percepito come parte integrante della persona, altre volte è sentito come realtà autonoma che, proprio come il membro virile, è capace di agire in opposizione o fuori del controllo della volontà.

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Il linguaggio-parola che pure investe tutta la persona, ha anche però una sua autonomia. Chissà se questo è un bene o un male! Chissà se non sarebbe invece il caso di smantellare questa struttura organica per discioglierla nella realtà della persona; ma la mia educazione non mi permette di concepire troppo l’essere umano come unità, rischierei di non riuscire più a raccapezzarmi.Ogni uomo ha il suo linguaggio parlato; come non esistono due strutture anatomiche assolutamente identiche, così non esistono due modi di parlare identici. Ognuno ha il suo modo; certo, alcuni hanno un modo molto personale e riconoscibilissimo, altri si servono di espressioni più piatte e uniformi, gergali o asetticamente impersonali. Però, tutti i modi di parlare sono sempre molto riconoscibili. Qui non mi riferisco agli organi della fonazione e neppure alla loro possibile patologia. Parlo proprio della struttura linguaggio-parola che è un mondo organizzato, diversissimo di volta in volta. Non parlo neppure del timbro della voce, o meglio: non voglio soffermarmi particolarmente sul timbro della voce, sebbene anch’esso sia unico e irripetibile. Come in un sogno ben articolato e ampio è riassunta la personalità del sognatore, così, se si ascolta e si analizza la struttura verbale di una persona, se ne vedono sintetizzate tutte le caratteristiche complessive. Il linguaggio-parola ha sfere sue proprie; la più ampia di queste abbraccia, come un cielo di stelle fisse, tutta l’umanità. M’è capitato di analizzare i sogni di persone appartenenti ad almeno otto diverse nazionalità europee ed extra-europee, di occidente e d’oriente: è stato faticoso, ma i risultati sono stati molto gratificanti. Per un verso ho potuto verificare e percepire realtà culturali profondamente diverse, per l’altro ho riscontrato che alcuni punti di riferimento e alcuni simboli sono costanti; non immutabili, ma con fisionomia persistente. Di lì sono risalito alla struttura linguistica che sta dietro ai sogni ed ho notato che è diversissima, ma, nello stesso tempo, alcuni elementi, se pur fluidi, ritornano. Io credo nella storicità di tutto ciò che riguarda il divenire dell’uomo; non credo nell’immutabilità dei valori o delle concezioni collettive universali o di una razza o di un gruppo etnico. Tutto diviene con la storia, tutto è storia e tutto fa storia; ma l’uomo è uomo, ed è così giovane, è comparso da così poco tempo sulla terra, che le differenziazioni non sono riuscite ad essere troppo profonde. La seconda sfera della parola-linguaggio, meno ampia, ma concentrica alla prima, è caratterizzata da un complesso di lingue che hanno un’origine comune. Per correttezza, debbo dire che io non credo nei gruppi linguistici aventi una unica origine; ma penso che più elementi, intersecandosi e scontrandosi, abbiano dato ogni volta origine ad alcune «gestalt», che a loro volta si sono frantumate, per ricostruirsi nuovamente in altre «gestalt». Quindi chiamerei l’origine linguistica comune la «gestalt» più antica, almeno tra quelle rintracciabili. Vi è una terza sfera, sempre concentrica, ancora più stretta, che è il linguaggio-parola del gruppo etnico, cui però si sovrappone spesso, in alcune parti del mondo, la lingua ufficiale della nazione politicamente definita. Ma la lingua ufficiale, almeno per quello che riguarda le nazioni occidentali, sta sempre troppo stretta o troppo larga ai gruppi etnici, se pur con notevoli sfumature. Ciò che in Italia è macroscopico, in Francia lo è meno: ad esempio l’italiano ufficiale, parlato dalle persone di media cultura, nate e cresciute a Milano, è del tutto un’altra lingua, quasi, da quella di una persona di simile collocazione sociale e culturale, nata e vissuta però a Palermo.
I dialetti si stemperano, perdono fisionomia; le parlate locali si contaminano e si mescolano; rimane comunque sempre abbastanza evidente la struttura linguistica di un gruppo etnico, inserito o no in una realtà socio-politica chiamata nazione e che riconosce una lingua ufficiale. La quarta sfera, sempre più piccola, ma concentrica, è quella del linguaggio famigliare: il gruppo, che si è preso cura dell’individuo dalla nascita, gli imprime un proprio linguaggio-parola, che, in seguito, verrà poi modificandosi con l’esperienza personale. La sfera che stringe per penultima la persona è quella gergale: il gergo del gruppo. Si parla molto del linguaggio giovanile; in realtà esso non esiste; esistono tanti linguaggi quanti sono i gruppi e differiscono parecchio tra loro; soltanto succede che alcuni termini si ripresentino. Vi è poi l’ultima sfera che, quasi, coincide con la persona stessa: è il linguaggio-parola di quel singolo individuo, irripetibile.

