23 – Giugno ‘86

giugno , 1986

Una bruttissima serata fin da subito quella in cui ci siamo recati al Giulio Cesare, per assistere alla rappresentazione del Don Giovanni di Molière: in sala una bolgia inverosimile perché le biglietterie avevano dato biglietti coi numeri doppi a molti spettatori, oltre che ai Farfalloni, solo le gentili e simpatiche mascherine sono riuscite a non perdere la pazienza e a sistemare tutti in qualche modo. Lo spettacolo è poi iniziato con un ritardo intollerabile anche per chi ha fatto l’abitudine ai ritardi cronici del teatro italiano; come se non bastasse, ci è successo, nell’attesa, di chiedere al bar due coppe di prosecco, per vincere il caldo insopportabile, ma ci hanno offerto un indecoroso vinaccio, acido e gelato, gassato come una bottiglietta di limonata. Si critica spesso il servizio nei locali pubblici, perché tacere quindi sul modo sgangherato in cui può venire gestito un teatro? E questo è stato solo il preludio. Si è aperto infine il velario sulle vicende dell’eterno seduttore, che, però, colleziona, sulla scena, più insuccessi che conquiste, in molte delle varianti che questa storia ha avuto nei secoli.
Luca De Filippo e Vicenzo Salemme hanno tradotto in napoletano il testo francese e diamo loro atto di aver fatto un buon lavoro: questa lingua meravigliosa brilla di luce propria e l’operazione risulta quanto mai corretta; ma i meriti si fermano qui, fatta eccezione per una parentesi di cui diremo in seguito. Il testo di Molière non è uno dei più riusciti del grandissimo autore: le scene sono talvolta pesanti, anche se l’unghiata del genio si intravede in molti momenti, che offrono ai registi gli spunti per costruire frammenti di efficace teatralità. In questa edizione non è avvenuto niente di tutto questo: la regia di De Filippo non aveva nessuna coerenza e la noia è stato l’effetto dominante, che ha raggiunto il culmine nell’interminabile pistolotto moralistico con cui il Seduttore giustifica la sua metamorfosi nei panni per lui nuovi dell’Ipocrita. Fuori luogo anche la scelta di un insulso ciarpame di gesti, boati, effetti luminosi, nel finale. In tanto ridicolo si è però stagliata la gemma splendente e isolata della disperata invocazione di Sganarello che, vedendo il padrone sprofondare all’Inferno grida:« La paga! La paga!» con un effetto di straordinaria drammaticità.

Dei personaggi, il peggiore in assoluto, è stato il Don Giovanni di Luca De Filippo: il copione gli si era malamente appiccicato in testa, tanto che scordava le battute privando i compagni della possibilità di replica; ma, quel che è peggio, non è stato capace di trovare una chiave interpretativa, diceva la parte con tono monocorde e cantilenante, perdendo tutti i possibili effetti; per esempio l’esposizione che fa a Sganarello delle delizie del gioco seduttorio, piena di occasioni per inventare immagini da porgere con gusto, viene trasformata in una stanca elencazione, come se fosse la lettura di una lista della spesa. Anche i suoi gesti sono stati sempre uguali, indifferenti ad ogni evolversi drammatico delle scene. Sganarello è stato appena migliore del suo padrone: anche la voce di Salemme restava rigida e stereotipa. Certo, si intravedeva un po’ di mestiere, ma non faceva molto più che affidarsi agli effetti della bellissima lingua napoletana davvero molto efficace in bocca al servo arguto e ben pensante.
Tutti gli altri ci sono parsi corretti in una suddivisione di ruoli che faceva esprimere gli aristocratici in pomposo italiano e i plebei in napoletano. Ora vogliamo dire di ciò che ci è piaciuto e di chi lo ha reso piacevole. Nella scena che succede al naufragio della barca di Don Giovanni, nella quale egli ha l’occasione di mostrarsi, oltre che seduttore, anche ingrato, promettendo contemporaneamente il matrimonio a due popolane, una delle quali è la promessa sposa del pescatore che l’ha salvato, sono stati di scena tre personaggi interpretati da tre ottimi attori. Giuseppe De Rosa è stato un Piarrò, caleidoscopico, stralunato, capace di trovare accenti giusti, sia di umorismo sia di accorata disperazione. Alessandra Borgia (Maturina) e Antonella Cioli (Carlotta) sono state pungenti, vivaci e scattanti nel delineare due caratteri femminili ben differenziati, ma complementari.
Raimonda Gaetani ha creato costumi che ben rendevano splendori e miserie del Barocco e ha forse ecceduto in naturalistica povertà delle scene. Le musiche erano di Nicola Piovani.

