23 – Giugno ‘86

giugno , 1986

Mercoledì 21 maggio, al Teatro Olimpico, una grande folla di musicisti, di giovani e meno giovani amanti la musica, ha seguito con estrema attenzione e – una volta tanto – con partecipazione, un concerto di musica del Novecento diretto da Pierre Boulez. Il sessantenne compositore francese è, secondo noi, uno dei migliori direttori d’orchestra oggi viventi, che unisce ad una precisione assoluta la capacità sbalorditiva di estrarre da un brano musicale i significati più profondi. Nulla va perduto: la composizione, sotto le sue mani, viene quasi distillata e l’orecchio è accompagnato, senza pedanteria a seguire le trame più nascoste del tessuto della partitura.

Noi ripetiamo continuamente che la musica contemporanea deve essere eseguita spesso, perché non è vero che sia così astrusa e oscura come si crede; ma è però carente di grandi interpreti. I grossi nomi del concertismo e della direzione orchestrale preferiscono infatti proporre al pubblico brani di effetto sicuro: gli applausi scroscianti dopo l’ultimo accordo dell’Eroica fanno piacere a tutti, oltrechè costituire un incremento dei guadagni. Così accade che, quando questi superbi interpreti della musica di ieri affrontano – per bizzarria o per senso di colpa – un brano dei nostri giorni, lo eseguono senza avere la tecnica e la cultura sufficienti a capirlo e ne vengono fuori quei pasticci indecifrabili che ben conosciamo. Indubbiamente molta dell’arte di oggi, e quindi anche della musica, è pura zavorra, ma è compito degli interpreti saper trarre da ogni opera il massimo delle sue possibilità. L’interpretazione non è certo unica, ma quando un grande si esibisce deve dare l’impressione che sia così. Boulez ha avuto il coraggio di spendere buona parte del suo tempo impegnandosi per la diffusione della musica contemporanea, anche se è vero che egli stesso è, oggi, ormai un classico, un mito.

Il primo brano in programma era costituito dalle Eight instrumental Miniatures di Igor Strawinsky, una trascrizione del 1962, per orchestra da camera, con qualche rimaneggiamento, degli «Otto pezzi facili per le cinque dita» per pianoforte, del 1921. Brani di un equilibrio interno perfetto, carichi di un pathos intensissimo, di una semplicità antica e di una tornitura del suono, un uso degli strumenti da geniale artigiano. Si passa dalla struggentissima ninna nanna dell’«andantino» iniziale, attraverso momenti danzanti o meditativi, nell’esaltazione ora delle melodie ora dei ritmi, a una tenerissima «pastorale», per concludere poi col famoso «tempo di tango», meraviglioso e sensuale nella semplicità delle sue armonie. Boulez ha esaltato sottilmente le potenzialità sonore e ritmiche del brano, nel rispetto più assoluto del testo.

Les Danses pour Harpe et Cordes di Debussy, del 1904, non sono uno dei suoi lavori più famosi, ma sono un gioiello di raffinata atmosfera orientale, da cui prendono forma, a tratti, bellissime melodie, che poi si stemperano in semplici e tuttavia ben costruite fluidità armoniche. La bravissima arpista Marie Claire Jamet ne ha cesellato una esecuzione preziosa, anche ben dialogando con gli altri strumenti.
Les Improvisations sur Mallarmè, I e II, sono tratte da un’opera dello stesso Boulez del 1960: «Pli selon Pli». Sono due pagine abbastanza gradevoli, seppur un po’ ovvie. La prima, frivola e prevedibile, come la più semplice delle musiche galanti.

La seconda, di un malato decadentismo, immerso però in una atmosfera musicalmente ricca. L’esecuzione degli strumentisti è stata perfetta, la direzione ha guidato con equilibrio l’arpa, le percussioni, la celesta, i tamburi e il pianoforte, insieme con la bellissima voce del soprano Phyllis Bryn Julson. Noi però ancora non riusciamo a trovare il senso di un’operazione (qui come tante altre volte) che agisce con la musica sui versi più o meno belli, costringendo, con esplicita artificiosità, la voce a rendere incomprensibili le parole. Perché umiliare così la poesia? Se questo tipo di operazione era inevitabile nella polifonia vocale cinque-seicentesca, non ha senso ora, in un concerto del genere, in cui la lettura dell’opera poetica deve essere almeno rispettata. Dopo l’intervallo, abbiamo potuto apprezzare una godibilissima esecuzione degli Oiseaux Exotiques, opera del 1956 di Olivier Messiaen, per pianoforte principale, piccola orchestra di fiati, xilofono, celesta e percussioni, nella quale il musicista francese utilizza elementi tratti dal canto degli uccelli di India, Malesia, Cina e delle Americhe. L’orecchio non conosce un momento di noia: le armonie, solo apparentemente ostiche, esplodono o si rapprendono in piacevolissimi agglomerati di note; spesso brilla anche un contrappunto ridotto all’osso e usato con sapienza sbalorditiva. Molto belle le parti solistiche del pianoforte, logicamente collegate al discorso orchestrale, rese con giusto timbro e ritmo dal bravo Pierre Laurent Aimard. Entusiasmante, a dir poco, la direzione di Boulez.

L’ultimo autore in programma era Gyorgy Ligeti col suo Concerto de Chambre del 1969-70. La bravura del direttore è riuscita a rendere comprensibile quel pochissimo che era contenuto nell’orribile brano. Il primo tempo è un monotono e sgraziato stillicidio di suoni, con qualche nota lunga senza senso; il secondo tempo, un girovagare insulso di note e poi lunghi accordi e orribili suoni gravi dei fiati; il terzo tempo è uno sconnesso pizzicare degli archi e seguitare di accordi senza consequenzialità. Il tutto conclude, dopo sonorità sempre più gratuite, con un dissennato trillo dei fiati, alla fine del quarto movimento.