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Il concetto di classe taglia trasversalmente tutto questo sistema tolemaico. Le classi sono sempre meno marxianamente distinguibili; sebbene i ricchi e i poveri esistano tuttora e anche con grandi divari economici. Nel nostro mondo esistono ancora persone molto ricche ed altre molto povere; non esiste però il linguaggio dei ricchi e il linguaggio dei poveri; o meglio: questa distinzione è quanto mai poco usabile. Io preferisco parlare di linguaggio gergale, di un clan più o meno allargato e i cui componenti sono, più o meno uniformemente, ricchi e poveri allo stesso modo. Oggi possiamo praticamente dire che esistono tante classi sociali quanti sono gli individui; sebbene gli individui continuino a dividersi in ricchissimi, ricchi, meno ricchi, poveri e poverissimi.

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Esistono lingue parlate migliori o superiori alle altre? La organica, se pur imprecisa, musicalità della lingua italiana, col suo ritmo, è migliore o peggiore del pratico e sintetico inglese? La raffinatissima lingua cinese, che tiene conto anche dell’altezza del suono di ogni segmento vocale pronunciato, vale di più? Certo, ci sono lingue che a me piacciono di più e altre che mi piacciono di meno. Talvolta una lingua più ricca per la struttura interna, per il modo di raggrupparsi delle frasi e dei singoli elementi sintattico-grammaticali, ha a disposizione più termini, più possibilità di definire e cesellare i concetti. Ma questo la rende decisamente migliore di un’altra, magari più sbrigativa ed essenziale? Io penso di no. Alcune lingue troppo complesse o raffinate hanno un che di ossessivo e proprio per il loro voler troppo precisare i concetti, rendono il parlare quasi distaccato dalle persone che parlano. La parola-linguaggio troppo povera, però, non stimola intellettualmente ed appiattisce i pensieri. Ritorna sempre il problema dell’armonia; ma la cosa più grave è che nessuno riesce mai a dire, su qualunque argomento, quale sia il punto giusto di equilibrio. L’euritmia del linguaggio-parola è un’aspirazione che ogni essere umano deve nutrire, perché parlare è bello.

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Il linguaggio troppo povero, spesso, è sintomo di un grave disturbo della personalità. Per coloro che si esprimono in lingua italiana, c’è una parola-sintomo particolarmente allarmante: la parola «cosa». Una delle più gravi patologie del linguaggio-parola in lingua italiana è l’uso eccessivo di questo termine: «È una cosa che non mi piace.» Anziché: «E’ un esperimento che non mi piace.» Oppure: «Volevo dirti una cosa.» Anziché: «Volevo rivolgerti una domanda.» Ancora: «Dammi quella cosa che c’è sul tavolo.» Invece di :«Dammi il libro che è sul tavolo.» « È stata proprio una brutta cosa.» Al posto di: «E stata proprio una brutta esperienza.» Per non parlare di quelli che usano il verbo «cosare», sostituendolo a un’infinità di altri verbi. Questa forma patologica l’ho incontrata dappertutto: dalla Alpi all’Etna, e anche più giù, nelle Cuddìe di Pantelleria.

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Ognuno deve costruire il proprio linguaggio-parola, dapprima accettando quello che il gruppo di origine gli propone e apportandovi poi le sue personali variazioni. La terapia psicoanalitica deve anche liberare dalla prigionia dei linguaggi stereotipi, incluso il linguaggio della psicoanalisi. Parlare è bello, se lo sentiamo come «un cielo stellato sopra di noi». Ho detto che parlare è bello almeno quanto ascoltare. Bisogna saper parlare e sapere ascoltare.
C’è anche una patologia del silenzio: il silenzio ostinato di chi sa soltanto ripetere: «Non so che cosa dire.» Le persone molto ciarliere sono, per lo più, violente e deboli; le persone troppo silenziose sono violente e rigide (non forti). Non sempre il silenzio è una scelta: molte volte realmente non si sa che cosa dire e allora è una vera sofferenza. Vi sono situazioni tipiche, come quando ci si trova in ascensore, con la signora o il signore del piano di sopra, e questo ascensore sale, sale, sale…. sembra non arrivare mai e non si sa proprio che cosa dire. Questa stessa sgradevole sensazione, molte persone la provano in diverse situazioni della vita di gruppo: a tavola, a scuola, nel lavoro; gli altri parlano e loro non sanno che cosa dire; si arrovellano ma non riescono che a spiccar poche frasi smozzicate che, per di più, loro stessi riconoscono essere sciocche. Questa sofferenza è causata da un disagio profondo che bisogna curare; bisogna affrontare terapeuticamente una condizione che rende tanti momenti della vita così difficili e impedisce di vivere in quotidiana relazione con gli altri.

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Ci sono anche situazioni particolari in cui parlare può essere faticoso o difficile, ma non patologico: per imbarazzo, per rabbia o per stanchezza. C’è invece un silenzio sado-masochista, che rode e corrode e respinge gli altri, ferendoli. C’è il silenzio narcisista, delle persone che tacciono perché non ascoltano. Si è portati a credere che i narcisisti, per lo più, parlino molto; ciò in parte è vero, ma vi è anche un silenzioso atteggiamento di assenza: per non farsi coinvolgere, non si ascoltano gli altri e si seguono i propri pensieri. Questo può anche essere l’inizio di un grave disturbo mentale, che può giungere fino alla depressione psicotica; ma è anche l’atteggiamento diffuso di molti che tacciono per non voler ascoltare, per non dover quindi rispondere, per non dare un po’ di qualcosa agli altri, con una buona componente di avarizia.

