Archivio di aprile 1986

Psicoanalisi contro n. 21 – Il contrabbasso a metà

martedì, 1 aprile 1986

Tanti anni fa, non so quando, io ero un ragazzetto, occhialuto e petulante, credo cordialmente antipatico. A Torino, dove nacqui, non avevo amici, vivevo isolato leggendo libri con avidità. Mio padre era un liberale, onesto ed ingenuo; da buon liberale non mise in atto nessuna censura sulle mie letture, cosicché, ancora bambino, potevo leggere, a piacere, riviste pornografiche o trattati di medicina e testi di filosofia e matematica. La sera, tanto per confermare il mio complesso di Edipo, fuggivo con mia madre a teatri e concerti. Ero piccolino, con grandi occhiali e un’aria assorta. Non stimavo i miei maestri e i miei professori, mi reputavo loro superiore, li ritenevo ignoranti e sempliciotti. Cominciai presto a scrivere elegie in latino e liriche in greco, senza aver più bisogno del vocabolario. Molti anni dopo mi trovai a rileggerle, non fui capace di farlo senza l’aiuto del vocabolario, e allora ricominciai a studiare il latino e il greco: che vergogna! I miei occhi stanchi, dietro i grandi occhiali, continuavano a scrutare quadri in pinacoteche, musei e chiese o riprodotti sui libri; febbrilmente li copiavo, con l’ansia rabbiosa degli amanuensi, come se fosse dipeso da quelle mie copie che La caduta di S. Paolo o La Madonna della seggiola non andassero per sempre perdute. Disegnavo e dipingevo, finché cerchi verdi e dorati prendevano a ballarmi davanti agli occhi, allora smettevo e andavo a leggere un libro, e quando anche le parole stampate diventavano segni incomprensibili, entravo nel salotto di casa mia, una vecchia casa liberty, con il soffitto affrescato da figure per me meravigliose, a quel tempo e che anche ora credo fossero l’opera di un artigiano eccezionale: anfore inclinate che rovesciavano frutta e fiori, aironi, palme, uno stormo di pettirossi. Nell’aria un buon profumo, il pavimento scricchiolava. Mi sedevo al pianoforte; sul legno era stampato in bronzo un nome tedesco, messo bene in vista, mentre, più nascosto, dietro la cassa, c’era il nome piemontese di chi l’aveva costruito davvero; nonostante non fosse un «vero» tedesco, aveva un bel suono.
Sono stato innamorato da sempre di Wolfango Amedeo Mozart e questa è, forse, l’unica cosa di cui sono sempre andato e vado tuttora orgoglioso: di questo amore incondizionato, trepido, tenero, sensuale e sessuale. Quante fantasie, anche, sui suoi genitali e sulla sua bocca. Per quello che io, tra me e me, chiamavo soltanto «Lui» suonavo. Suonavo le sue musiche malissimo, forse perché suonavo male davvero, forse perché tutti suonano male quelle musiche, perché nessuno può esserne, davvero, all’altezza. Questo amore non mi ha più lasciato. Ha per me la sacralità di una religione, come forse devono essere tutti i veri amori.
Ci sono tante cose di quella mia infanzia e prima adolescenza di cui ora mi vergogno.
Recuperavo un po’ di normalità di comportamento quando andavo in campagna, nel bel Canavese, tra i castagni e le acacie, con amici ed amiche in boschi e torrenti. Sotto un pergolato di uva luglienga, continuavo a leggere, a scrivere e a disegnare, finché gli occhi non mi si riempivano di cerchi verdi e dorati.
Mia madre, più energica di quello che non sembrasse, nel suo continuo bamboleggiare, mi proteggeva e mi aiutava; ma per questo subiva, molto spesso, le ire di quel ragazzetto occhialuto, credo proprio cordialmente antipatico.

