Psicoanalisi contro n. 23 – Le stelle fisse

giugno , 1986

Parlare è piacevole, almeno quanto lo è ascoltare. I1 linguaggio parlato, però, può conoscere vari tipi di disturbo: morbi che lo spezzano, lo imbruttiscono, lo involgariscono e lo rendono poco efficace. Senza dubbio, la parola malata è l’espressione di un disagio che coinvolge tutta la persona e non solo una parte di essa. Si dice che qualcuno ha mal di fegato, come se questo organo fosse una piccola persona brunastra, annidata all’interno del corpo, dove vivrebbe di vita quasi autonoma; capace di ammalarsi e di guarire, che duole, ma non si fa percepire. Sarebbe più giusto dire che «quella persona» è ammalata e il disagio maggiore lo sopporta il suo fegato. L’anatomia e la fisiologia hanno insegnato a dividere l’organismo umano in «apparati». Non tanto i grossi trattati universitari, ma anche i libricini per le scuole inferiori operano queste rigide distinzioni. Se ciò può essere utile da un punto di vista metodologico e di chiarezza, clinica e scientifica, ha però ottenuto l’effetto di condizionare la mente umana, in occidente soprattutto, ma anche in oriente, a considerare l’individuo come una somma di entità in cui viene smembrato il corpo umano: l’apparato respiratorio, quello cardiocircolatorio, il sistema nervoso e poi quello che sembra costituire uno strano «doppio» della persona: lo scheletro, ridicolo e terrifico allo stesso tempo. Fra tutti questi apparati, quello che è percepito come la realtà più autonoma è l’apparato genitale maschile. La mia lunghissima esperienza mi permette di affermare con una certa sicurezza, che, mentre le donne sentono il proprio apparato genitale come qualcosa di autonomo e in parte estraneo, ma non diversamente dai polmoni o, almeno, da quello che, in genere, si fantastica siano i polmoni (purtroppo c’è una scarsissima conoscenza del nostro corpo interno, che invece sarebbe così gradevole e grazioso da conoscere a fondo), il maschio percepisce invece il pene, con i due testicoli, come un’entità a sé di cui andare orgoglioso, se è bello e grande e obbediente, come un cavallo di razza, un po’ focoso, ma così intelligente da capire subito gli ordini del padrone. O di cui vergognarsi, se si comporta come un ribelle che si muove o non si muove a suo piacimento. La parte esterna degli organi genitale femminili è, spesso, percepita dalla donna un po’ come un equivalente dell’organo maschile; ma le decine e centinaia di donne con cui ho parlato mi confermano nella mia opinione, quando affermo che quella tenera rosa di carne non è, almeno consapevolmente, percepita come un’entità individuale autonoma. Naturalmente ci sono moltissime eccezioni, tante sfumature. Certamente qualche donna imbecille, leggendo queste mie righe, metterà in forse il mio diritto di maschio di parlare intorno all’organo genitale femminile. Con un gioco logico un po’ spinto, potrei ribadire che poco può saperne lei di come io percepisco la donna. Di fronte a prese di posizione troppo stupide, qualche volta, è bene scherzare. Identica è invece la percezione che il maschio e la femmina hanno del linguaggio-parola che, se per un verso è percepito come parte integrante della persona, altre volte è sentito come realtà autonoma che, proprio come il membro virile, è capace di agire in opposizione o fuori del controllo della volontà.