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C’è infine il silenzio sano, di chi ascolta con gusto e partecipazione. È il silenzio di quelli che sentiamo vicini a noi, che seguono i nostri ragionamenti, che bevono le parole che diciamo. È un silenzio carico di erotismo. Con queste persone, o quando ci si trova in queste situazioni, è bello parlare ed è altrettanto bello ascoltare. La terapia psicoanalitica deve insegnare anche questo: a fiaccare la tracotanza di coloro che vorticosamente vomitano parole addosso al terapeuta e la rabbiosa impotenza e la crudele ostinazione di coloro che stanno zitti e che alla domanda: «A che cosa stai pensando?» Rispondono, vilmente: «Non stavo pensando a niente.» E’ un’affermazione vile, poiché non è possibile pensare a «niente». Si pensa sempre a qualcosa, come sempre si sogna.

23 – Giugno ‘86

domenica, 1 giugno 1986

Via della Cisterna è un punto bellissimo, immerso nel cuore di Trastevere, e lungo i muri di una vecchia casa, all’altezza del numero 13 si distendono sotto il glicine, i tavolini del ristorante La Cisterna, attrazione irresistibile per chi passa, in queste sere in cui è bello mangiare fuori. Tanti turisti, ovviamente, cui badano gentili e aitanti camerieri, con gilet verde-azzurri e fazzoletto al collo. Le sale interne in questa stagione sono vuote e risalta ancora di piu la ridicolaggine degli affreschi pretenziosi e bruttini. Anche noi ci sedemmo con gioiosa aspettativa, rallegrata da un vinello bianco della casa giusto per preparare il palato e lo spirito al pasto imminente. A questo punto il disastro: secondo noi è incivile beffare così i turisti e i pochi malcapitati romani, che seppur non portano valuta pregiata pagano pur sempre con soldi «buoni».

Le fettuccine alla romana sono orribili, insipide, in un sughetto soltanto amaro; gli agnolotti alla trasteverina, sono fagottini di pasta che avvolgono il nulla e il sugo è salato in modo intollerabile. Gli scampi fritti hanno incontrato l’olio bollente la prima volta ai tempi della breccia di Porta Pia, dopo di che hanno conosciuto innumerevoli e miserevoli «riscaldature»; lo stesso è accaduto alla frittura di cervella, stantia e maleodorante; il pollo alla «Cesaretto» aveva le carni sfatte e immerse in un dolciastro intruglio; e i bocconcini di vitella con funghi parevano reperti da sala settoria, circondati da indecifrabili verdure. Le cose non sono andate meglio con i dolci: un tiramisù e una torta mimosa nella tradizione peggiore. Inspiegabilmente buono anche il vino rosso, dalla gustosa vinosità con profumo di sottobosco, giovane e giustamente tannico. Il conto era facile prevedere che sarebbe stato alto e non si sono smentiti.

Dopo tante disastrose esperienze, vissute nei piu begli angoli di Roma, ci siamo seduti, in una calda notte di maggio, un po’ tremebondi a un tavolinetto della Taverna Trilussa, apparecchiato sotto le stelle in un slargo di via del Politeama, tra il lungotevere e via Del Moro. C’eravamo portati appresso due amici che erano, quella sera, eroicamente disposti anche al sacrificio per amor dei Farfalloni. Tutt’intorno alitava un delizioso ponentino, volteggiante tra il fiume ed i vicoli. Ci togliemmo la prima sete con un bicchiere di Verbesco dei Marchesi di Barolo, giovane, leggero, appena frizzante, dal gradevole profumo erboso. Dissetati ma non ancora rassicurati abbiamo avuto la bella sorpresa di un’insalata di mare fresca e profumata, senza punte acide di li-mone o di aceto, e una buona varietà di verdure dai sapori vivaci e dalla gratinatura croccante. Buoni anche i primi: penne all’arrabbiata eccellenti, rigatoni alla norcina, fragranti di buon pecorino, piatti semplici ma dal sapore «alto», che non conoscevano l’insulto della panna. L’ab-bacchio scottadito era croccante e tenero, sapidissimo, nel rispetto della migliore tradizione, come la coda alla vaccinara, carnosa e ricca di gusti; piu ordinaria la lombata e un po’ sdolcinate, forse, le scaloppine alla zingara, con gli inevitabili, insapori, funghi coltivati. Ci hanno assicurato che il tiramisù era «produzione propria», e bisogna dire che era eccezionale, buona anche la torta di mandorle. Qualche cosa da ridire l’abbiamo trovato sul bianco della casa: un vinello difficile da riconoscere, perché mal tenuto e con sgradevoli tracce odorose, come di polvere e muffe. Buono invece il rosso: un vino di Cerveteri, asciutto e franco. Il servizio è stato simpatico e cordiale, malgrado l’ora tarda, e il conto si è tenuto su livelli medio-bassi, in rapporto alla zona.

