Psicoanalisi contro n. 21 – Il contrabbasso a metà

aprile , 1986

Tanti anni fa, non so quando, io ero un ragazzetto, occhialuto e petulante, credo cordialmente antipatico. A Torino, dove nacqui, non avevo amici, vivevo isolato leggendo libri con avidità. Mio padre era un liberale, onesto ed ingenuo; da buon liberale non mise in atto nessuna censura sulle mie letture, cosicché, ancora bambino, potevo leggere, a piacere, riviste pornografiche o trattati di medicina e testi di filosofia e matematica. La sera, tanto per confermare il mio complesso di Edipo, fuggivo con mia madre a teatri e concerti. Ero piccolino, con grandi occhiali e un’aria assorta. Non stimavo i miei maestri e i miei professori, mi reputavo loro superiore, li ritenevo ignoranti e sempliciotti. Cominciai presto a scrivere elegie in latino e liriche in greco, senza aver più bisogno del vocabolario. Molti anni dopo mi trovai a rileggerle, non fui capace di farlo senza l’aiuto del vocabolario, e allora ricominciai a studiare il latino e il greco: che vergogna! I miei occhi stanchi, dietro i grandi occhiali, continuavano a scrutare quadri in pinacoteche, musei e chiese o riprodotti sui libri; febbrilmente li copiavo, con l’ansia rabbiosa degli amanuensi, come se fosse dipeso da quelle mie copie che La caduta di S. Paolo o La Madonna della seggiola non andassero per sempre perdute. Disegnavo e dipingevo, finché cerchi verdi e dorati prendevano a ballarmi davanti agli occhi, allora smettevo e andavo a leggere un libro, e quando anche le parole stampate diventavano segni incomprensibili, entravo nel salotto di casa mia, una vecchia casa liberty, con il soffitto affrescato da figure per me meravigliose, a quel tempo e che anche ora credo fossero l’opera di un artigiano eccezionale: anfore inclinate che rovesciavano frutta e fiori, aironi, palme, uno stormo di pettirossi. Nell’aria un buon profumo, il pavimento scricchiolava. Mi sedevo al pianoforte; sul legno era stampato in bronzo un nome tedesco, messo bene in vista, mentre, più nascosto, dietro la cassa, c’era il nome piemontese di chi l’aveva costruito davvero; nonostante non fosse un «vero» tedesco, aveva un bel suono.
Sono stato innamorato da sempre di Wolfango Amedeo Mozart e questa è, forse, l’unica cosa di cui sono sempre andato e vado tuttora orgoglioso: di questo amore incondizionato, trepido, tenero, sensuale e sessuale. Quante fantasie, anche, sui suoi genitali e sulla sua bocca. Per quello che io, tra me e me, chiamavo soltanto «Lui» suonavo. Suonavo le sue musiche malissimo, forse perché suonavo male davvero, forse perché tutti suonano male quelle musiche, perché nessuno può esserne, davvero, all’altezza. Questo amore non mi ha più lasciato. Ha per me la sacralità di una religione, come forse devono essere tutti i veri amori.
Ci sono tante cose di quella mia infanzia e prima adolescenza di cui ora mi vergogno.
Recuperavo un po’ di normalità di comportamento quando andavo in campagna, nel bel Canavese, tra i castagni e le acacie, con amici ed amiche in boschi e torrenti. Sotto un pergolato di uva luglienga, continuavo a leggere, a scrivere e a disegnare, finché gli occhi non mi si riempivano di cerchi verdi e dorati.
Mia madre, più energica di quello che non sembrasse, nel suo continuo bamboleggiare, mi proteggeva e mi aiutava; ma per questo subiva, molto spesso, le ire di quel ragazzetto occhialuto, credo proprio cordialmente antipatico.