Torino mi affascinava e mi turbava; uscivo da solo per le strade, entravo nelle chiese e nei musei, pensavo. Ero timido, profondamente timido, però ero anche saccente: forse a buon diritto. Tutti mi sembravano troppo ignoranti. La scuola non mi dava assolutamente nulla: solo noia. I compagni di classe mi guardavano con invidiosa avidità, ma non mi stimavano e ancor meno mi amavano. Non ero un bravo scolaro: distratto, non facevo i compiti per orgoglio e perché tanto gli insegnanti non avrebbero capito niente. Forse era vero. Io stesso mi assegnavo dei compiti, che mi correggevo da solo, e finiti i quali, distrattamente e sciattamente, facevo quelli di scuola. I miei voti erano mediocri e mia madre si affannava a spiegare agli insegnanti la particolarità di quel ragazzetto così timido, fragile, raccontando chissà che cosa. Io non ero fragile, ero determinato, cocciuto e presuntuoso; soltanto l’amore per «Lui», credo, è riuscito a salvarmi. Le mie mani sulla tastiera suonavano la sua musica ed io, sempre, ero scontento del risultato, di me, davo pugni sui tasti, al colmo del disappunto, e passavo a brani di altri compositori, con rabbia, protervia e, anche, allegria: li suonavo abbastanza bene, ma quelli di «Lui» no.
«Lui» non l’ho mai suonato come si deve. Questa fu la salvezza di quei primi anni. Un giorno, credo al tempo della mia prima media, ma non ne sono certo, un professore ci raccontò un fatto, forse per tenere buona la classe. Quel professore si piccava di saperne di psicologia e ci raccontò di un ragazzo, suo allievo di anni precedenti, il quale non poteva vedere le scarpe, se non erano calzate: una scarpa «vuota» lo terrorizzava e i compagni, per scherzo, si levavano, talvolta, una scarpa e la passavano l’un l’altro, di banco in banco, fino a posargliela in grembo; lui cacciava un urlo che non riusciva a trattenere e, gettandola lontano da sé, scappava, piangendo, fuori dall’aula. Tutti ridemmo a quel racconto. Io tornai a casa molto pensieroso; dissi poi a mio padre che volevo che mi comperasse tutti i libri di psicologia. Il buon uomo liberale, questa volta un po’ turbato, acconsentì. Io volevo capire, tra i nomi che quel professore aveva fatto c’era anche quello di Sigmund Freud. Non trovai molto di Freud e non trovai le spiegazioni che cercavo sulla fobia di quel ragazzo. Come mi piacerebbe incontrarlo oggi! Continuai a pensare a quella scarpa vuota e al terrore che poteva procurare. Lessi di feticismo del piede e della scarpa, mi imbattei in termini come vagina e pene. Rifugiato nel salotto dal bel soffitto affrescato, tra l’odore del legno e lo scricchiolio del pavimento, accarezzando pensieroso i tasti del pianoforte, io pensavo. A Torino non avevo amici, ero assolutamente solo. I miei boschi erano lontani. A scuola mi obbligavano a lunghissime versioni in prosa dell’Iliade e dell’Odissea, cosa che io trovavo assolutamente cretina, per cui passavo l’impegno a mia madre, costringendola a scrivere per me. Io preferivo prendere il mio bell’album dai grandi fogli bianchi e su quei fogli illustravo gli episodi che più mi piacevano dell’Iliade e dell’Odissea. Perso in quel mondo, fantasticando su quei corpi; dèi e montagne, sognando quelle navi e quelle battaglie che tuttora sono per me il mondo ideale, che vorrei non solo nei sogni, ma nella realtà che quotidianamente cerco di costruire intorno a me. Un giorno, successe una tragedia, perché un’insegnante di lettere si accorse che la versione in prosa non l’avevo fatta io. Non so come se ne poté accorgere; forse era solo meno scema di quello che io credessi. Fu una cosa gravissima per mia madre e per l’insegnante; io rimasi imperturbato, continuavo a leggere l’Iliade e l’Odissea, impegnandomi nel greco, anche se non faceva parte di quello che si chiede a un ragazzo delle medie inferiori. Continuavo a disegnare; il resto non mi riguardava. Che tenerezza, se ripenso a mia madre, emozionata e confusa, come una scolaretta in fallo. Perché a quel ragazzo facevano così paura quelle scarpe vuote? I testi di psicoanalisi e psicologia e i primi scritti di Freud che mi capitarono tra le mani, dapprima mi aiutarono a capire, ma subito dopo mi parvero piuttosto confondermi le idee. Quando ero troppo stanco, mi sdraiavo sul letto e pensavo ai miei boschi, alle colline, alla vecchia chiesa col campanile romanico e il pulpito barocco, che oggi hanno rubato, dal quale il prevosto di allora faceva strane prediche, che io ascoltavo con attenzione. Verso quell’uomo non avevo atteggiamenti di superiorità: ascoltavo i suoi lunghi sermoni, seduto nella chiesa fresca, dove stavo con qualche vecchia dal velo nero sul capo. Con la bocca biascicavano preghiere in un latino assurdo e inverosimile, malgrado avessi cercato di insegnar loro come dire quelle parole in quella lingua sconosciuta, nel tentativo, che ancora non so se definire sciocco o giusto, di correggerle. In quel paese avevo i miei amici, quelli con i quali parlavo, di cui ero geloso; ma anche con loro non potevo stare a lungo: ero troppo timido e troppo saccente.

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Più avanti, incontrai insegnanti che ebbero il mio amore e la mia stima e, al liceo, un compagno, un ragazzo molto bello, mi parlò di politica. Rimasi esterrefatto: avevo letto Adamo Smith e Carlo Marx, che per me erano filosofi, persone che avevano detto cose interessantissime, ma la politica, le riunioni del partito, militare in un partito, erano un’altra cosa. Quel mio amico era molto bello, col viso forse un po’ buffo, ma con la perfezione greca delle forme; non potei resistere al suo invito a partecipare a una riunione politica. Allora era di moda, anche più di adesso, essere di sinistra. Mio padre, il liberale, si addolorò; discutevamo a lungo, ed io ero sempre più a sinistra, e non ero più così solo. In quel tempo, mi cadde addosso il dovere dei rapporti sessuali: bisognava avere una ragazza, o, meglio ancora: bisognava avere le ragazze. Io ebbi la mia ragazza e poi, tranquillamente ebbi le ragazze, come gli altri. Ormai conoscevo bene anche la psicoanalisi e volli sottopormi anch’io a questo «trattamento». Mi piace dire «trattamento», un termine ambiguo, che va anche bene per una cura di bellezza. Successivamente incontrai l’ospedale psichiatrico: stanzoni enormi, camicie di forza e catene, i matti, con la loro sofferenza e la loro allegria. Io ero al primo anno di università, eppure potevo fare tutto in quell’ospedale, in cui passavo lunghi pomeriggi d’inverno, al freddo, immerso nei cattivi odori; poi tornavo a casa e temevo di essere schizofrenico anch’io. Andai dallo psichiatra col quale stavo lavorando e gli dissi: «Ho paura di essere matto». Si mise a ridere e rispose: «Alla tua età, anch’io». Adesso non so dire se riuscì a calmarmi, lì per lì, fui comunque più tranquillo. Ma quei rapporti con la gente del manicomio mi entrarono dentro ed io entravo dentro quei labirinti della mente in cui non mi sapevo muovere nonostante i molti libri letti e la poca analisi fatta. Ero disorientato: per fortuna c’erano la musica e il teatro!
Scrivevo per il teatro e cantavo nei cabaret di Milano (anche quelli erano di moda, allora) le mie mani saltellavano allegre sui tasti di neri pianoforti a coda, nelle sere milanesi: bevevo whisky e cantavo. Una canzone fra le tante, quella che preferivo tra tutte, cominciava con queste parole: «Ballava nuda fino all’ombelico….»; aveva molto successo. Fu una parentesi, poi mi rituffai nella musica «seria» e nel teatro.
Io e i miei amici trovammo nella biblioteca comunale di Torino un vecchio testo scritto da un notaio piemontese del Settecento: un libretto d’opera, fatto per prendere in giro l’opera seria del tempo, affollata di dèi e di eroi greci e romani; composi la musica per quell’operina, ironizzando i modi musicali come l’autore del testo aveva fatto per quelli letterari. Ci furono anche i tempi della ricerca sulla musica folcloristica, sui canti popolari del Piemonte. Un periodo della mia vita pieno di impegni con lo spettacolo, fatto di notti insonni, di ore spese a risolvere problemi di orchestrazione, di contrappunto, di armonizzazione.
Una donna, ricoverata nell’ospedale, mangiava soltanto se aveva me al fianco. Un
mattino -mi aveva raccontato – in cui avrebbe voluto fare la comunione, d’improvviso
aveva visto formarsi e poi fluttuare nell’aria un grande globo gelatinoso; dentro quel globo c’era il suo fidanzato, morto qualche anno prima, durante il servizio di leva. Inaspettatamente il globo le era entrato nella bocca aperta e lei lo aveva inghiottito. Era corsa dal prete spaventata a domandargli: «Posso fare lo stesso la comunione, adesso che ho mangiato il mio fidanzato?» Fu portata al manicomio. Ma nessuno si era curato di rispondere alla sua domanda e perciò mi fu molto grata quando le dissi che, secondo me, sì, avrebbe potuto ugualmente fare la comunione: «Così avrei potuto – mi disse -; se avessi fatto la comunione, non mi avrebbero portato qui dentro». Parlavamo a lungo insieme, seduti nello stanzone coi finestroni alti, sbarrati da arcigne inferriate. Un giorno quella ragazza, non so perché, guarì e tornò al paese. Per un po’ mi mandò qualche cartolina, poi non ne seppi più nulla. C’era un ragazzo, terrorizzato dalla vista di una scarpa vuota, non calzata da un piede. Ero venuto in visita a Roma, per la prima volta, al tempo delle scuole medie, insieme con mio padre, mia madre e mio fratello. Sul Campidoglio ricordo di aver detto: «Chissà perché non si possono scegliere i genitori e la città in cui si nasce». I miei si arrabbiarono, ma appena un po’: mio padre era liberale e mia madre era spensierata. Quel giorno avevo detto a me stesso: «Cambierò città, un giorno verrò a vivere qui, perché Roma è troppo bella». Più tardi mi innamorai anche di Parigi e rimasi per un po’ in bilico, incerto tra le due capitali. Le mie esplorazioni in rue St. Jacques mi eccitavano, e sentivo il fascino di quella lingua così bella, che mi suonava in bocca e mi sembrava dire cose più argute, meno convenzionali: Edipo, Freud, i grossi nomi della psicoanalisi parigina. Basta; ero stanco di restare a Torino. Ma … Parigi o Roma? Scelsi Roma, per molte ragioni, mi ricordai anche di quel mattino sul Campidoglio. A Roma, inoltre, avevo contatti che mi permettevano di completare i miei studi di composizione musicale.