23 – Giugno ‘86

domenica, 1 giugno 1986

Chiediamo di fare con noi un piccolo gioco a coloro che si accingono a leggere le righe che dedichiamo al volume di Emanuele Severino, La filosofia contemporanea (ed. Rizzoli, pagg. 268, Lit. 18.500): «qual è la prima immagine che vi viene alla mente, se sentite dire la parola cattedra?» Siamo sicuri che a quasi tutti sarà venuta alla mente l’immagine di un tavolo, messo in una posizione un po’ sopraelevata. Solo in seguito, i più sapienti diranno: «Ma no, la cattedra non è un tavolo, bensì una sedia!» La cattedra è lo scranno sul quale gli antichi Maestri sedevano per insegnare. Ancora oggi, nelle cattedrali della cristianità è visibile un seggio, senza nessun tavolo davanti, che è la cattedra del vescovo.

Perché, allora, nell’opinione comune, la cattedra è diventata un tavolo? Per due ragioni, soprattutto, che però si intrecciano e si fondono l’una nell’altra: la prima è quella di mettere una barriera tra maestro e discepolo, la seconda è di avere a disposizione una superficie su cui posare gli scartafacci burocratici dei moderni maestri, che altro non sono che tristi funzionari dello Stato. Sempre più si diffonde tra costoro l’abitudine di parlare in pubblico seguendo le tracce di un foglietto di appunti o, peggio ancora, leggendo un testo scritto in precedenza. Arteriosclerosi dilagante? Crediamo di no: è pura e semplice vilta. Chi ha qualcosa da dire deve essere capace di dirlo stando in mezzo agli altri, senza tavoli che lo proteggano, con la sensazione di sentirsi gli altri addosso, col coraggio di fare lapsus o il rischio di dimenticare improvvisamente qualcosa. La filosofia dei burocrati inizia con un personaggio unico e splendido: Emanuele Kant, solo filosofo degno di questo nome che si sia mai seduto dietro a una cattedra-tavolo di università. Poi la situazione è precipitata e la filosofia, che era stata viva nelle strade, nei porti, nelle palestre, nei conventi, nei mercati e nelle «accademie» è morta, entrando nelle università di Stato.

Già i Greci sapevano che la filosofia non esiste; soltanto l’ottusità degli «stati nazionali», più o meno fascisti e più o meno capitalisti, ha creduto di poterla far vivere imbalsamata, dando uno stipendio a funzionari che non sono filosofi e che potrebbero tutt’al più essere onorati di chiamarsi storici della filosofia, se la filosofia esistesse.
In questa accezione la sopravvivenza del termine «filosofia» non costituisce che il pretesto per uno stipendio a fine mese (questa è la sola cosa seria), o per lotte di potere tra «baroni» (e questa è la cosa turpe).

Quando Severino dice:

«La filosofia cessa di essere «metafisica» – cioè conoscenza che si porta oltre l’esperienza per stabilire i confini della totalità dell’essere – e si spezza in una pluralità di teorie particolari: psicologia, logica, sociologia, riflessione critica sulle varie forme della scienza moderna, storiografia. Dal tronco della filosofia si staccano le cosiddette «scienze dell’uomo» e la filosofia va sempre più perdendo ogni suo carattere specifico» (pag. 21). La sua è un’affermazione senza senso perché: I) se la filosofia ha un’ombra di esistenza la ha soltanto in quanto è metafisica; II) la filosofia, dall’antica Grecia ad oggi, è sempre stata «psicologia, logica, sociologia..» eccetera.

Certo, dalle cattedre di Stato si può soltanto fare della storia della filosofia, e perciò tutto il discorso di Severino è viziato dall’errore di fondo di credere che la filosofia esista.
Un’altra affermazione dell’Autore è estremamente imprecisa:

«…, la forma suprema di dominio sulla Terra è oggi costituita dalla civiltà della tecnica, il cui agire è sempre più guidato dalla razionalità scientifica. In questa situazione la scienza diventa il principio e il punto di riferimento di ogni forma di cultura e quindi anche della cultura filosofica» (pag. 262).

Ciò, in parte, è vero: uno scientismo più o meno dilettantesco pervade i discorsi e le chiacchiere; ma cio che si chiama «filosofia», oggi, è, molto spesso, un anemico e inefficace riverbero delle banalita di un Kundera, delle stupidaggini di Alberoni, che, a loro volta, sono sorrette dalla volgarità e sono dirette emanazioni di «quelli della notte». Giustamente: è inutile infatti scrivere libri di «filosofia».