Pier Maria Rosso di San Secondo è l’aristocratico nome di un autore drammatico siciliano il quale ha conosciuto una certa notorietà intorno agli anni venti-trenta. Il suo teatro espressionista tiene presente la lezione di Strindberg, ma si esprime anche con una propria personalità. Febbre è un testo del 1926, non privo di una certa efficacia, con alcune battute che colpiscono per la tensione interna e per la bizzarria delle immagini; ma tutto sommato ha più che altro un valore di documento emblematico di un’epoca. La storia è quella di Elsa che, privata da un incidente automobilistico dell’uomo della sua vita, si attacca morbosamente a Marta, la ragazza malata che ha spiato per anni le vicende del loro amore, nutrendo di esso la propria acerba sensualità. Nel culto molto particolare che le due donne dedicano alla memoria di quel perduto amore, si inserisce come elemento di disturbo il maturo professor Remoli, sorta di terapeuta in cui la fanciulla ripone la sua fiducia, destando la gelosia di Elsa. Quando però Remoli e la donna si incontrano capiscono di essere persone intaccate dalla stessa febbre di maledetta sensualità che li corrompe e consuma. La passione tra i due riesce a destare l’orrore di Marta che così acquista la capacità di staccarsi da entrambi, finalmente guarita e pronta a lasciare le ombre del passato. Sia il testo in sé, sia la realizzazione che ne ha fatto la Cooperativa Fabbrica dell’Attore, hanno sortito il risultato di un kitsch perfetto: tutto vi è infatti di leggero cattivo gusto, come quegli oggetti che erano tanto di moda alcuni anni fa. L’unico elemento esente da ogni sospetto di cattivo gusto e di ambigua morbosità sono state le musiche di Francesco Verdinelli, che è riuscito a rendere le atmosfere, le angosce, le situazioni e i turbamenti meglio di quanto non abbiano fatto la recitazione, la scenografia e il testo medesimo. La musica ha dominato sulla scena in modo assoluto: con il bel tema eseguito dalla sonorità ingigantita di un improbabile pianoforte, angoscioso e martellante; con sottili vibrazioni che s’ingigantivano fino a esplodere, invadendo tutta la scena per poi insinuarsi negli interstizi dei gesti e delle battute. Sempre ben inserita dal punto di vista teatrale, la musica ha creato una sua «febbre», autonoma per dignità, ma funzionale dal punto di vista scenico: merito questo, forse, anche del regista Giancarlo Nanni, che, per il resto, ci è parso indulgere a schemi di effetti, con citazioni sparse, da antologia teatrale. Le scene di Mario Romano ci sono parse adeguate alla situazione, con il loro oscillare tra temi cubistici e ricordi di vignette per bambini. I costumi di Luciano Soprani crediamo fossero volutamente sempre un po’ sopra o sotto le righe. Emanuela Kustermann è stata la sola interprete che abbia tentato, riuscendoci, di presentare e disegnare un personaggio. Inguainata in lucidissimi abiti neri e rossi ha però tentato troppe espressioni e intonazioni di voce, facendo un uso indiscriminato ed eccessivo delle vocali aperte: le sue «è», le sue «à», le sue «ò» la facevano simile ad una soubrette degli anni cinquanta, in piena crisi isterica che, invece di scendere chilometriche scale, si sbatacchiasse contro persone e cose. Indecenti tutti gli altri: Alvia Reale, nella parte di Marta, sembrava l’improbabile caricatura di una suora di clausura, e Piero Di Torio, il professor Remoli, aveva scelto, incomprensibilmente, la strada del conte Dracula. Gli altri inevitabilmente piatti.