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Renzo ed io arrivammo a Roma un mattino, molto presto, dopo aver sbagliato treno: dovevamo arrivare alle otto e invece erano le cinque. La pensione che avevamo prenotato era ancora chiusa; trascinando un grande valigione, andammo a pia77a Navona, al bar dei Tre Scalini. Mia madre aveva pianto appena un poco quando l’avevo salutata dalla porta dell’ascensore; era novembre; le avevo assicurato che saremmo tornati a trovarla per Natale. Mio padre, il liberale, non c’era più. Mia madre in seguito perdonò, mio fratello no. Facemmo arrivare i libri e il pianoforte e ci installammo in un appartamentino in Trastevere in un vicolo attraversato dai panni stesi ad asciugare tra una finestra e l’altra. Un vecchietto che fumava la pipa sull’uscio di casa levava un fumo così intenso da far chiudere le finestre a noi che eravamo al piano sopra. Era tanto tempo fa!
Cominciammo, Renzo ed io, a scrutare Roma, nelle sue pieghe più misteriose: piazze, chiese, vicoli e avventure sessuali. La sera cenavamo nell’osterie all’aperto. Più tardi ci spostammo in una bella casa sul Gianicolo, col salone che si affacciava su di un grande giardino, arredata con tanti mobili antichi che la contessa da cui
affittavamo aveva lasciato, insieme con lo stemma sul cancello di casa. Per un po’ accantonai i miei interessi artistici, salvo che per le commissioni di lavoro che ancora mi arrivavano da Torino: testi e musiche che con diligenza artigianale e per economica precauzione scrivevo e spedivo. Tutta la mia attenzione era concentrata sulla psicoanalisi. Incontrai molte persone, poi un gruppo. Qualcuno mi fu utile, una persona mi fu utilissima. Un ambulatorio medico cercava uno psicologo: lì incontrai alcuni ragazzi e ragazze, protervi, ingenui e disorientati. Renzo ed io continuavamo a sentirci un po’ soli in questa Roma, così grande e bella, in cui però avevamo quasi solo contatti di lavoro e di studio o avventure di letto. Questi erano ragazzi che facevano una vita «normale», erano di sinistra, tutti in costumi. Ci innamorammo reciprocamente e incominciammo a parlare di psicoanalisi: erano quasi tutti studenti di medicina e psicologia. Ma di quale psicoanalisi si poteva parlare? La mia? Quella di Freud? Mi guardavano affascinati e diffidenti: di quale utilità poteva essere, per loro, così di sinistra, una psicoanalisi tanto «borghese» come quella freudiana? Dissi un giorno: «Cosa vogliamo fare di noi stessi? Io metto in comune quello che so; cerchiamo, insieme, di andare oltre.» Aggiunsi, per essere chiaro: «È una strada pericolosa, per me e per voi». Prima delle riunioni andavo al bar, prendevo un gelato e poi una camomilla, perché avevo bisogno di calmarmi: ero teso, anzi, agitato. Stavo contraddicendo il padre Freud, avevo paura, per me, ma, soprattutto, per loro. Dove stavamo andando, dove li stavo portando?
Un pomeriggio, seduto su di una panchina, davanti a S. Pietro in Montorio, mentre dettavo musica a Renzo, una musica richiestami da certi antichi committenti di Milano, mi fermai e gli dissi: «Perché mi sono avventurato per questa strada? Perché non siamo rimasti a lavorare con musica e teatro, e, soprattutto, perché ho abbandonato la psicoanalisi classica? Era vecchia, cigolante, anche un po’ ridicola, ma quanto rassicurante! Penso alla mia analisi, che sento incompleta, al mio supervisore che ancora stimo, che però mi appare così ingenuo e inesperto coi suoi consigli. L’Edipo di Sofocle supera i secoli e si smarrisce in Zeus, l’Edipo di Freud è un piccolo borghese, che si sente sano quando ha il coraggio di accendere un mutuo per comprare un appartamento con doppi servizi». Alle nostre spalle c’era la facciata del Caprina, dentro la chiesa il Pomarancio, nel cortile, il tempietto del Bramante, tutt’intorno l’aria di Roma. Renzo, con ironia e, sono certo, con intenzione, mi disse: «Hai lasciato il contrabbasso a metà battuta… poi ti dimentichi, fai confusione e litighiamo». Quella per me fu una risposta. Presi una decisione che tuttora ritengo valida: scegliere la musica come salute e «Lui» come supervisore.