Torino mi affascinava e mi turbava; uscivo da solo per le strade, entravo nelle chiese e nei musei, pensavo. Ero timido, profondamente timido, però ero anche saccente: forse a buon diritto. Tutti mi sembravano troppo ignoranti. La scuola non mi dava assolutamente nulla: solo noia. I compagni di classe mi guardavano con invidiosa avidità, ma non mi stimavano e ancor meno mi amavano. Non ero un bravo scolaro: distratto, non facevo i compiti per orgoglio e perché tanto gli insegnanti non avrebbero capito niente. Forse era vero. Io stesso mi assegnavo dei compiti, che mi correggevo da solo, e finiti i quali, distrattamente e sciattamente, facevo quelli di scuola. I miei voti erano mediocri e mia madre si affannava a spiegare agli insegnanti la particolarità di quel ragazzetto così timido, fragile, raccontando chissà che cosa. Io non ero fragile, ero determinato, cocciuto e presuntuoso; soltanto l’amore per «Lui», credo, è riuscito a salvarmi. Le mie mani sulla tastiera suonavano la sua musica ed io, sempre, ero scontento del risultato, di me, davo pugni sui tasti, al colmo del disappunto, e passavo a brani di altri compositori, con rabbia, protervia e, anche, allegria: li suonavo abbastanza bene, ma quelli di «Lui» no.
«Lui» non l’ho mai suonato come si deve. Questa fu la salvezza di quei primi anni. Un giorno, credo al tempo della mia prima media, ma non ne sono certo, un professore ci raccontò un fatto, forse per tenere buona la classe. Quel professore si piccava di saperne di psicologia e ci raccontò di un ragazzo, suo allievo di anni precedenti, il quale non poteva vedere le scarpe, se non erano calzate: una scarpa «vuota» lo terrorizzava e i compagni, per scherzo, si levavano, talvolta, una scarpa e la passavano l’un l’altro, di banco in banco, fino a posargliela in grembo; lui cacciava un urlo che non riusciva a trattenere e, gettandola lontano da sé, scappava, piangendo, fuori dall’aula. Tutti ridemmo a quel racconto. Io tornai a casa molto pensieroso; dissi poi a mio padre che volevo che mi comperasse tutti i libri di psicologia. Il buon uomo liberale, questa volta un po’ turbato, acconsentì. Io volevo capire, tra i nomi che quel professore aveva fatto c’era anche quello di Sigmund Freud. Non trovai molto di Freud e non trovai le spiegazioni che cercavo sulla fobia di quel ragazzo. Come mi piacerebbe incontrarlo oggi! Continuai a pensare a quella scarpa vuota e al terrore che poteva procurare. Lessi di feticismo del piede e della scarpa, mi imbattei in termini come vagina e pene. Rifugiato nel salotto dal bel soffitto affrescato, tra l’odore del legno e lo scricchiolio del pavimento, accarezzando pensieroso i tasti del pianoforte, io pensavo. A Torino non avevo amici, ero assolutamente solo. I miei boschi erano lontani. A scuola mi obbligavano a lunghissime versioni in prosa dell’Iliade e dell’Odissea, cosa che io trovavo assolutamente cretina, per cui passavo l’impegno a mia madre, costringendola a scrivere per me. Io preferivo prendere il mio bell’album dai grandi fogli bianchi e su quei fogli illustravo gli episodi che più mi piacevano dell’Iliade e dell’Odissea. Perso in quel mondo, fantasticando su quei corpi; dèi e montagne, sognando quelle navi e quelle battaglie che tuttora sono per me il mondo ideale, che vorrei non solo nei sogni, ma nella realtà che quotidianamente cerco di costruire intorno a me. Un giorno, successe una tragedia, perché un’insegnante di lettere si accorse che la versione in prosa non l’avevo fatta io. Non so come se ne poté accorgere; forse era solo meno scema di quello che io credessi. Fu una cosa gravissima per mia madre e per l’insegnante; io rimasi imperturbato, continuavo a leggere l’Iliade e l’Odissea, impegnandomi nel greco, anche se non faceva