Archivio di febbraio 1986

19 – Febbraio ‘86

sabato, 1 febbraio 1986

Dire che piazza del Popolo è una delle più belle piazze di Roma è una banalità; ma, ugualmente, è un piacere godersela, magari seduto nella veranda de Il Bolognese, storico ristorante della città turistica, artistica e arricchita. A tale godimento si accede con non poca fatica: tutto è difficile, dall’ingresso angusto all’attraversamento della sala in un bailamme da mercato rionale. I camerieri sgusciano affannati negli interstizi tra un tavolo e l’altro, sgomitando sulle teste degli avventori e ricevendo a loro volta forchettate tremende, determinati comunque anche a uccidere pur di far giungere a destinazione una portata. Per cui non stupisce più la malagrazia con cui venite serviti dopo che vi siete guadagnato il posto a tavola. Il menù elenca molti piatti, preparati, però, sciattamente e dai sapori spesso indecifrabili. Il paté sa di conservante, l’antipasto misto è desolante per i sottaceti miserevoli e solo la bottarga è accettabile. I rigatoni freschi alla bolognese sono scotti a destra e rinsecchiti a sinistra, e il ragù è peggio di quello in scatola.
I tortelloni sono peggiori dei loro fratellini tortellini, ed è meglio non dire delle lasagne verdi. Tra i secondi: il polpettone è condito con lo stesso ragù delle fettuccine, la mozzarella alla milanese e il fritto misto sono unti e bisunti. Anche i dessert sono da scordare.

Tra i vini abbiamo scelto un Frascati Superiore, veramente buono e servito a temperatura giusta e un Dolcetto di Gaja già svanito nonostante fosse dell’ 84. Per un posto a tavola ottenuto a così caro prezzo, bisogna però riconoscere che il conto non alto costituisce la non sgradevole sorpresa finale.

19 – Febbraio ‘86

sabato, 1 febbraio 1986

Romano Bilenchi ha scritto il Conservatorio di Santa Teresa nel 1940, malgrado una ripubblicazione, di cui si è avuta scarsa risonanza, nel 1973, il libro era divenuto assolutamente introvabile, meno male quindi che Rizzoli lo ha ripubblicato nel 1985, con l’aggiunta di un’appendice, in quella che dovrebbe essere un’edizione completa e definitiva (261 pagg. Lit. 20.000).

È un’opera di grande bellezza che nessuno dovrebbe ignorare tra coloro che amano leggere i libri italiani di narrativa. Mario Luzi, nell’introduzione, parla di «classicità intrinseca» di questo romanzo e noi siamo pienamente d’accordo con lui. In ogni pagina e nel complesso vi è una continua ricerca euritmica, unita a una intensa sensualità, che contagia il lettore e lo avvolge, come irretito da una malia vera e propria. La descrizione degli stati d’animo del fanciullo protagonista si propaga anche agli altri personaggi, dilatandosi ed estendendosi su cose e persone.

La trama è semplice e parla del passaggio dall’infanzia alla giovinezza di Sergio, sullo sfondo di un paesaggio di provincia italiano, segnato dalle tracce che la storia lascia al suo passaggio, negli anni intorno alla prima guerra mondiale.
Pur non essendo scritto in prima persona, l’autore fa sì che le emozioni e i sentimenti di tutti vengano filtrati attraverso la vibrante sensibilità del ragazzo. Si descrivono con minuzia calligrafica atmosfere e colori, emozioni e sapori, gustati fino in fondo, ma senza insistita pedanteria. Abbiamo notato l’assenza, in questo mondo di sensi esasperati, di ogni riferimento agli odori!

Per quel che concerne i significati, è inutile lanciarsi in bislacche interpretazioni psicoanalitiche che pure vengono ad ogni passo. Il ragazzo, personaggio che ha la grandezza e la bellezza sensuale di un piccolo eroe antico, vive una realtà sottilmente omosessuale, e ostenta, per contro, rabbiosamente e goffamente la sua determinazione eterosessuale e incestuosa. La madre di lui e la zia sono due cognate legate .da un sottile e amoroso erotismo, con slanci di amore-odio nei confronti del bambino. Tra le figure di contorno si notano una nonna, odiosa e debole nel suo finto potere e un padre, castrato e teneramente imbelle. Ogni figura, ogni paesaggio ha però una sua completezza e una sua autonomia, anche quando si affaccia appena nella vicenda, per svanire poi nel nulla.