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Non ebbi più vergogna della neurologia e della psichiatria e non mi vergognai neppure più di Sigmund Freud, ripercorsi tutto quello che avevo studiato, rilessi Freud e gli altri. Decisi di ricominciare a fare lo psicoanalista: ritornai a Parigi, ma ci andai per imparare e per riportare a Roma quello che ci avrei trovato. I ragazzi erano intorno a me: studiavamo, discutevamo e lentamente ci innamoravamo gli uni degli altri. Insieme avemmo il coraggio di scegliere, rischiando. Non parlavo di certezze, non ero in grado di dire cosa fosse la salute, ma già sapevo che cosa era la malattia: era la viltà serpeggiante, questa sessualità stupida e imposta, la liberazione senza libertà, quelle rimozioni che cancellavano alcune parti dell’uomo, le più belle che l’essere umano possa esprimere. La scuola, la psicoanalisi, i giornali, la televisione, le manifestazioni, il femminismo, cercavano di castrare uomini e donne, per inserirli in un mondo di banalità e di falsa coscienza; un nuovo perbenismo si stava sovrapponendo al vecchio. Mi seguirono, mi scelsero per quel che ero. Non avevano – mentre ora li hanno – neppure gli strumenti critici per giudicare la mia preparazione. Mi scelsero e basta. Di questo sarò loro grato per sempre. Incominciò di qui la mia vera guarigione, per opera del loro amore, grazie al loro adolescenziale coraggio. All’inizio fu soprattutto un lavoro di analisi di gruppo: li sentivo intorno a me, a volte allegri, a volte disperati e mi si chiariva poco a poco cosa fosse la salute, quali fossero i mezzi per raggiungerla. Si passò alle analisi individuali e questo fu un progresso decisivo per la mia guarigione: nell’isolamento dello studio, in un rapporto a tu per tu, divennero spietati con me. «In analisi bisogna dire tutto». Me lo dissero fino in fondo. Io cercavo di rimanere abbarbicato alle vecchie nozioni, che credevo di avere acquisito bene e per sempre: me le distrussero una dopo l’altra. Dicevano tutto quello che passava loro per la mente, sul mio conto. «Questa è la regola fondamentale: dire tutto». Fu davvero terribile; mi amavano intensamente, ma non avevano un briciolo di pietà. Distrussero tutto intorno a me. Rimasi senza punti di ri- ferimento, come abbacinato. Lasciai anche la musica e il teatro. Dove andavo? Dove andavamo? Per la seconda volta, mi venne voglia di fuggire. Il loro amore mi trattenne; forse anche il mio sadomasochismo. Raccolsi tutto il coraggio ed andai avanti. Ricominciai a scrivere musica e, lentamente, quel senso di abbagliamento si venne smorzando. Piano piano mi stavo ricostruendo, tutto mi stava diventando più chiaro. Mi si veniva formando tra le mani, quasi senza che io lo cercassi, una tecnica precisa e coerente, che si fondava su una teoria scientifica sempre più organica, la quale, a sua volta, risultava basata su di una visione del mondo non più equivoca. Accanto a me c’erano loro, di fronte a noi c’era il mondo. Mi liberai delle banalità e della vigliaccheria, sebbene ancora senta la insidiosa minaccia. Ebbi il coraggio di curarli e, ad un certo punto, mi sentii pronto ad addossarmi i1 peso di essere il loro maestro.

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Già da tempo ci eravamo tuffati nella lotta. Ricordo il vecchio ospedale psichiatrico di S. Maria della Pietà: loro ed io insieme scalmanati ed entuasiasti, con tanta voglia di capire.
Da allora ebbi sempre più voglia di parlare e di scrivere, di insegnare.
La scuola fu il passo successivo ed ebbe per me e per loro un grande significato: per la prima volta, alcuni si trovarono ad essere dei «docenti» per ragazzi più giovani di loro con le speranze e le paure che loro avevano avuto. Adesso insegno con più tranquillità in quella che è la «mia» e la «nostra» scuola.
Talvolta questa sicurezza mi mette a disagio; sono infatti convinto che nessuno debba mai sentirsi troppo sicuro, se non vuole correre il rischio di rinchiudersi nell’ottusa cappa del tronfio perbenismo. Se ciò avviene il rapporto erotico con gli altri non è più possibile: Eros fugge i ben pensanti, sono i suoi nemici più accaniti.
I ben pensanti di destra di sinistra secernono una bava che cola su tutto. I ben pensanti sono i miei veri nemici: sono il diavolo.

21 – Aprile ‘86

martedì, 1 aprile 1986

Da tempo ci capita di frequentare con una certa assiduità quei due o tre «soliti posti» che stanno intorno alla sede di «Psicoanalisi Contro», nei più o meno brevi intervalli tra un impegno di lavoro e l’altro. Il più vicino è senz’altro il bar Vanni, in Via Montezebio, locale di fama e prestigio, anche perché è a un passo dagli uffici radiotelevisivi di Viale Mazzini, affollatissimo di ragazzotti e ragazzotte «rocchettari» da vetrina, oltre che da molti impiegati e professionisti della zona: tutta gente compìta, che non sgomita, malgrado la ressa e che ha un po’ l’aria assente di chi è impegnato a guardarsi allo specchio. Gente insomma che non sembra essere in grado di distinguere tra una grappa e un’aranciata e che quindi non stimola chi è dietro il banco a fare del suo meglio. Questo è un vero peccato, perché qui le materie prime sono di ottima qualità e molto variate e i banconisti sono simpatici. Per quel che riguarda le bevande miscelate vengono sempre richiesti gli stessi due o tre cocktail che finiscono per essere fatti in modo abbastanza approssimativo: il Negroni, per esempio, preparato giustamente nel bicchiere, non viene poi rimestato e all’arancia viene aggiunto un assurdo spicchio di limone. Noi che siamo curiosi e attenti al lavoro altrui, abbiamo provato a chiedere qualcosa di appena meno semplice, ma abbiamo visto facce sgomente al solo sentire pronunciare nomi come Bronx o Affinity. Insomma oltre al cocktail Martini e al Negroni tutto sembra risolversi con l’aperitivo della casa, non cattivo, ma piuttosto ovvio. Una pecca grave per un posto pretenzioso come questo è l’impossibilità di avere una flute di vero champagne, invece dell’inevitabile Prosecco. Qualche elogio lo merita la sezione della tavola calda: frittate, insalate, primi piatti, carni e contorni sono gradevoli, cucinati con serietà e serviti con sorridente correttezza. Buoni anche i gelati e molto esteso il settore pasticceria, che coi suoi dolci pesanti, pure non brilla per originalità delle proposte. I prezzi non sono certo bassi, date anche le pretese degli avventori snob, ma neppure esosi; a nessun prezzo però si può accettare che il caffè irlandese venga preparato con la panna montata.