Un’altra affermazione ci pare corretta a metà: «L’intera civiltà occidentale e, al culmine di essa la civiltà della tecnica crescono all’interno dello spazio aperto per la prima volta e una volta per tutte dalla filosofia greca. Questo spazio, mai percepito prima dei greci, e il senso greco del divenire, la convinzione cioè che le cose escono dal niente e vi ritornano, e che questo movimento delle cose del mondo è l’evidenza fondamentale, originaria e indubitabile. Solo se le cose sono pensate come un uscire e ritornare nel niente è possibile quel radicale progetto di dominio della Terra in cui consiste la civiltà occidentale» (pagg. 262-263). La prima parte di questo discorso è tanto vera da essere autoevidente; la seconda è priva di qualunque fondamento storico. Anzitutto- e ci riferiamo anche ad altri punti del libro – la filosofia non è mai servita a liberare l’uomo dalla paura (checché ne dicesse Epicuro); ma, se mai, è servita a dargli il coraggio di affrontare la paura. Inoltre, la filosofia cosiddetta «greca» ha un rapporto così articolato con il «nulla» che è scientificamente e metodologicamente scorretto ridurlo ad una affermazione univoca, come ha fatto Severino. Che poi la filosofia greca, e comunque quella del passato, abbia tentato di costruire una epistème, cioè di interpretare oggettivamente il divenire, è una tesi delirante. Per alcuni sistemi può magari anche essere vero, per altri è quanto mai falso. Il tentativo di Severino di salvare la filosofia, o meglio di trovarle uno spazio, è encomiabile; ma la filosofia questo spazio – per fortuna – non lo ha mai avuto.

Omero, gli aedi e i rapsòdi, Eraclito, il politico e pedagogico Platone e il fisico naturalista Aristotele avrebbero trovato questo libro un cumulo di sciocchezze, dette però – e questo è un grande merito e un segno del coraggio dell’autore – con grande chiarezza, in tutta l’opera, di cui questo terzo volume costituisce, per ora, il compimento.

23 – Giugno ‘86

domenica, 1 giugno 1986

Una bruttissima serata fin da subito quella in cui ci siamo recati al Giulio Cesare, per assistere alla rappresentazione del Don Giovanni di Molière: in sala una bolgia inverosimile perché le biglietterie avevano dato biglietti coi numeri doppi a molti spettatori, oltre che ai Farfalloni, solo le gentili e simpatiche mascherine sono riuscite a non perdere la pazienza e a sistemare tutti in qualche modo. Lo spettacolo è poi iniziato con un ritardo intollerabile anche per chi ha fatto l’abitudine ai ritardi cronici del teatro italiano; come se non bastasse, ci è successo, nell’attesa, di chiedere al bar due coppe di prosecco, per vincere il caldo insopportabile, ma ci hanno offerto un indecoroso vinaccio, acido e gelato, gassato come una bottiglietta di limonata. Si critica spesso il servizio nei locali pubblici, perché tacere quindi sul modo sgangherato in cui può venire gestito un teatro? E questo è stato solo il preludio. Si è aperto infine il velario sulle vicende dell’eterno seduttore, che, però, colleziona, sulla scena, più insuccessi che conquiste, in molte delle varianti che questa storia ha avuto nei secoli.
Luca De Filippo e Vicenzo Salemme hanno tradotto in napoletano il testo francese e diamo loro atto di aver fatto un buon lavoro: questa lingua meravigliosa brilla di luce propria e l’operazione risulta quanto mai corretta; ma i meriti si fermano qui, fatta eccezione per una parentesi di cui diremo in seguito. Il testo di Molière non è uno dei più riusciti del grandissimo autore: le scene sono talvolta pesanti, anche se l’unghiata del genio si intravede in molti momenti, che offrono ai registi gli spunti per costruire frammenti di efficace teatralità. In questa edizione non è avvenuto niente di tutto questo: la regia di De Filippo non aveva nessuna coerenza e la noia è stato l’effetto dominante, che ha raggiunto il culmine nell’interminabile pistolotto moralistico con cui il Seduttore giustifica la sua metamorfosi nei panni per lui nuovi dell’Ipocrita. Fuori luogo anche la scelta di un insulso ciarpame di gesti, boati, effetti luminosi, nel finale. In tanto ridicolo si è però stagliata la gemma splendente e isolata della disperata invocazione di Sganarello che, vedendo il padrone sprofondare all’Inferno grida:« La paga! La paga!» con un effetto di straordinaria drammaticità.