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Il linguaggio-parola che pure investe tutta la persona, ha anche però una sua autonomia. Chissà se questo è un bene o un male! Chissà se non sarebbe invece il caso di smantellare questa struttura organica per discioglierla nella realtà della persona; ma la mia educazione non mi permette di concepire troppo l’essere umano come unità, rischierei di non riuscire più a raccapezzarmi.Ogni uomo ha il suo linguaggio parlato; come non esistono due strutture anatomiche assolutamente identiche, così non esistono due modi di parlare identici. Ognuno ha il suo modo; certo, alcuni hanno un modo molto personale e riconoscibilissimo, altri si servono di espressioni più piatte e uniformi, gergali o asetticamente impersonali. Però, tutti i modi di parlare sono sempre molto riconoscibili. Qui non mi riferisco agli organi della fonazione e neppure alla loro possibile patologia. Parlo proprio della struttura linguaggio-parola che è un mondo organizzato, diversissimo di volta in volta. Non parlo neppure del timbro della voce, o meglio: non voglio soffermarmi particolarmente sul timbro della voce, sebbene anch’esso sia unico e irripetibile. Come in un sogno ben articolato e ampio è riassunta la personalità del sognatore, così, se si ascolta e si analizza la struttura verbale di una persona, se ne vedono sintetizzate tutte le caratteristiche complessive. Il linguaggio-parola ha sfere sue proprie; la più ampia di queste abbraccia, come un cielo di stelle fisse, tutta l’umanità. M’è capitato di analizzare i sogni di persone appartenenti ad almeno otto diverse nazionalità europee ed extra-europee, di occidente e d’oriente: è stato faticoso, ma i risultati sono stati molto gratificanti. Per un verso ho potuto verificare e percepire realtà culturali profondamente diverse, per l’altro ho riscontrato che alcuni punti di riferimento e alcuni simboli sono costanti; non immutabili, ma con fisionomia persistente. Di lì sono risalito alla struttura linguistica che sta dietro ai sogni ed ho notato che è diversissima, ma, nello stesso tempo, alcuni elementi, se pur fluidi, ritornano. Io credo nella storicità di tutto ciò che riguarda il divenire dell’uomo; non credo nell’immutabilità dei valori o delle concezioni collettive universali o di una razza o di un gruppo etnico. Tutto diviene con la storia, tutto è storia e tutto fa storia; ma l’uomo è uomo, ed è così giovane, è comparso da così poco tempo sulla terra, che le differenziazioni non sono riuscite ad essere troppo profonde. La seconda sfera della parola-linguaggio, meno ampia, ma concentrica alla prima, è caratterizzata da un complesso di lingue che hanno un’origine comune. Per correttezza, debbo dire che io non credo nei gruppi linguistici aventi una unica origine; ma penso che più elementi, intersecandosi e scontrandosi, abbiano dato ogni volta origine ad alcune «gestalt», che a loro volta si sono frantumate, per ricostruirsi nuovamente in altre «gestalt». Quindi chiamerei l’origine linguistica comune la «gestalt» più antica, almeno tra quelle rintracciabili. Vi è una terza sfera, sempre concentrica, ancora più stretta, che è il linguaggio-parola del gruppo etnico, cui però si sovrappone spesso, in alcune parti del mondo, la lingua ufficiale della nazione politicamente definita. Ma la lingua ufficiale, almeno per quello che riguarda le nazioni occidentali, sta sempre troppo stretta o troppo larga ai gruppi etnici, se pur con notevoli sfumature. Ciò che in Italia è macroscopico, in Francia lo è meno: ad esempio l’italiano ufficiale, parlato dalle persone di media cultura, nate e cresciute a Milano, è del tutto un’altra lingua, quasi, da quella di una persona di simile collocazione sociale e culturale, nata e vissuta però a Palermo.
I dialetti si stemperano, perdono fisionomia; le parlate locali si contaminano e si mescolano; rimane comunque sempre abbastanza evidente la struttura linguistica di un gruppo etnico, inserito o no in una realtà socio-politica chiamata nazione e che riconosce una lingua ufficiale. La quarta sfera, sempre più piccola, ma concentrica, è quella del linguaggio famigliare: il gruppo, che si è preso cura dell’individuo dalla nascita, gli imprime un proprio linguaggio-parola, che, in seguito, verrà poi modificandosi con l’esperienza personale. La sfera che stringe per penultima la persona è quella gergale: il gergo del gruppo. Si parla molto del linguaggio giovanile; in realtà esso non esiste; esistono tanti linguaggi quanti sono i gruppi e differiscono parecchio tra loro; soltanto succede che alcuni termini si ripresentino. Vi è poi l’ultima sfera che, quasi, coincide con la persona stessa: è il linguaggio-parola di quel singolo individuo, irripetibile.

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Il concetto di classe taglia trasversalmente tutto questo sistema tolemaico. Le classi sono sempre meno marxianamente distinguibili; sebbene i ricchi e i poveri esistano tuttora e anche con grandi divari economici. Nel nostro mondo esistono ancora persone molto ricche ed altre molto povere; non esiste però il linguaggio dei ricchi e il linguaggio dei poveri; o meglio: questa distinzione è quanto mai poco usabile. Io preferisco parlare di linguaggio gergale, di un clan più o meno allargato e i cui componenti sono, più o meno uniformemente, ricchi e poveri allo stesso modo. Oggi possiamo praticamente dire che esistono tante classi sociali quanti sono gli individui; sebbene gli individui continuino a dividersi in ricchissimi, ricchi, meno ricchi, poveri e poverissimi.

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Esistono lingue parlate migliori o superiori alle altre? La organica, se pur imprecisa, musicalità della lingua italiana, col suo ritmo, è migliore o peggiore del pratico e sintetico inglese? La raffinatissima lingua cinese, che tiene conto anche dell’altezza del suono di ogni segmento vocale pronunciato, vale di più? Certo, ci sono lingue che a me piacciono di più e altre che mi piacciono di meno. Talvolta una lingua più ricca per la struttura interna, per il modo di raggrupparsi delle frasi e dei singoli elementi sintattico-grammaticali, ha a disposizione più termini, più possibilità di definire e cesellare i concetti. Ma questo la rende decisamente migliore di un’altra, magari più sbrigativa ed essenziale? Io penso di no. Alcune lingue troppo complesse o raffinate hanno un che di ossessivo e proprio per il loro voler troppo precisare i concetti, rendono il parlare quasi distaccato dalle persone che parlano. La parola-linguaggio troppo povera, però, non stimola intellettualmente ed appiattisce i pensieri. Ritorna sempre il problema dell’armonia; ma la cosa più grave è che nessuno riesce mai a dire, su qualunque argomento, quale sia il punto giusto di equilibrio. L’euritmia del linguaggio-parola è un’aspirazione che ogni essere umano deve nutrire, perché parlare è bello.