parte di quello che si chiede a un ragazzo delle medie inferiori. Continuavo a disegnare; il resto non mi riguardava. Che tenerezza, se ripenso a mia madre, emozionata e confusa, come una scolaretta in fallo. Perché a quel ragazzo facevano così paura quelle scarpe vuote? I testi di psicoanalisi e psicologia e i primi scritti di Freud che mi capitarono tra le mani, dapprima mi aiutarono a capire, ma subito dopo mi parvero piuttosto confondermi le idee. Quando ero troppo stanco, mi sdraiavo sul letto e pensavo ai miei boschi, alle colline, alla vecchia chiesa col campanile romanico e il pulpito barocco, che oggi hanno rubato, dal quale il prevosto di allora faceva strane prediche, che io ascoltavo con attenzione. Verso quell’uomo non avevo atteggiamenti di superiorità: ascoltavo i suoi lunghi sermoni, seduto nella chiesa fresca, dove stavo con qualche vecchia dal velo nero sul capo. Con la bocca biascicavano preghiere in un latino assurdo e inverosimile, malgrado avessi cercato di insegnar loro come dire quelle parole in quella lingua sconosciuta, nel tentativo, che ancora non so se definire sciocco o giusto, di correggerle. In quel paese avevo i miei amici, quelli con i quali parlavo, di cui ero geloso; ma anche con loro non potevo stare a lungo: ero troppo timido e troppo saccente.

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Più avanti, incontrai insegnanti che ebbero il mio amore e la mia stima e, al liceo, un compagno, un ragazzo molto bello, mi parlò di politica. Rimasi esterrefatto: avevo letto Adamo Smith e Carlo Marx, che per me erano filosofi, persone che avevano detto cose interessantissime, ma la politica, le riunioni del partito, militare in un partito, erano un’altra cosa. Quel mio amico era molto bello, col viso forse un po’ buffo, ma con la perfezione greca delle forme; non potei resistere al suo invito a partecipare a una riunione politica. Allora era di moda, anche più di adesso, essere di sinistra. Mio padre, il liberale, si addolorò; discutevamo a lungo, ed io ero sempre più a sinistra, e non ero più così solo. In quel tempo, mi cadde addosso il dovere dei rapporti sessuali: bisognava avere una ragazza, o, meglio ancora: bisognava avere le ragazze. Io ebbi la mia ragazza e poi, tranquillamente ebbi le ragazze, come gli altri. Ormai conoscevo bene anche la psicoanalisi e volli sottopormi anch’io a questo «trattamento». Mi piace dire «trattamento», un termine ambiguo, che va anche bene per una cura di bellezza. Successivamente incontrai l’ospedale psichiatrico: stanzoni enormi, camicie di forza e catene, i matti, con la loro sofferenza e la loro allegria. Io ero al primo anno di università, eppure potevo fare tutto in quell’ospedale, in cui passavo lunghi pomeriggi d’inverno, al freddo, immerso nei cattivi odori; poi tornavo a casa e temevo di essere schizofrenico anch’io. Andai dallo psichiatra col quale stavo lavorando e gli dissi: «Ho paura di essere matto». Si mise a ridere e rispose: «Alla tua età, anch’io». Adesso non so dire se riuscì a calmarmi, lì per lì, fui comunque più tranquillo. Ma quei rapporti con la gente del manicomio mi entrarono dentro ed io entravo dentro quei labirinti della mente in cui non mi sapevo muovere nonostante i molti libri letti e la poca analisi fatta. Ero disorientato: per fortuna c’erano la musica e il teatro!
Scrivevo per il teatro e cantavo nei cabaret di Milano (anche quelli erano di moda, allora) le mie mani saltellavano allegre sui tasti di neri pianoforti a coda, nelle sere milanesi: bevevo whisky e cantavo. Una canzone fra le tante, quella che preferivo tra tutte, cominciava con queste parole: «Ballava nuda fino all’ombelico….»; aveva molto successo. Fu una parentesi, poi mi rituffai nella musica «seria» e nel teatro.