Dei personaggi, il peggiore in assoluto, è stato il Don Giovanni di Luca De Filippo: il copione gli si era malamente appiccicato in testa, tanto che scordava le battute privando i compagni della possibilità di replica; ma, quel che è peggio, non è stato capace di trovare una chiave interpretativa, diceva la parte con tono monocorde e cantilenante, perdendo tutti i possibili effetti; per esempio l’esposizione che fa a Sganarello delle delizie del gioco seduttorio, piena di occasioni per inventare immagini da porgere con gusto, viene trasformata in una stanca elencazione, come se fosse la lettura di una lista della spesa. Anche i suoi gesti sono stati sempre uguali, indifferenti ad ogni evolversi drammatico delle scene. Sganarello è stato appena migliore del suo padrone: anche la voce di Salemme restava rigida e stereotipa. Certo, si intravedeva un po’ di mestiere, ma non faceva molto più che affidarsi agli effetti della bellissima lingua napoletana davvero molto efficace in bocca al servo arguto e ben pensante.
Tutti gli altri ci sono parsi corretti in una suddivisione di ruoli che faceva esprimere gli aristocratici in pomposo italiano e i plebei in napoletano. Ora vogliamo dire di ciò che ci è piaciuto e di chi lo ha reso piacevole. Nella scena che succede al naufragio della barca di Don Giovanni, nella quale egli ha l’occasione di mostrarsi, oltre che seduttore, anche ingrato, promettendo contemporaneamente il matrimonio a due popolane, una delle quali è la promessa sposa del pescatore che l’ha salvato, sono stati di scena tre personaggi interpretati da tre ottimi attori. Giuseppe De Rosa è stato un Piarrò, caleidoscopico, stralunato, capace di trovare accenti giusti, sia di umorismo sia di accorata disperazione. Alessandra Borgia (Maturina) e Antonella Cioli (Carlotta) sono state pungenti, vivaci e scattanti nel delineare due caratteri femminili ben differenziati, ma complementari.
Raimonda Gaetani ha creato costumi che ben rendevano splendori e miserie del Barocco e ha forse ecceduto in naturalistica povertà delle scene. Le musiche erano di Nicola Piovani.

Pier Maria Rosso di San Secondo è l’aristocratico nome di un autore drammatico siciliano il quale ha conosciuto una certa notorietà intorno agli anni venti-trenta. Il suo teatro espressionista tiene presente la lezione di Strindberg, ma si esprime anche con una propria personalità. Febbre è un testo del 1926, non privo di una certa efficacia, con alcune battute che colpiscono per la tensione interna e per la bizzarria delle immagini; ma tutto sommato ha più che altro un valore di documento emblematico di un’epoca. La storia è quella di Elsa che, privata da un incidente automobilistico dell’uomo della sua vita, si attacca morbosamente a Marta, la ragazza malata che ha spiato per anni le vicende del loro amore, nutrendo di esso la propria acerba sensualità. Nel culto molto particolare che le due donne dedicano alla memoria di quel perduto amore, si inserisce come elemento di disturbo il maturo professor Remoli, sorta di terapeuta in cui la fanciulla ripone la sua fiducia, destando la gelosia di Elsa. Quando però Remoli e la donna si incontrano capiscono di essere persone intaccate dalla stessa febbre di maledetta sensualità che li corrompe e consuma. La passione tra i due riesce a destare l’orrore di Marta che così acquista la capacità di staccarsi da entrambi, finalmente guarita e pronta a lasciare le ombre del passato. Sia il testo in sé, sia la realizzazione che ne ha fatto la Cooperativa Fabbrica dell’Attore, hanno sortito il risultato di un kitsch perfetto: tutto vi è infatti di leggero cattivo gusto, come quegli oggetti che erano tanto di moda alcuni anni fa. L’unico elemento esente da ogni sospetto di cattivo gusto e di ambigua morbosità sono state le musiche di Francesco Verdinelli, che è riuscito a rendere le atmosfere, le angosce, le situazioni e i turbamenti meglio di quanto non abbiano fatto la recitazione, la scenografia e il testo medesimo. La musica ha dominato sulla scena in modo assoluto: con il bel tema eseguito dalla sonorità ingigantita di un improbabile pianoforte, angoscioso e martellante; con sottili vibrazioni che s’ingigantivano fino a esplodere, invadendo tutta la scena per poi insinuarsi negli interstizi dei gesti e delle battute. Sempre ben inserita dal punto di vista teatrale, la musica ha creato una sua «febbre», autonoma per dignità, ma funzionale dal punto di vista scenico: merito questo, forse, anche del regista Giancarlo Nanni, che, per il resto, ci è parso indulgere a schemi di effetti, con citazioni sparse, da antologia teatrale. Le scene di Mario Romano ci sono parse adeguate alla situazione, con il loro oscillare tra temi cubistici e ricordi di vignette per bambini. I costumi di Luciano Soprani crediamo fossero volutamente sempre un po’ sopra o sotto le righe. Emanuela Kustermann è stata la sola interprete che abbia tentato, riuscendoci, di presentare e disegnare un personaggio. Inguainata in lucidissimi abiti neri e rossi ha però tentato troppe espressioni e intonazioni di voce, facendo un uso indiscriminato ed eccessivo delle vocali aperte: le sue «è», le sue «à», le sue «ò» la facevano simile ad una soubrette degli anni cinquanta, in piena crisi isterica che, invece di scendere chilometriche scale, si sbatacchiasse contro persone e cose. Indecenti tutti gli altri: Alvia Reale, nella parte di Marta, sembrava l’improbabile caricatura di una suora di clausura, e Piero Di Torio, il professor Remoli, aveva scelto, incomprensibilmente, la strada del conte Dracula. Gli altri inevitabilmente piatti.