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Il linguaggio troppo povero, spesso, è sintomo di un grave disturbo della personalità. Per coloro che si esprimono in lingua italiana, c’è una parola-sintomo particolarmente allarmante: la parola «cosa». Una delle più gravi patologie del linguaggio-parola in lingua italiana è l’uso eccessivo di questo termine: «È una cosa che non mi piace.» Anziché: «E’ un esperimento che non mi piace.» Oppure: «Volevo dirti una cosa.» Anziché: «Volevo rivolgerti una domanda.» Ancora: «Dammi quella cosa che c’è sul tavolo.» Invece di :«Dammi il libro che è sul tavolo.» « È stata proprio una brutta cosa.» Al posto di: «E stata proprio una brutta esperienza.» Per non parlare di quelli che usano il verbo «cosare», sostituendolo a un’infinità di altri verbi. Questa forma patologica l’ho incontrata dappertutto: dalla Alpi all’Etna, e anche più giù, nelle Cuddìe di Pantelleria.

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Ognuno deve costruire il proprio linguaggio-parola, dapprima accettando quello che il gruppo di origine gli propone e apportandovi poi le sue personali variazioni. La terapia psicoanalitica deve anche liberare dalla prigionia dei linguaggi stereotipi, incluso il linguaggio della psicoanalisi. Parlare è bello, se lo sentiamo come «un cielo stellato sopra di noi». Ho detto che parlare è bello almeno quanto ascoltare. Bisogna saper parlare e sapere ascoltare.
C’è anche una patologia del silenzio: il silenzio ostinato di chi sa soltanto ripetere: «Non so che cosa dire.» Le persone molto ciarliere sono, per lo più, violente e deboli; le persone troppo silenziose sono violente e rigide (non forti). Non sempre il silenzio è una scelta: molte volte realmente non si sa che cosa dire e allora è una vera sofferenza. Vi sono situazioni tipiche, come quando ci si trova in ascensore, con la signora o il signore del piano di sopra, e questo ascensore sale, sale, sale…. sembra non arrivare mai e non si sa proprio che cosa dire. Questa stessa sgradevole sensazione, molte persone la provano in diverse situazioni della vita di gruppo: a tavola, a scuola, nel lavoro; gli altri parlano e loro non sanno che cosa dire; si arrovellano ma non riescono che a spiccar poche frasi smozzicate che, per di più, loro stessi riconoscono essere sciocche. Questa sofferenza è causata da un disagio profondo che bisogna curare; bisogna affrontare terapeuticamente una condizione che rende tanti momenti della vita così difficili e impedisce di vivere in quotidiana relazione con gli altri.

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Ci sono anche situazioni particolari in cui parlare può essere faticoso o difficile, ma non patologico: per imbarazzo, per rabbia o per stanchezza. C’è invece un silenzio sado-masochista, che rode e corrode e respinge gli altri, ferendoli. C’è il silenzio narcisista, delle persone che tacciono perché non ascoltano. Si è portati a credere che i narcisisti, per lo più, parlino molto; ciò in parte è vero, ma vi è anche un silenzioso atteggiamento di assenza: per non farsi coinvolgere, non si ascoltano gli altri e si seguono i propri pensieri. Questo può anche essere l’inizio di un grave disturbo mentale, che può giungere fino alla depressione psicotica; ma è anche l’atteggiamento diffuso di molti che tacciono per non voler ascoltare, per non dover quindi rispondere, per non dare un po’ di qualcosa agli altri, con una buona componente di avarizia.

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C’è infine il silenzio sano, di chi ascolta con gusto e partecipazione. È il silenzio di quelli che sentiamo vicini a noi, che seguono i nostri ragionamenti, che bevono le parole che diciamo. È un silenzio carico di erotismo. Con queste persone, o quando ci si trova in queste situazioni, è bello parlare ed è altrettanto bello ascoltare. La terapia psicoanalitica deve insegnare anche questo: a fiaccare la tracotanza di coloro che vorticosamente vomitano parole addosso al terapeuta e la rabbiosa impotenza e la crudele ostinazione di coloro che stanno zitti e che alla domanda: «A che cosa stai pensando?» Rispondono, vilmente: «Non stavo pensando a niente.» E’ un’affermazione vile, poiché non è possibile pensare a «niente». Si pensa sempre a qualcosa, come sempre si sogna.