Io e i miei amici trovammo nella biblioteca comunale di Torino un vecchio testo scritto da un notaio piemontese del Settecento: un libretto d’opera, fatto per prendere in giro l’opera seria del tempo, affollata di dèi e di eroi greci e romani; composi la musica per quell’operina, ironizzando i modi musicali come l’autore del testo aveva fatto per quelli letterari. Ci furono anche i tempi della ricerca sulla musica folcloristica, sui canti popolari del Piemonte. Un periodo della mia vita pieno di impegni con lo spettacolo, fatto di notti insonni, di ore spese a risolvere problemi di orchestrazione, di contrappunto, di armonizzazione.
Una donna, ricoverata nell’ospedale, mangiava soltanto se aveva me al fianco. Un
mattino -mi aveva raccontato – in cui avrebbe voluto fare la comunione, d’improvviso
aveva visto formarsi e poi fluttuare nell’aria un grande globo gelatinoso; dentro quel globo c’era il suo fidanzato, morto qualche anno prima, durante il servizio di leva. Inaspettatamente il globo le era entrato nella bocca aperta e lei lo aveva inghiottito. Era corsa dal prete spaventata a domandargli: «Posso fare lo stesso la comunione, adesso che ho mangiato il mio fidanzato?» Fu portata al manicomio. Ma nessuno si era curato di rispondere alla sua domanda e perciò mi fu molto grata quando le dissi che, secondo me, sì, avrebbe potuto ugualmente fare la comunione: «Così avrei potuto – mi disse -; se avessi fatto la comunione, non mi avrebbero portato qui dentro». Parlavamo a lungo insieme, seduti nello stanzone coi finestroni alti, sbarrati da arcigne inferriate. Un giorno quella ragazza, non so perché, guarì e tornò al paese. Per un po’ mi mandò qualche cartolina, poi non ne seppi più nulla. C’era un ragazzo, terrorizzato dalla vista di una scarpa vuota, non calzata da un piede. Ero venuto in visita a Roma, per la prima volta, al tempo delle scuole medie, insieme con mio padre, mia madre e mio fratello. Sul Campidoglio ricordo di aver detto: «Chissà perché non si possono scegliere i genitori e la città in cui si nasce». I miei si arrabbiarono, ma appena un po’: mio padre era liberale e mia madre era spensierata. Quel giorno avevo detto a me stesso: «Cambierò città, un giorno verrò a vivere qui, perché Roma è troppo bella». Più tardi mi innamorai anche di Parigi e rimasi per un po’ in bilico, incerto tra le due capitali. Le mie esplorazioni in rue St. Jacques mi eccitavano, e sentivo il fascino di quella lingua così bella, che mi suonava in bocca e mi sembrava dire cose più argute, meno convenzionali: Edipo, Freud, i grossi nomi della psicoanalisi parigina. Basta; ero stanco di restare a Torino. Ma … Parigi o Roma? Scelsi Roma, per molte ragioni, mi ricordai anche di quel mattino sul Campidoglio. A Roma, inoltre, avevo contatti che mi permettevano di completare i miei studi di composizione musicale.

3

Renzo ed io arrivammo a Roma un mattino, molto presto, dopo aver sbagliato treno: dovevamo arrivare alle otto e invece erano le cinque. La pensione che avevamo prenotato era ancora chiusa; trascinando un grande valigione, andammo a pia77a Navona, al bar dei Tre Scalini. Mia madre aveva pianto appena un poco quando l’avevo salutata dalla porta dell’ascensore; era novembre; le avevo assicurato che saremmo tornati a trovarla per Natale. Mio padre, il liberale, non c’era più. Mia madre in seguito perdonò, mio fratello no. Facemmo arrivare i libri e il pianoforte e ci installammo in un appartamentino in Trastevere in un vicolo attraversato dai panni stesi ad asciugare tra una finestra e l’altra. Un vecchietto che fumava la pipa sull’uscio di casa levava un fumo così intenso da far chiudere le finestre a noi che eravamo al piano sopra. Era tanto tempo fa!