23 – Giugno ‘86

domenica, 1 giugno 1986

Mercoledì 21 maggio, al Teatro Olimpico, una grande folla di musicisti, di giovani e meno giovani amanti la musica, ha seguito con estrema attenzione e – una volta tanto – con partecipazione, un concerto di musica del Novecento diretto da Pierre Boulez. Il sessantenne compositore francese è, secondo noi, uno dei migliori direttori d’orchestra oggi viventi, che unisce ad una precisione assoluta la capacità sbalorditiva di estrarre da un brano musicale i significati più profondi. Nulla va perduto: la composizione, sotto le sue mani, viene quasi distillata e l’orecchio è accompagnato, senza pedanteria a seguire le trame più nascoste del tessuto della partitura.

Noi ripetiamo continuamente che la musica contemporanea deve essere eseguita spesso, perché non è vero che sia così astrusa e oscura come si crede; ma è però carente di grandi interpreti. I grossi nomi del concertismo e della direzione orchestrale preferiscono infatti proporre al pubblico brani di effetto sicuro: gli applausi scroscianti dopo l’ultimo accordo dell’Eroica fanno piacere a tutti, oltrechè costituire un incremento dei guadagni. Così accade che, quando questi superbi interpreti della musica di ieri affrontano – per bizzarria o per senso di colpa – un brano dei nostri giorni, lo eseguono senza avere la tecnica e la cultura sufficienti a capirlo e ne vengono fuori quei pasticci indecifrabili che ben conosciamo. Indubbiamente molta dell’arte di oggi, e quindi anche della musica, è pura zavorra, ma è compito degli interpreti saper trarre da ogni opera il massimo delle sue possibilità. L’interpretazione non è certo unica, ma quando un grande si esibisce deve dare l’impressione che sia così. Boulez ha avuto il coraggio di spendere buona parte del suo tempo impegnandosi per la diffusione della musica contemporanea, anche se è vero che egli stesso è, oggi, ormai un classico, un mito.

Il primo brano in programma era costituito dalle Eight instrumental Miniatures di Igor Strawinsky, una trascrizione del 1962, per orchestra da camera, con qualche rimaneggiamento, degli «Otto pezzi facili per le cinque dita» per pianoforte, del 1921. Brani di un equilibrio interno perfetto, carichi di un pathos intensissimo, di una semplicità antica e di una tornitura del suono, un uso degli strumenti da geniale artigiano. Si passa dalla struggentissima ninna nanna dell’«andantino» iniziale, attraverso momenti danzanti o meditativi, nell’esaltazione ora delle melodie ora dei ritmi, a una tenerissima «pastorale», per concludere poi col famoso «tempo di tango», meraviglioso e sensuale nella semplicità delle sue armonie. Boulez ha esaltato sottilmente le potenzialità sonore e ritmiche del brano, nel rispetto più assoluto del testo.

Les Danses pour Harpe et Cordes di Debussy, del 1904, non sono uno dei suoi lavori più famosi, ma sono un gioiello di raffinata atmosfera orientale, da cui prendono forma, a tratti, bellissime melodie, che poi si stemperano in semplici e tuttavia ben costruite fluidità armoniche. La bravissima arpista Marie Claire Jamet ne ha cesellato una esecuzione preziosa, anche ben dialogando con gli altri strumenti.
Les Improvisations sur Mallarmè, I e II, sono tratte da un’opera dello stesso Boulez del 1960: «Pli selon Pli». Sono due pagine abbastanza gradevoli, seppur un po’ ovvie. La prima, frivola e prevedibile, come la più semplice delle musiche galanti.

La seconda, di un malato decadentismo, immerso però in una atmosfera musicalmente ricca. L’esecuzione degli strumentisti è stata perfetta, la direzione ha guidato con equilibrio l’arpa, le percussioni, la celesta, i tamburi e il pianoforte, insieme con la bellissima voce del soprano Phyllis Bryn Julson. Noi però ancora non riusciamo a trovare il senso di un’operazione (qui come tante altre volte) che agisce con la musica sui versi più o meno belli, costringendo, con esplicita artificiosità, la voce a rendere incomprensibili le parole. Perché umiliare così la poesia? Se questo tipo di operazione era inevitabile nella polifonia vocale cinque-seicentesca, non ha senso ora, in un concerto del genere, in cui la lettura dell’opera poetica deve essere almeno rispettata. Dopo l’intervallo, abbiamo potuto apprezzare una godibilissima esecuzione degli Oiseaux Exotiques, opera del 1956 di Olivier Messiaen, per pianoforte principale, piccola orchestra di fiati, xilofono, celesta e percussioni, nella quale il musicista francese utilizza elementi tratti dal canto degli uccelli di India, Malesia, Cina e delle Americhe. L’orecchio non conosce un momento di noia: le armonie, solo apparentemente ostiche, esplodono o si rapprendono in piacevolissimi agglomerati di note; spesso brilla anche un contrappunto ridotto all’osso e usato con sapienza sbalorditiva. Molto belle le parti solistiche del pianoforte, logicamente collegate al discorso orchestrale, rese con giusto timbro e ritmo dal bravo Pierre Laurent Aimard. Entusiasmante, a dir poco, la direzione di Boulez.