Altro punto di riferimento abbastanza abituale è il bar-pasticceria Antonini in Via Sabotino, ma dobbiamo dire che, nel corso degli anni, servizio e qualità sono andati sempre peggiorando in questo posto che vorrebbe, ma solo sulla carta, proporre qualcosa di originale. Oggi a una disattenta scortesia del personale si aggiungono veri e propri attentati alla dignità gastronomica. Il culmine lo raggiungono le tartine, che potrebbero essere il fiore all’occhiello della casa e sono invece un insulto alla clientela: polpa di granchio, mousse di salmone, vongole, gamberi e caviale, tutti su medaglioni di pasta dolce come nel maritozzo, sopraffatti dalla maionese e invisciditi da un eccesso di succo di limone.
Con simili tartine viene offerto un Prosecco millesimato di Teresa Raiz, acidulo e senza profumo, servito spesso anche caldiccio. Poco disponibili alla richiesta di un cocktail i banconisti indicano la caraffa dell’aperitivo della casa, tenuta sempre pronta sul bancone: un intruglio con i sapori scissi e incoerenti che tentano di ricordare qualcosa a metà strada tra il Negroni e l’Americano.
C’è in funzione anche un settore pasticceria e gelateria, ma i gelati e le torte non si sollevano dalla mediocrità. I prezzi sono decisamente alti.

Proprio al fianco del precedente al n. 33 della stessa via, c’è un bar con le caratteristiche analoghe: Di Giampaolo.
Questo è un posto che mette allegria; lo conosciamo ancora poco, ma ci ha fattopiacere vedere qualcuno reagire bene alla richiesta di un cocktail e non spaventarsi davanti a unMary Pickford. Oltre ai classici c’è anche una scelta di quelli personalmente inventati dai due barmen, noncattivi, anche se un po’ dissennati. Pensiamo che questi due signori ci guadagnerebbero molto se riuscissero a controllare meglio i loro gesti: sbrodolerebbero di meno il banco e otterrebbero dosaggi più precisi. Tutta quella distrazione dà loro un’aria simpatica, ma non giova all’equilibrio delle bevande che preparano. Specialitàdella casa qui sono i centrifugati di frutta e verdura e diverse sfiziosità da consumarsi rapidamente. I prezzi sono all’altezza del pretenzioso quartiere!

Alfellini, in Via Caletti 5, dietro la stazione Ostiense, è un club privé che si presenta con una lunghissima pensilina ricoperta di stoffa rossa e addobbata con vasi di fiori finti, eccessiva e provocatoria in un contesto tanto dimesso quanto quel quartiere di notte.
Ci siamo entrati trascinando con noi, come spesso facciamo, amici e parenti, la sera del sabato santo. In questa confusione liturgica noi due abbiamo finito col capirci più niente: una volta tutto il giorno del sabato di Pasqua era già festivo; oggi pare invece che ci sia ancora da meditare e da espiare fino alla mezzanotte. Ce lo ha confermato il modo in cui è trascorsa la serata! In una confusione da garage affollato abbiamo dovuto subire di tutto: Luca che al pianoforte cantava qualcosa che pareva sempre essere la stessa canzone in un improbabile inglese, interrompendosi soltanto per balzare sul palco a raccontare barzellette su Nostro Signore e sui carabinieri, poi l’insulto di bevande che portavano il nome di cocktail famosi, ma erano solo lavatura di bicchieri, infine piatti indecenti. Se sconsolati alzavamo gli occhi eravamo schiantati dalla bruttezza di affreschi e quadri alle pareti. Sappiamo che i gestori hanno idee grandiose, che vorrebbero fare un vero e proprio caffé teatro con spettacoli sempre nuovi, ma abbiamo l’impressione che la cosa abbia preso una gran brutta piega. Tanto brutta che a mezzanotte noi siamo scappati ed uscire da quella bolgia ci è parsa proprio una resurrezione!

21 – Aprile ‘86

martedì, 1 aprile 1986

Il signor Gilbert Rouget, docente all’Università di Parigi X, autore di Musica e Trance (ed.Einaudi, pagg. 485, Lit.38.000), è onesto e consapevole dei propri limiti; infatti dichiara esplicitamente che le sue conclusioni teoriche sull’argomento sono approssimative e provvisorie e che le sue idee non sono molto chiare.
Noi stessi ci siamo chiesti cosa lo abbia spinto a scrivere questo libro. Riconosciamo però che vi sono molti spunti interessanti, buttati qua e là, senza ordine preciso, sebbene l’intento dell’autore sia quanto mai classificatorio.

Rouget parte col tentativo di definire il concetto di trance, distinguendolo sia dalla crisi, sia dalla isteria: infatti sa bene che coloro che assimilano la trance ad un fenomeno isterico, autori francesi soprattutto, sono ritenuti superati dagli studi degli specialisti americani, poiché negli Stati Uniti l’isteria non è più considerata un elemento nosografico autonomo. Il suo interesse è incentrato per buona parte sui fenomeni musicali che ha rilevato sul campo, soprattutto nell’area africana del Benin, ma che sono comuni a fenomeni analoghi riscontrabili dalla Siberia all’America degli indiani.

Lo stesso concetto di trance è impreciso ed egli si avventura in distinzioni ulteriori, non sempre chiare. Che importanza ha la musica in queste particolarissime situazioni psico-religiose? La risposta fa un po’ sorridere: «…Non disponiamo quindi di alcun dato sperimentale che ci permetta di formulare delle ipotesi sul ruolo psico fisiologico della musica nella trance…»; e poi ancora: «..la musica appare … ora come il mezzo quasi meccanico che provoca la trance…, ora priva di qualsiasi ruolo…».

Una serie di affermazioni oscillanti danno e tolgono importanza alla musica e alla danza, senza spiegazioni sufficienti e restano lì come pure constatazioni. Se, da un punto di vista antropologico, neurologico e fisiologico, resta ambiguo definire cosa sia la trance e quale sia il suo rapporto con la musica, che cosa è per il nostro autore la musica stessa? Questa è la sua risposta: «Nel contesto della trance, chiameremo musica ogni fenomeno sonoro ad essa associato non riducibile al linguaggio (si tratterebbe in tal caso di parole e non di musica) e che presenti un certo livello di organizzazione ritmica o melodica». Definizione innocua, che però non gli serve operativamente.

