23 – Giugno ‘86

giugno , 1986

Chiediamo di fare con noi un piccolo gioco a coloro che si accingono a leggere le righe che dedichiamo al volume di Emanuele Severino, La filosofia contemporanea (ed. Rizzoli, pagg. 268, Lit. 18.500): «qual è la prima immagine che vi viene alla mente, se sentite dire la parola cattedra?» Siamo sicuri che a quasi tutti sarà venuta alla mente l’immagine di un tavolo, messo in una posizione un po’ sopraelevata. Solo in seguito, i più sapienti diranno: «Ma no, la cattedra non è un tavolo, bensì una sedia!» La cattedra è lo scranno sul quale gli antichi Maestri sedevano per insegnare. Ancora oggi, nelle cattedrali della cristianità è visibile un seggio, senza nessun tavolo davanti, che è la cattedra del vescovo.

Perché, allora, nell’opinione comune, la cattedra è diventata un tavolo? Per due ragioni, soprattutto, che però si intrecciano e si fondono l’una nell’altra: la prima è quella di mettere una barriera tra maestro e discepolo, la seconda è di avere a disposizione una superficie su cui posare gli scartafacci burocratici dei moderni maestri, che altro non sono che tristi funzionari dello Stato. Sempre più si diffonde tra costoro l’abitudine di parlare in pubblico seguendo le tracce di un foglietto di appunti o, peggio ancora, leggendo un testo scritto in precedenza. Arteriosclerosi dilagante? Crediamo di no: è pura e semplice vilta. Chi ha qualcosa da dire deve essere capace di dirlo stando in mezzo agli altri, senza tavoli che lo proteggano, con la sensazione di sentirsi gli altri addosso, col coraggio di fare lapsus o il rischio di dimenticare improvvisamente qualcosa. La filosofia dei burocrati inizia con un personaggio unico e splendido: Emanuele Kant, solo filosofo degno di questo nome che si sia mai seduto dietro a una cattedra-tavolo di università. Poi la situazione è precipitata e la filosofia, che era stata viva nelle strade, nei porti, nelle palestre, nei conventi, nei mercati e nelle «accademie» è morta, entrando nelle università di Stato.

Già i Greci sapevano che la filosofia non esiste; soltanto l’ottusità degli «stati nazionali», più o meno fascisti e più o meno capitalisti, ha creduto di poterla far vivere imbalsamata, dando uno stipendio a funzionari che non sono filosofi e che potrebbero tutt’al più essere onorati di chiamarsi storici della filosofia, se la filosofia esistesse.
In questa accezione la sopravvivenza del termine «filosofia» non costituisce che il pretesto per uno stipendio a fine mese (questa è la sola cosa seria), o per lotte di potere tra «baroni» (e questa è la cosa turpe).

Quando Severino dice:

«La filosofia cessa di essere «metafisica» – cioè conoscenza che si porta oltre l’esperienza per stabilire i confini della totalità dell’essere – e si spezza in una pluralità di teorie particolari: psicologia, logica, sociologia, riflessione critica sulle varie forme della scienza moderna, storiografia. Dal tronco della filosofia si staccano le cosiddette «scienze dell’uomo» e la filosofia va sempre più perdendo ogni suo carattere specifico» (pag. 21). La sua è un’affermazione senza senso perché: I) se la filosofia ha un’ombra di esistenza la ha soltanto in quanto è metafisica; II) la filosofia, dall’antica Grecia ad oggi, è sempre stata «psicologia, logica, sociologia..» eccetera.

Certo, dalle cattedre di Stato si può soltanto fare della storia della filosofia, e perciò tutto il discorso di Severino è viziato dall’errore di fondo di credere che la filosofia esista.
Un’altra affermazione dell’Autore è estremamente imprecisa:

«…, la forma suprema di dominio sulla Terra è oggi costituita dalla civiltà della tecnica, il cui agire è sempre più guidato dalla razionalità scientifica. In questa situazione la scienza diventa il principio e il punto di riferimento di ogni forma di cultura e quindi anche della cultura filosofica» (pag. 262).

Ciò, in parte, è vero: uno scientismo più o meno dilettantesco pervade i discorsi e le chiacchiere; ma cio che si chiama «filosofia», oggi, è, molto spesso, un anemico e inefficace riverbero delle banalita di un Kundera, delle stupidaggini di Alberoni, che, a loro volta, sono sorrette dalla volgarità e sono dirette emanazioni di «quelli della notte». Giustamente: è inutile infatti scrivere libri di «filosofia».

Un’altra affermazione ci pare corretta a metà: «L’intera civiltà occidentale e, al culmine di essa la civiltà della tecnica crescono all’interno dello spazio aperto per la prima volta e una volta per tutte dalla filosofia greca. Questo spazio, mai percepito prima dei greci, e il senso greco del divenire, la convinzione cioè che le cose escono dal niente e vi ritornano, e che questo movimento delle cose del mondo è l’evidenza fondamentale, originaria e indubitabile. Solo se le cose sono pensate come un uscire e ritornare nel niente è possibile quel radicale progetto di dominio della Terra in cui consiste la civiltà occidentale» (pagg. 262-263). La prima parte di questo discorso è tanto vera da essere autoevidente; la seconda è priva di qualunque fondamento storico. Anzitutto- e ci riferiamo anche ad altri punti del libro – la filosofia non è mai servita a liberare l’uomo dalla paura (checché ne dicesse Epicuro); ma, se mai, è servita a dargli il coraggio di affrontare la paura. Inoltre, la filosofia cosiddetta «greca» ha un rapporto così articolato con il «nulla» che è scientificamente e metodologicamente scorretto ridurlo ad una affermazione univoca, come ha fatto Severino. Che poi la filosofia greca, e comunque quella del passato, abbia tentato di costruire una epistème, cioè di interpretare oggettivamente il divenire, è una tesi delirante. Per alcuni sistemi può magari anche essere vero, per altri è quanto mai falso. Il tentativo di Severino di salvare la filosofia, o meglio di trovarle uno spazio, è encomiabile; ma la filosofia questo spazio – per fortuna – non lo ha mai avuto.

Omero, gli aedi e i rapsòdi, Eraclito, il politico e pedagogico Platone e il fisico naturalista Aristotele avrebbero trovato questo libro un cumulo di sciocchezze, dette però – e questo è un grande merito e un segno del coraggio dell’autore – con grande chiarezza, in tutta l’opera, di cui questo terzo volume costituisce, per ora, il compimento.