L’ultimo autore in programma era Gyorgy Ligeti col suo Concerto de Chambre del 1969-70. La bravura del direttore è riuscita a rendere comprensibile quel pochissimo che era contenuto nell’orribile brano. Il primo tempo è un monotono e sgraziato stillicidio di suoni, con qualche nota lunga senza senso; il secondo tempo, un girovagare insulso di note e poi lunghi accordi e orribili suoni gravi dei fiati; il terzo tempo è uno sconnesso pizzicare degli archi e seguitare di accordi senza consequenzialità. Il tutto conclude, dopo sonorità sempre più gratuite, con un dissennato trillo dei fiati, alla fine del quarto movimento.

23 – Giugno ‘86

domenica, 1 giugno 1986

Paradossi

Un paradosso sembra essere quello dello Stato che, paternalisticamente, vuol garantire i cittadini che anche la loro salute mentale può essere tutelata attraverso gli organismi giuridici e burocratici interni al proprio sistema. Così che, mentre il servizio sanitario nazionale non arriva a garantire il minimo di assistenza, nonostante le migliaia di medici e tecnici ospedalieri laureati e abilitati, ma costretti all’inattività e alla disoccupazione dalla mancanza di strutture adeguate; ciò non di meno il parlamento pretende di legiferare in materia di psicoterapia, senza che esistano strutture statali che prevedano la formazione di un qualsiasi tipo di psicoterapeuta, dal momento che neppure lo psicologo, licenziato dall’ università di stato è, a tutt’oggi, abilitato all’esercizio della terapia. Addirittura si vorrebbe creare dal nulla e per decreto legislativo l’entità in grado di giudicare quale delle innumerevoli correnti di psicologia dinamica e non dinamica possa venire legittimata a curare e a preparare coloro che dovrebbero prendersi cura delle situazioni di disagio psichico.
Ci vuol poco a concludere che un intervento come questo può generare solo una lotta selvaggia, tesa a strappare la preda ambita: il paziente, che lo Stato di diritto avrà privato della sua libertà di scelta, realizzando in modo totalitario quel plagio da cui pretenderebbe di difenderlo, tanto che, più che plagiato, il cittadino in questione diviene «forzato».
Un altro paradosso è quello della cultura radical-illuministica dei nostri pubblicisti, che in questi giorni strepitano, confondendo un processo per truffa con un capitolo dell’Inquisizione.
Così che l’astuto personaggio che fino a ieri, ben rifornito di alibi culturali e politici, andava costruendo grattacieli finanziari privi di fondamenta, è additato quale esoterico persuasore di deboli menti.
O tutte le menti che reggono le sorti della politica e della cultura che oggi conoscono il favore del vento sono ugualmente «deboli», oppure ben robuste erano le menti di coloro che, seguendo lo stesso vento, gli avevano affidato le proprie sorti esistenziali ed economiche.
Servo encomio, ieri, e codardo oltraggio, adesso, sono il corso e il ricorso di una cultura piccina che mantiene vivo il ricordo degli «autodafé». Purché si salvi la splendida «ragione» vale ben la pena che qualche principio di libertà venga rinnegato e qualche uomo – troppo debole o troppo forte per piacere ai mediocri -venga bruciato.

La salute mentale e la libertà di decisione sono beni da salvaguardare ad ogni costo ma questa salvaguardia è una questione di benessere sociale, che non si può inventare e neppure decretare nei tribunali o – quel che è peggio mistificare, attraverso l’uso immorale della carta stampata.

23 – Giugno ‘86

domenica, 1 giugno 1986

Alla Galleria Apollodoro di Piazza Mignanelli, Gino Marotta ha esposto I giardini diApollo e altre storie barocche: una ventina circa di quadri ad olio su tela di medie e grandi dimensioni. In questa sua prova pittorica Marotta propone un distillato degli infiniti profumi del Barocco. In lui è assente del tutto il neoclassicismo, ma è presente tutta la corposa sensualità della pittura del Seicento e la sua festosità coloristica. Ciò che ci ha affascinato di più in lui è stata appunto la sua capacità di compenetrare il colore con la forte tridimensionalità delle immagini. Guardando questi boschi, questi soli adagiati sull’erba, le architetture sospese nella luce, il rincorrersi di spesse curve policrome ci risuonava in testa il verso del G.B. Marino: «È del poeta il fin la meraviglia.» E meraviglioso è l’arguto gioco barocco di trasportare avanti e indietro per tre secoli le sugge-stioni di artisti come Bernini, Friedrich e Savinio; non, si badi bene, per una pura e semplice citazione, ma per un autentico sconfinamento spazio-temporale. Meraviglioso anche lo spudorato e allo stesso tempo ingenuo uso dell’oggetto misterioso, che induce gli osservatori più banali ad evocare i fantasmi degli archetipi junghiani. Noi non riusciamo a capire perché, quando si parla di arte e ci sia l’ombra di un mistero, tutti citano sempre il povero Jung che dell’arte ha capito davvero assai poco, seppur è vero che inconscio collettivo ed elementi archetipali sono sempre presenti in ogni opera d’arte, e non soltanto, come pare per alcuni, quando l’artista ammicca al misterioso. Una piacevole sorpresa è il catalogo di questa mostra, oggetto di autonoma preziosità, forse il primo di una serie di quaderni della Galleria.