21 – Aprile ‘86

aprile , 1986

L’epoca barocca risplende di preziosa luce nella storia della cultura occidentale e una gemma tra le più autentiche è il teatro del tempo, rito e festa, che coinvolge tutti indistintamente. Le maschere improvvisano, il teatro esce dalle corti, gli arcivescovi rappresentano nelle cattedrali scene di ironico fasto. Gli autori teatrali fanno esplodere la fantasia; Pedro Calderòn de la Barca crea un’opera che rimarrà fondamentale per il teatro di ogni tempo: La vita è sogno.

Il gioco si costruisce intorno alla vicenda del principe Sigismondo, vittima e tiranno, con continue variazioni sul tema che si insinuano dappertutto, cumuli di parole, a grappoli e a festoni, associazioni bizzarre e immagini estrose, in uno scenario variato: prima tra orride gole e montagne, poi nelle segrete prigioni e in palazzi. Calderòn non ha pudore nello sfruttare tutte le possibilità della favola; giocando col sogno e la realtà, sa di avere un asso nella manica capace di vincere anche i momenti di stanchezza.
Talora la parola si fa impettita, ma forse è solo una nostra impressione, di gente che non sa più osare con la fantasia e non riesce ad apprezzare i momenti di pura macchinosità teatrale.
Tanta barocca grandiosità di intenti abortisce però nello spettacolo messo in scena al Teatro Valle dalla compagnia de Gli Incamminati.
A cominciare dalla traduzione di Gherardo Molina, ora in versucoli rimati come le filastrocche del Signor Bonaventura, ora in un fraseggio sciattamente adeguato alle esigenze di una moderna volgarità linguistica, traduzione che, tra gli altri inconvenienti, ha quello di rendere più ardua l’impresa di recitare: le parole infatti finiscono per impastarsi nella bocca degli attori, diventando incomprensibili per gli spettatori. Detto questo, per evitare che le responsabilità di uno ricadano su tutti, bisogna anche dire che gli interpreti non ci hanno convinto: Orietta Notari era una Rosaura istericamente banale e Francesco Migliaccio un Clarino del tutto spento. Anna Maria Sanna e Dario Manera, rispettivamente una infanta sempre troppo acida o troppo zuccherosa e un Astolfo rigido come un pupazzo, tanto che non era facile distinguerlo – quando taceva – dai veri fantocci in scena. Franco Olivero non è riuscito a dare una fisionomia al personaggio del vecchio Clotaldo ed Edoardo Florio era un re Basilio immoto e noioso. Franco Branciaroli aveva riservato per sé il ruolo del principe Sigismondo e la sua scelta interpretativa è stata quella di urlare senza ragione per tutto il primo tempo anche nei momenti meno opportuni, mormorando poi per tutta la seconda parte, in cui, pure, riusciva qua e là a trovare accenti più adeguati, quando il personaggio gioca coi sogni e con le realtà della vita, senza però mai coinvolgere e far sognare. La scena, coi teatrini mobili, di Aldo Buti, creatore anche dei costumi, ci è parsa la cosa più riuscita, sebbene non abbiamo apprezzato il gioco degli ingranaggi, che appesantiva, senza servire a ravvivare situazioni troppo statiche. Abbiamo accusato come una clamorosa mancanza la pochezza degli interventi musicali che avrebbero potuto accendere di bagliori un’atmosfera spenta. La regia di Branciaroli non ha servito bene né lui né gli altri.

Ricorda con rabbia di John Osborne è diventato quasi un «classico» e forse merita un posto nella storia del teatro, oltre che in quella del costume. Si tratta di un testo bruttino non già perché sia superato – e questa è la cosa più stupida che si possa dire: se un testo risulta superato vuol
dire che era già nato brutto: è ovvio che un’opera rispecchia il periodo in cui è concepita -, ma perché il debole pretesto ideologico non giustifica tre atti di straziante immobilità, appena riempita di luoghi comuni ribellistici. La trama è tutta qui: lui la domenica si annoia, lei stira e l’amico legge il giornale. Arriva un’amica di lei che finisce per sostituirla anche al ferro da stiro. La sposina tradita abortisce e, dopo una breve parentesi lontano di casa, decide che è meglio ritornare al posto che le spetta al tavolo da stiro. Tutto accade in tre pomeriggi domenicali: uno per atto. Gli spettatori potrebbero anche non esserci e il testo è congegnato in modo che essi vengano negati. Ci sono un bel po’ di parolacce che servono a dare l’impressione della vita vera. È chiaro però che niente ha a che vedere con la verità questo teatro stantio e povero, che riduce gli annoiati spettatori. alla parte di guardoni che sbirciano dal buco della serratura e vedono cose senza alcun interesse. Al Teatro delle Arti lo ha riproposto la bresciana Compagnia della Loggetta. L’impostazione registica di Nanni Garella è stata professionalmente correttissima; forse ha però ecceduto nell’intenzione di universalizzare il testo, trasportandolo in un’atmosfera di provincia italiana qualunque, tanto che stupisce che i personaggi abbiano nomi come Cliff e Alison anziché più brescianamente Nino e Marisa oppure Mario e Giovanna invece che Jimmy ed Helena. Questa sensazione è poi rafforzata anche dall’impostazione vocale, comprese le pause e gli ammiccamenti. C’è voluta la splendida prova di recitazione di Paolo Bessegato per farci dimenticare tutto questo, trasportati dal piacere di vedere un attore di stoffa saper padroneggiare un personaggio difficile, dandogli i giusti accenti: rabbiosi, volgari, viscidi, teneri, disperati, irritanti, spostando l’attenzione dei presenti da quello che il suo Jimmy diceva a come lo diceva. Siamo avari di elogi perché lo aspettiamo al varco di prove successive per essere certi che la nostra non sia una prima impressione. Bravo Garella anche come attore nei panni di Cliff, l’amico di famiglia. Patrizia Zappa Mulas nelle vesti di Alison e Viviana Nicodemo in quelle di Helena ci sono sembrate convenzionali e un po’ troppo prevedibili, anche se adeguate alla situazione che vedeva due personaggi maschili predominanti. Delle scene di Maurizio Balò non c’è che dire: riproducevano un triste tinello attraversato da personaggi malvestiti e dalla musica dei Beatles trasmessa da una radio volutamente gracchiante.