Il diavolo in testa di Bernard Henry Lévy (ed. De Agostini, 485 pagg., Lit. 20.000) segna il passaggio alla narrativa del celebre ex maitre à penser francese. È un passaggio che fa un certo effetto, non fosse altro che per la mole del romanzo. L’aspetto monumentale non si ferma però al numero delle pagine, ma si rivela anche nella pretesa di affrontare questi ultimi quarant’anni di storia recente, non solo francese od europea. Articolato in cinque sezioni: Il diario di Matilde, L’interrogatorio di zio Jean, Le lettere di Marie, La testimonianza di Alain Paradis, Le confezioni di Benjamin, usa le forme del diario, del romanzo epistolare, del libro inchiesta, dell’autobiografia per raccontare le vicende di Benjamin C. nato a Parigi nel 1942 e – forse – morto a Gerusalemme nel 1984. Il polpettone risulta comunque avvincente, anche perché pretende di analizzare quasi tutti i fenomeni più intriganti di questo scorcio di secolo: prima il collaborazionismo, il razzismo e la resistenza francesi; poi la guerra di liberazione algerina, l’odissea palestinese in Libano, il maggio francese, il terrorismo italiano, la mafia e i servizi segreti.

Tutte cose che scottano e che portano il lettore a non guardare tanto per il sottile, noncurante di certe ingenuità un po’ grossolane, talvolta di vere e proprie menzogne e, quel che è più grave a non badare ad un’intenzione, neanche tanto sotterranea, di qualunquismo genericamente antirivoluzionario. L’affresco è quindi piuttosto un pasticcio con tanti ingredienti, non ultimi il giallo, la pornografia e il feuilleton; c’è tanto mestiere, ma ci si alza poco da terra, anzi si sente odore di zolfo.

19 – Febbraio ‘86

sabato, 1 febbraio 1986

Dobbiamo chiarire anzi tutto una cosa che riteniamo fondamentale: l’allestimento che Gabriele Lavia ha proposto sulla scena dell’Eliseo de Il diavolo e il buon Dio di J.P. Sartre è un’operazione teatrale e artistica positiva e riuscita. Anche se non sempre ci troviamo d’accordo sulle decisioni di volta in volta prese nell’adattamento del testo, pure riconosciamo che sempre viene dimostrata grande serietà professionale e la capacità di fare, in ogni momento, teatro.