Dove sta il difetto scientifico di questo lavoro, per tanti versi così accurato? Nel fatto che la musica viene definita tout court, solo con una parola, salvo qualche superficiale accenno a ritmi, misure, cellule melodiche, crescendo e diminuendo, eccetera. Ma noi siamo certi che in ognuna delle aree culturali prese in esame il linguaggio musicale sia quanto mai preciso, con i suoi stilemi, teorie compositive ed interpretative; e che, per di più, la musica usata, nei riti abbia una sua grammatica e sintassi che è importante saper decifrare. Soltanto dopo un’analisi attenta del linguaggio musicale in tutti i suoi aspetti: sonori, strutturali e addirittura archetipali, del suo uso e delle possibili variazioni di questo uso, si può cercare di capire se e quanta importanza abbia la musica nel determinare, accompagnare o dissolvere lo stato di trance. Certo, le relazioni tra reazioni fisiologiche dell’organismo umano, musica e danza non sono per niente chiare; bisogna però avere il coraggio di buttarsi a formulare ipotesi e non basta limitarsi a darne lievi e approssimative descrizioni. Tutta la grossa parte dedicata alla Grecia, con citazioni da Pitagora, Platone e Aristotele, ripete cose risapute, e così pure la riesumazione dei rapporti tra musica e incantamento quali erano considerati nel Rinascimento europeo. Si fa di ogni erba un fascio e si conclude citando una lunghissima lettera di un giovane etno-musicologo originario del Benin e residente a Parigi a un suo amico e condiscepolo rimasto nel paese natìo, la quale, autentica o inventata che sia, è una caduta nel cattivo gusto: «Mio caro Asogba. Ieri sono stato all’Opéra. Ho creduto di impazzire! Dal momento che nessuno me ne aveva parlato, non me l’aspettavo; non ti dico la mia sorpresa nel trovarmi in piena cerimonia di possessione! Avresti creduto di essere a Porto Novo, in Piazza Dégué… ».

I pregi maggiori del libro sono comunque la gran quantità di informazioni e l’ampia bibliografia che, insieme con la rinuncia dell’autore a prospettare decisamente una sua ipotesi, stimolano il lettore a formulare le proprie.

21 – Aprile ‘86

martedì, 1 aprile 1986

L’epoca barocca risplende di preziosa luce nella storia della cultura occidentale e una gemma tra le più autentiche è il teatro del tempo, rito e festa, che coinvolge tutti indistintamente. Le maschere improvvisano, il teatro esce dalle corti, gli arcivescovi rappresentano nelle cattedrali scene di ironico fasto. Gli autori teatrali fanno esplodere la fantasia; Pedro Calderòn de la Barca crea un’opera che rimarrà fondamentale per il teatro di ogni tempo: La vita è sogno.

Il gioco si costruisce intorno alla vicenda del principe Sigismondo, vittima e tiranno, con continue variazioni sul tema che si insinuano dappertutto, cumuli di parole, a grappoli e a festoni, associazioni bizzarre e immagini estrose, in uno scenario variato: prima tra orride gole e montagne, poi nelle segrete prigioni e in palazzi. Calderòn non ha pudore nello sfruttare tutte le possibilità della favola; giocando col sogno e la realtà, sa di avere un asso nella manica capace di vincere anche i momenti di stanchezza.
Talora la parola si fa impettita, ma forse è solo una nostra impressione, di gente che non sa più osare con la fantasia e non riesce ad apprezzare i momenti di pura macchinosità teatrale.
Tanta barocca grandiosità di intenti abortisce però nello spettacolo messo in scena al Teatro Valle dalla compagnia de Gli Incamminati.
A cominciare dalla traduzione di Gherardo Molina, ora in versucoli rimati come le filastrocche del Signor Bonaventura, ora in un fraseggio sciattamente adeguato alle esigenze di una moderna volgarità linguistica, traduzione che, tra gli altri inconvenienti, ha quello di rendere più ardua l’impresa di recitare: le parole infatti finiscono per impastarsi nella bocca degli attori, diventando incomprensibili per gli spettatori. Detto questo, per evitare che le responsabilità di uno ricadano su tutti, bisogna anche dire che gli interpreti non ci hanno convinto: Orietta Notari era una Rosaura istericamente banale e Francesco Migliaccio un Clarino del tutto spento. Anna Maria Sanna e Dario Manera, rispettivamente una infanta sempre troppo acida o troppo zuccherosa e un Astolfo rigido come un pupazzo, tanto che non era facile distinguerlo – quando taceva – dai veri fantocci in scena. Franco Olivero non è riuscito a dare una fisionomia al personaggio del vecchio Clotaldo ed Edoardo Florio era un re Basilio immoto e noioso. Franco Branciaroli aveva riservato per sé il ruolo del principe Sigismondo e la sua scelta interpretativa è stata quella di urlare senza ragione per tutto il primo tempo anche nei momenti meno opportuni, mormorando poi per tutta la seconda parte, in cui, pure, riusciva qua e là a trovare accenti più adeguati, quando il personaggio gioca coi sogni e con le realtà della vita, senza però mai coinvolgere e far sognare. La scena, coi teatrini mobili, di Aldo Buti, creatore anche dei costumi, ci è parsa la cosa più riuscita, sebbene non abbiamo apprezzato il gioco degli ingranaggi, che appesantiva, senza servire a ravvivare situazioni troppo statiche. Abbiamo accusato come una clamorosa mancanza la pochezza degli interventi musicali che avrebbero potuto accendere di bagliori un’atmosfera spenta. La regia di Branciaroli non ha servito bene né lui né gli altri.