Cominciammo, Renzo ed io, a scrutare Roma, nelle sue pieghe più misteriose: piazze, chiese, vicoli e avventure sessuali. La sera cenavamo nell’osterie all’aperto. Più tardi ci spostammo in una bella casa sul Gianicolo, col salone che si affacciava su di un grande giardino, arredata con tanti mobili antichi che la contessa da cui
affittavamo aveva lasciato, insieme con lo stemma sul cancello di casa. Per un po’ accantonai i miei interessi artistici, salvo che per le commissioni di lavoro che ancora mi arrivavano da Torino: testi e musiche che con diligenza artigianale e per economica precauzione scrivevo e spedivo. Tutta la mia attenzione era concentrata sulla psicoanalisi. Incontrai molte persone, poi un gruppo. Qualcuno mi fu utile, una persona mi fu utilissima. Un ambulatorio medico cercava uno psicologo: lì incontrai alcuni ragazzi e ragazze, protervi, ingenui e disorientati. Renzo ed io continuavamo a sentirci un po’ soli in questa Roma, così grande e bella, in cui però avevamo quasi solo contatti di lavoro e di studio o avventure di letto. Questi erano ragazzi che facevano una vita «normale», erano di sinistra, tutti in costumi. Ci innamorammo reciprocamente e incominciammo a parlare di psicoanalisi: erano quasi tutti studenti di medicina e psicologia. Ma di quale psicoanalisi si poteva parlare? La mia? Quella di Freud? Mi guardavano affascinati e diffidenti: di quale utilità poteva essere, per loro, così di sinistra, una psicoanalisi tanto «borghese» come quella freudiana? Dissi un giorno: «Cosa vogliamo fare di noi stessi? Io metto in comune quello che so; cerchiamo, insieme, di andare oltre.» Aggiunsi, per essere chiaro: «È una strada pericolosa, per me e per voi». Prima delle riunioni andavo al bar, prendevo un gelato e poi una camomilla, perché avevo bisogno di calmarmi: ero teso, anzi, agitato. Stavo contraddicendo il padre Freud, avevo paura, per me, ma, soprattutto, per loro. Dove stavamo andando, dove li stavo portando?
Un pomeriggio, seduto su di una panchina, davanti a S. Pietro in Montorio, mentre dettavo musica a Renzo, una musica richiestami da certi antichi committenti di Milano, mi fermai e gli dissi: «Perché mi sono avventurato per questa strada? Perché non siamo rimasti a lavorare con musica e teatro, e, soprattutto, perché ho abbandonato la psicoanalisi classica? Era vecchia, cigolante, anche un po’ ridicola, ma quanto rassicurante! Penso alla mia analisi, che sento incompleta, al mio supervisore che ancora stimo, che però mi appare così ingenuo e inesperto coi suoi consigli. L’Edipo di Sofocle supera i secoli e si smarrisce in Zeus, l’Edipo di Freud è un piccolo borghese, che si sente sano quando ha il coraggio di accendere un mutuo per comprare un appartamento con doppi servizi». Alle nostre spalle c’era la facciata del Caprina, dentro la chiesa il Pomarancio, nel cortile, il tempietto del Bramante, tutt’intorno l’aria di Roma. Renzo, con ironia e, sono certo, con intenzione, mi disse: «Hai lasciato il contrabbasso a metà battuta… poi ti dimentichi, fai confusione e litighiamo». Quella per me fu una risposta. Presi una decisione che tuttora ritengo valida: scegliere la musica come salute e «Lui» come supervisore.