Il testo sartriano è di indubbia efficacia; ricco di bagliori e di chiaroscuri, turba e coinvolge. Vi sono, è vero, tantissime parole, che però esigono la presenza del corpo, del gesto, del movimento su cui costruirsi.
A differenza di altri testi teatrali del filosofo francese, non è questo un esempio di «teatro di parola». È vero però che Sartre, talvolta, la tira un po’ per le lunghe e rischia momenti di noia e quindi anche i due farfalloni erano preparati a pagare alla cultura questo inevitabile scotto; ma la noia non l’hanno avvertita neppure per un istante.
Sartre scrisse «Il diavolo e il buon Dio» nel 1951, in tre atti e undici quadri, per dimostrare con una parabola storica che «l’assoluto sia nel bene sia nel male, approda all’unico risultato di distruggere vite umane»
Siamo nel 1500 e Worms è assediata dalle truppe dell’arcivescovo di Magonza, comandate da Goetz, spietato e crudele capitano di ventura. Il prete Heinrich, nella città assediata riceve dal vescovo morente le chiavi della città, con l’alternativa di tradire il suo popolo o di lasciare che esso, in rivolta contro il clero, uccida i suoi confratelli. Decide di tradire la città consegnando le chiavi a Goetz, ma costui rinuncia al massacro e sfida Dio stesso tramutandosi da criminale in Santo. Iniziata la sua nuova vita barando al gioco dei dadi, Goetz trova però che fare il bene è ancora più difficile che fare il male: ogni suo gesto d’amore si trasforma infatti in male per gli altri o si ritorce contro di lui. Ciononostante egli prosegue ostinato fino a fondare la sua «città del sole», costruita sull’amore e sul rifiuto della violenza. Ma la rivoluzione dei contadini spazza via la città del sole massacrando i suoi abitanti. Tenta allora la via dell’ascetismo, ma l’arrivo di Heinrich a un anno e un giorno dalla iniziale scommessa lo costringe a riconoscere l’inutilità dei suoi sforzi e ad accettare il comando della rivoluzione e il suo ruolo di uomo costretto ad uccidere altri uomini.
Nella realizzazione in due tempi di Lavia, l’efficacia drammatica della prima parte è rimasta intatta ed è indiscutibile: la filosofia sartriana diventa improvvisamente poesia e dramma. Ottimi i movimenti di massa, cui si alternano in buon contrappunto le singole figure, tutte ben evidenti, come l’Arcivescovo, interpretato da Tarcisio Branca, gesuiticamente odioso; e la figura della Madre, primo personaggio femminile, efficace ed emozionante, dei tre ruoli ricoperti da Monica Guerritore, che ne ha saputo cesellare le non molte battute con drammatica perizia; Nasty, retorico capo rivoluzionario, cui ha prestato giusti accenti e bella figura Sergio Reggi. Sempre in questa prima parte abbiamo trovato debole il personaggio di Heinrich che acquisterà poi la giusta dimensione drammatica nella seconda parte, in cui Gianni De Lellis arriva a dargli uno splendore quasi eroico.
Lavia ci presenta fin dalla sua apparizione in scena un Goetz demonicamente sgangherato, nell’anima e nel corpo. La sua intraprendenza è un seguirsi di pezzi da virtuoso, fino al calare del primo sipario. Nella seconda parte, ìl Goetz convertito in disperata lotta con il fantasma di Dio, è costruito da Lavia con astuzia, ma con discontinuità: eccessivo nei suoi bamboleggiamenti che lo fanno oscillare dalla pesantezza degli angeloni alla Dario Fo al cinguettio, poco originale, se pur divertente, delle macchiette asessuate di Paolo Poli. Quel che ci è parso più grave è però che alcune situazioni di tormentata sensualità sado-masochistica, vere e proprie esplosioni della «nausea» sartriana, sono troppo simili a fumettistiche estrapolazioni dalla «Scandalosa Gilda», qui Lavia coinvolge nel suo istrionismo anche la Guerritore che, dall’inizio alla fine, Caterina e Hilda, lo segue nel bene e nel male.
Bravi anche tutti gli altri: Sergio Doria, Giorgio Giacomin, Marcello Scuderi, Pietro Bartolini, Laura Visconti, Fabio Maraschi, Vincenzo Preziosa e tutto l’affollato seguito di Chierici, Soldati, Popolani e Baroni.
La scena di Giovanni Agostinucci è invariata dall’inizio alla fine e si serve bene delle luci per riempire con diverse atmosfere i larghi gradoni e il fondale nero, funzionali all’alternarsi di movimenti corali e solistici. I costumi di Andrea Viotti ci sono parsi adeguati per tutti, meno per il protagonista.
Concludiamo riaffermando che in questa realizzazione, traduzione e adattamento di Lavia non va comunque perduto il dramma sartiano dell’uomo guitto ed eroe alla disperata ricerca di sé.

Psicoanalisi contro n. 19 – Goccia di coccodrillo

sabato, 1 febbraio 1986

Ogni uomo inventa il proprio personaggio nel mondo, identificandosi con l’altro, con gli altri, talvolta per amore, imitando e volendo far proprie le belle cose che rendono amabile la persona desiderata; oppure per invidia, rubando, in una arida e spesso ridicola parodia, le caratteristiche dell’altro. Tutto questo serve a creare la maschera su cui si costruiscono poi altre maschere che, pur non essendo infinite, sono, per ciascuno, moltissime.

Io sono quindi il personaggio che ho inventato per me, modello imitato e parodiato da altri; mi ritrovo intorno persone che mi sono simili perché lo vogliono e altre che cercano di essere dissimili da me, ma che, ugualmente, confrontandosi, prendono qualcosa di me. Le maschere si modificano lentamente, si stratificano, si sovrappongono. La persona è la sua maschera, o meglio: le sue maschere. Le persone che mi circondano hanno, però, anche le maschere che io butto loro addosso: le mie proiezioni. A mia volta, sono condizionato dalle proiezioni altrui: se gli altri mi vogliono così, se mi sentono così, finisco per diventare così.
Tanti e tanti anni fa, quando ero insegnante nella scuola di stato – esperienza bellissima e tragica allo stesso tempo – qualcuno diceva che io ero molto cattivo: chissà se era vero! Un giorno, mi telefonò la madre di una mia allieva; mi parlava, piangendo, come si parla a un cattivo, perorando la causa di sua figlia. Io mi sentii calare addosso il costume di scena del cattivo: fui veramente cattivo. Conclusa la telefonata, me ne pentii amaramente, come tutti i coccodrilli, animali a me particolarmente sgraditi, forse proprio per la improbabile stupidaggine che circola sulla loro digestione. Eppure io amo «il buon lucertolone (goccia di coccodrillo)» (G. Lorca).