Ricorda con rabbia di John Osborne è diventato quasi un «classico» e forse merita un posto nella storia del teatro, oltre che in quella del costume. Si tratta di un testo bruttino non già perché sia superato – e questa è la cosa più stupida che si possa dire: se un testo risulta superato vuol
dire che era già nato brutto: è ovvio che un’opera rispecchia il periodo in cui è concepita -, ma perché il debole pretesto ideologico non giustifica tre atti di straziante immobilità, appena riempita di luoghi comuni ribellistici. La trama è tutta qui: lui la domenica si annoia, lei stira e l’amico legge il giornale. Arriva un’amica di lei che finisce per sostituirla anche al ferro da stiro. La sposina tradita abortisce e, dopo una breve parentesi lontano di casa, decide che è meglio ritornare al posto che le spetta al tavolo da stiro. Tutto accade in tre pomeriggi domenicali: uno per atto. Gli spettatori potrebbero anche non esserci e il testo è congegnato in modo che essi vengano negati. Ci sono un bel po’ di parolacce che servono a dare l’impressione della vita vera. È chiaro però che niente ha a che vedere con la verità questo teatro stantio e povero, che riduce gli annoiati spettatori. alla parte di guardoni che sbirciano dal buco della serratura e vedono cose senza alcun interesse. Al Teatro delle Arti lo ha riproposto la bresciana Compagnia della Loggetta. L’impostazione registica di Nanni Garella è stata professionalmente correttissima; forse ha però ecceduto nell’intenzione di universalizzare il testo, trasportandolo in un’atmosfera di provincia italiana qualunque, tanto che stupisce che i personaggi abbiano nomi come Cliff e Alison anziché più brescianamente Nino e Marisa oppure Mario e Giovanna invece che Jimmy ed Helena. Questa sensazione è poi rafforzata anche dall’impostazione vocale, comprese le pause e gli ammiccamenti. C’è voluta la splendida prova di recitazione di Paolo Bessegato per farci dimenticare tutto questo, trasportati dal piacere di vedere un attore di stoffa saper padroneggiare un personaggio difficile, dandogli i giusti accenti: rabbiosi, volgari, viscidi, teneri, disperati, irritanti, spostando l’attenzione dei presenti da quello che il suo Jimmy diceva a come lo diceva. Siamo avari di elogi perché lo aspettiamo al varco di prove successive per essere certi che la nostra non sia una prima impressione. Bravo Garella anche come attore nei panni di Cliff, l’amico di famiglia. Patrizia Zappa Mulas nelle vesti di Alison e Viviana Nicodemo in quelle di Helena ci sono sembrate convenzionali e un po’ troppo prevedibili, anche se adeguate alla situazione che vedeva due personaggi maschili predominanti. Delle scene di Maurizio Balò non c’è che dire: riproducevano un triste tinello attraversato da personaggi malvestiti e dalla musica dei Beatles trasmessa da una radio volutamente gracchiante.

21 – Aprile ‘86

martedì, 1 aprile 1986

Neppure l’aria dell’aprile romano riesce a fugare l’impressione triste e un po’ tetra del palazzone che, nella città degli studi ospita l’aula magna nella quale si tengono alcuni dei concerti della Istituzione Universitaria. Per fortuna, è bastato il primo accordo della musica di Mozart eseguita dal Klavierquartett Artis (violinista Giuliano Carmignola, violista Guido Mozzato, violoncellista Franco Rossi, pianista PierNarciso Masi) perché l’atmosfera diventasse calda e splendente. È inutile soffermarci sulla bellezza assoluta dei quattro quartetti in programma: da soli basterebbero a rendere immortale qualunque compositore; molto più di certe monumentali sinfonie e di chilometrici melodrammi.

Nonostante il nostro atteggiamento ipercritico quando ascoltiamo esecuzioni mozartiane, siamo rimasti abbastanza soddisfatti della lettura che ne è stata fatta e dell’esecuzione complessiva. Masi era adeguato e lucido, Carmignola preciso e fluido, la viola di Mozzato aveva un bel suono accattivante e Rossi col suo violoncello amalgamava tutti con bella sonorità. Nei due brani centrali della serata, Mario Ancillotti ha dato col suo flauto una dimostrazione di bravura espressiva e virtuosistica. Nella musica d’insieme è fondamentale la capacità di non sopraffare gli altri per tendere piuttosto alla correttezza dell’esecuzione nel suo complesso e questo hanno saputo fare tutti gli esecutori.

Nel Quartetto in Mi bemolle K 493, per pianoforte ed archi, l’attacco iniziale è stato preciso e l’allegro è stato eseguito correttamente con una lentezza più accentuata di quanto ci si possa attendere, che secondo noi qui è d’obbligo: siamo d’accordo con chi rifiuta un concetto di Mozart edonistico, solo ci è parso che in questo primo movimento l’attacco dei singoli strumenti risultasse un po’ duro; nel secondo movimento è stato messo in risalto l’aspetto accorato del larghetto: il pianoforte porgeva l’inizio del discorso, sempre poi riproponendolo e ben amalgamandosi con gli altri strumenti. Nell’allegretto finale la dinamica era corretta e ci è parsa ben risolta la contrapposizione tra il pianoforte e gli archi, anche se avremmo gradito un po’ più di chiaroscuro.

Il Quartetto in Sol maggiore era una versione per flauto ed archi curata da F.A. Hoffmeister dell’originario quartetto K 370 per oboe ed archi: nelle prime battute dell’allegro il flauto aveva sonorità un po’ sforzate, poi, nell’adagio si è sciolto e il rondò finale è venuto fluido e aperto.
Il Quartetto in Re maggiore K 285 è di una semplicità perfetta e basta un niente per spezzarne l’incanto; i quattro hanno retto abbastanza bene riuscendo a far brillare la tenerezza armonica e melodica del primo tempo, con le sue disarmanti modulazioni; l’adagio è una serenata che ha permesso al flauto di esibirsi in un melodiare sinuoso ed equilibrato, mentre ci è parso troppo secco il pizzicato degli archi; nel rondò è stato ben sottolineato l’aspetto giocoso.

Ultimo brano in programma il Quartetto in Sol minore K 478: l’allegro iniziale così perentorio è stato proposto con equilibrio, giustamente sottolineando la tensione drammatica che percorre tutto il movimento, mettendo però nel dovuto risalto ritornanti momenti di struggente malinconia; non ci è piaciuto l’inizio dell’andante: dopo il pianoforte gli archi sono entrati, se non fuori tempo, quasi, con una certa confusione che è rimasta fino al rondò finale, che ci ha invece convinto pienamente, col suo caleidoscopio di emozioni, ben inserite in una lucida consequenzialità logica.