4

Non ebbi più vergogna della neurologia e della psichiatria e non mi vergognai neppure più di Sigmund Freud, ripercorsi tutto quello che avevo studiato, rilessi Freud e gli altri. Decisi di ricominciare a fare lo psicoanalista: ritornai a Parigi, ma ci andai per imparare e per riportare a Roma quello che ci avrei trovato. I ragazzi erano intorno a me: studiavamo, discutevamo e lentamente ci innamoravamo gli uni degli altri. Insieme avemmo il coraggio di scegliere, rischiando. Non parlavo di certezze, non ero in grado di dire cosa fosse la salute, ma già sapevo che cosa era la malattia: era la viltà serpeggiante, questa sessualità stupida e imposta, la liberazione senza libertà, quelle rimozioni che cancellavano alcune parti dell’uomo, le più belle che l’essere umano possa esprimere. La scuola, la psicoanalisi, i giornali, la televisione, le manifestazioni, il femminismo, cercavano di castrare uomini e donne, per inserirli in un mondo di banalità e di falsa coscienza; un nuovo perbenismo si stava sovrapponendo al vecchio. Mi seguirono, mi scelsero per quel che ero. Non avevano – mentre ora li hanno – neppure gli strumenti critici per giudicare la mia preparazione. Mi scelsero e basta. Di questo sarò loro grato per sempre. Incominciò di qui la mia vera guarigione, per opera del loro amore, grazie al loro adolescenziale coraggio. All’inizio fu soprattutto un lavoro di analisi di gruppo: li sentivo intorno a me, a volte allegri, a volte disperati e mi si chiariva poco a poco cosa fosse la salute, quali fossero i mezzi per raggiungerla. Si passò alle analisi individuali e questo fu un progresso decisivo per la mia guarigione: nell’isolamento dello studio, in un rapporto a tu per tu, divennero spietati con me. «In analisi bisogna dire tutto». Me lo dissero fino in fondo. Io cercavo di rimanere abbarbicato alle vecchie nozioni, che credevo di avere acquisito bene e per sempre: me le distrussero una dopo l’altra. Dicevano tutto quello che passava loro per la mente, sul mio conto. «Questa è la regola fondamentale: dire tutto». Fu davvero terribile; mi amavano intensamente, ma non avevano un briciolo di pietà. Distrussero tutto intorno a me. Rimasi senza punti di ri- ferimento, come abbacinato. Lasciai anche la musica e il teatro. Dove andavo? Dove andavamo? Per la seconda volta, mi venne voglia di fuggire. Il loro amore mi trattenne; forse anche il mio sadomasochismo. Raccolsi tutto il coraggio ed andai avanti. Ricominciai a scrivere musica e, lentamente, quel senso di abbagliamento si venne smorzando. Piano piano mi stavo ricostruendo, tutto mi stava diventando più chiaro. Mi si veniva formando tra le mani, quasi senza che io lo cercassi, una tecnica precisa e coerente, che si fondava su una teoria scientifica sempre più organica, la quale, a sua volta, risultava basata su di una visione del mondo non più equivoca. Accanto a me c’erano loro, di fronte a noi c’era il mondo. Mi liberai delle banalità e della vigliaccheria, sebbene ancora senta la insidiosa minaccia. Ebbi il coraggio di curarli e, ad un certo punto, mi sentii pronto ad addossarmi i1 peso di essere il loro maestro.

5

Già da tempo ci eravamo tuffati nella lotta. Ricordo il vecchio ospedale psichiatrico di S. Maria della Pietà: loro ed io insieme scalmanati ed entuasiasti, con tanta voglia di capire.
Da allora ebbi sempre più voglia di parlare e di scrivere, di insegnare.
La scuola fu il passo successivo ed ebbe per me e per loro un grande significato: per la prima volta, alcuni si trovarono ad essere dei «docenti» per ragazzi più giovani di loro con le speranze e le paure che loro avevano avuto. Adesso insegno con più tranquillità in quella che è la «mia» e la «nostra» scuola.
Talvolta questa sicurezza mi mette a disagio; sono infatti convinto che nessuno debba mai sentirsi troppo sicuro, se non vuole correre il rischio di rinchiudersi nell’ottusa cappa del tronfio perbenismo. Se ciò avviene il rapporto erotico con gli altri non è più possibile: Eros fugge i ben pensanti, sono i suoi nemici più accaniti.
I ben pensanti di destra di sinistra secernono una bava che cola su tutto. I ben pensanti sono i miei veri nemici: sono il diavolo.