21 – Aprile ‘86

martedì, 1 aprile 1986

Nudo

Questo numero del giornale esce esattamente dieci anni dopo che PSICOANALISI CONTRO ha fatto la sua prima comparsa sulla scena romana, nell’aprile del 1976. Sono cambiate molte cose e le intenzioni di allora, diventando lavoro quotidiano, hanno conosciuto rettifiche e precisazioni. Il progetto rivoluzionario è facile da enunciare, più difficile da realizzare. La rivoluzione permanente nella pratica è molto meno gratificante della battaglia degli slogan. Per dieci anni PSICOANALISI CONTRO ha rinunciato a seguire la corrente: anni di piombo, riflusso, post-erotismo sono state anche etichette che hanno reso commerciabili alcuni prodotti della recente storia umana. Tentare di sottrarsi al monopolio di questa manipolazione dell’opinione ha significato rischiare molto ed è costato moltissimo. Il risultato ottenuto ha però qualche pregio, primo fra tutti quello della conquistata identità. Paradossalmente, questa identità si esprime al meglio quando in un mondo saturo di definizioni si sente ripetere la domanda: Contro cosa? In modo che anche questo nome dalla sonorità un po’ passata di moda, rimane presenza inquietante, dichiarazione di un impegno che vuole essere senza tregua. Si può non dare tregua agli altri solo se non si da tregua a se stessi, questo è uno degli insegnamenti che gli uomini e le donne di PSICOANALISI CONTRO hanno imparato dal loro Maestro. Infatti Sandro Gindro non dà tregua a nessuno! Non a chi chiede rispettabilità e vorrebbe, dignitosamente e discretamente, trovare un ritmo professionale, negli schemi di una tecnica e sotto lo scudo di una metapsicologia: non c’è tregua per questi sportellisti della psicoanalisi, ansiosi di chiudere lo sportello per ritemprarsi in bagni di normalità dopolavoristica. Né hanno pace quei furenti dell’erotismo, che sperano di esaurire nel gioco della reciproca seduzione il dovere da compiere per meritare i gradi. Da dieci anni il Maestro disorienta i suoi discepoli, preparando loro una provocazione al giorno, senza neppure che sia diventata abitudine la provocazione, perché arriva sempre a colpire là dove il pudore si è appena arroccato. La fatica di ritrovarsi a ogni giorno nudi è pesante, ma lo sarebbe un po’ meno se ad essa non si aggiungesse quella di dover affrontare anche l’imbarazzo della Sua nudità. Sarebbe molto più facile il lavoro di ogni giorno, con un Maestro che si lasciasse rivestire di un qualche abito che la consuetudine sa riconoscere: il filosofo, il satiro o il duce; o magari uno dei tanti Maestri che, ciechi alle meschinità del presente, vedono quello che è celato agli uomini comuni. Un uomo nudo mostra pregi e difetti: è più facile amarlo ed è difficilissimo attaccarlo. Un uomo nudo fa provare a chi è coperto imbarazzo per i propri abiti e per cosa si può nascondere sotto di essi. Un uomo nudo è solo un uomo: può essere maschio o può non esserlo. Se lo è, non può nasconderlo. Si deve così accettare che dieci anni di lavoro collettivo si sono costruiti intorno a lui: Sandro Gindro, maschio nudo.

21 – Aprile ‘86

martedì, 1 aprile 1986

Alla galleria Pieroni in via Panisperna 203 sono esposte quattro «opere» di Michelangelo Pistoletto, artista piemontese, sulla breccia ormai da trent’anni (lui ne ha cinquantatrè), militante, si può dire, di tutte le avanguardie. Dopo un inizio quasi espressionista, di derivazione «baconiana»è passato alla pop-art, all’arte povera e concettuale, approdando a quella che egli stesso definisce «arte dello squallore». In un suo scritto titolato Poetica dura, dell’ottantacinque, pubblicato dal gallerista torinese Persano, Pistoletto si compiace di definire la materia della sua opera «massa vile tinta di colore vile»: noi concordiamo con l’uso di tale aggettivo, se sta a significare non tanto qualcosa di ultrapovero, ma piuttosto se si riferisce alla vigliaccheria e alla viltà di chi ha scelto di proporre «un’arte repulsiva che non rappresenta niente» e che, aggiungiamo noi, assolve solo la funzione di essere arte di regime. Con l’aggravante che si può attagliare a tutti i regimi e meglio funziona, quest’arte, se il regime è fascista e teme che il popolo sia indotto a pensare. Un’arte che esaurisce se stessa nello sproloquio imbecille e gratuito dei critici e degli stessi artisti. A questo punto, è quasi inutile dire dei quattro oggetti esposti: il materiale non è né vile né meno vile di altri: sono quattro monoliti un po’ tronfi che cercano di accattivarsi l’osservatore, ma risultano solamente masse frigide e mortifere per il dominante colore scuro. Un discorso poi sarebbe da fare sulla malafede (e non ci riferiamo all’artista) di chi sostiene con giri di capitalistici milioni la viltà e il disimpegno: a Houston come a Firenze, a Torino come a San Francisco. Per chi volesse sentire l’altra campana, citiamo Rudi Fuchs, dallo stesso libretto di cui sopra: «L’arte di Pistoletto, di nuovo molto forte nei lavori recenti, in cui evita anche ogni diretta identificazione con le figure, è sempre stata dialettica nella sua strategia e sempre mobile. Deve essere considerata uno dei grandi inevitabili argomenti nel contesto dell’Arte Contemporanea». A ciascuno il suo!

Lucio Del Pezzo espone contemporaneamente in due gallerie: Il Segno di via Capo le Case e Mara Coccia in via del Corso 530, nella prima sono esposte le Opere su carta e nell’altra, acriliche, montage, oggetti e multipli. Di lui, napoletano verace trapiantato a Milano, si può dire che è «intrigante», nel senso che le sue opere incuriosiscono, mettono in moto la fantasia, divertono, pur lasciando spazio a una certa perplessità. Dal suo lavoro scaturisce un’arte in cui è piacevole avventurarsi anche per il baluginio metafisico che si sovrappone ad una semplicità decorativa da carrettino dei gelati. Collage o montage, gioco sereno o mistero esoterico, sono forme e colori su cui l’occhio si posa con piacere.
Dei lavori su carta abbiamo apprezzato la ferie dell’Hypnerotomachia Poliphili, 12 preziose cartelle dal segno colto e sensuale che hanno come pretesto l’illustrazione di un componimento poetico che Edoardo Sanguineti ha costruito con parole tratte da un romanzo allegorico, attribuito a Francesco Colonna, della fine del Quattrocento. Delle opere a grandi dimensioni della Galleria Coccia ci ha affascinato Figura, una pittura acrilica con collage e montage su legno del 1982, forse perché ci ha suggerito un’ingenua misteriosità rievocante l’atmosfera del tempio del mozartiano Sarastro; la sola atmosfera che potesse essere rievocata senza sfigurare in quelle belle sale che inducono a pensosi confronti tra presente e passato.