Il mondo è disperso e permeato di gocce di perfidia.
Un giorno arrivai in un luogo, preceduto dalla fama del buono e dell’eroe – ero un ragazzetto -; fui buono, un eroe stoico! Dietro la finestra della mia stanza c’era tanta nebbia e non si vedeva se non l’ombra terribile di un albero. Io ero tronfio nella mia bontà. Stavo recitando? Perché debbo disconoscere così la mia fatica e la mia sofferenza? Ero buono ed eroico.
Questo mi è capitato e ancor oggi mi capita, come capita ad ognuno, ogni giorno, ogni istante. Ma, se la mia persona è una somma di maschere, di identificazioni e di proiezioni, che vanno da me agli altri e da loro a me, io dove sono?
«Che cosa vedo però oltre i berretti e i vestiti, sotto i quali potrebbero celarsi degli automi?» (Cfr. Cartesio, Meditazioni, II, 3).

2.
Io ritengo che sia indispensabile percepire l’altro nella sua concretezza reale; questa percezione, che supera le maschere, le proiezioni e le identificazioni, io la chiamo «riconoscimento». Cosa possiamo però sperare di riconoscere, se non siamo che maschere? Talvolta penso con orrore che l’essere umano potrebbe essere allegoricamente raffigurato come la soffitta di un teatro: un luogo polveroso, dove sono ammucchiati legno, stoffa e cartapesta, maschere e costumi sparsi dappertutto, ingombro di inerti involucri, che non sono cadaveri, ma che sono inerti. Anche l’uomo mi sembra un involucro costituito dall’unione di tanti oggetti: scarpe, cappelli, brache e gonne, pronto a diventare questo o quello; ma l’essere umano non è il ripostiglio di un teatro e gli elementi non si combinano a caso: ciascuno occupa il posto che gli spetta, frutto di una storia, di esperienze che si sono sommate, di copioni che hanno costruito con coerenza quella persona che è unica e irripetibile. È vero che dietro la maschera c’è un’altra maschera e un’altra ancora; ma è anche vero che ognuno è diverso da ogni altro e il suo riconoscimento è possibile.

Riconoscere non vuol dire soltanto conoscere. Il termine «conoscere» ha un che di freddo, a meno che non sia ricondotto al suo antico significato di conoscenza come rapporto sessuale. In questo senso, allora, potrebbe coincidere col riconoscimento, che sempre comporta qualcosa si erotico, di sensuale e anche, direi, di strettamente sessuale; nel rapporto sessuale c’è infatti la possibilità di conoscere a fondo l’altro. Il riconoscimento, così inteso, non si limita quindi ai processi di analisi e di sintesi, e non è neppure solo intuizione. Riconoscere è anche tutto questo; ma io non voglio restare prigioniero di queste tre parole che hanno ingabbiato tutta la storia della gnoseologia dell’Occidente. Riconoscere è percepire l’altro che è di fronte a noi, percepirlo nella sua concretezza e nella sua realtà, o meglio in parte della sua concretezza e realtà; coglierlo nella sua diversità. Non statua inerte, ma flusso continuo, che noi andiamo modellando e che a sua volta ci modella: con amore, con odio, con rabbia, con stupidità, con più o meno attenzione; nessuno però scivola indifferente ed indenne nel mondo.

3.
Ogni rapporto, anche quello psicoanalitico, deve tendere al riconoscimento. Il paziente deve riconoscere il terapeuta e questi deve riconoscere il proprio paziente; attraverso questo riconoscimento passa la guarigione.
Noi non siamo dispersi nella pluralità delle nostre maschere perché siamo unici nella somma che risulta dal loro sovrapporsi, per cui gli altri ci possono identificare e riconoscere, e noi fare altrettanto, in un cangiare continuo che rende la vita, per fortuna, poco monotona. Il riconoscimento non avviene immediatamente, per lo più. Siamo frutti di una educazione malata perché siamo stati educati in una società malata; ma la malattia non deve inibire le nostre speranze. Soprattutto non deve castrare la nostra allegria.

Fin da subito, è possibile cercare il comportamento più sano. Sto qui accarezzando il libro che un amico mio ha appena accarezzato: un tenero amico, venuto di lontano, con la sua barba e i suoi dolci occhi, un po’ spauriti, giunto a farmi un regalo. Con il regalo, mi ha portato anche il suo corpo, i suoi sogni, le sue speranze e le sue paure. Ha accarezzato questo stesso libro che io sto accarezzando, poi si è addormentato, rasserenato dalla certezza del mio amore. Adesso lui non c’è ed io posso scrivere, confortato dal suo amore. Ci siamo riconosciuti. Tante sono le strade del riconoscimento che si intravedono nello svolgersi della cura: il paziente, all’inizio, non le vede quasi; il terapeuta vede un po’ più chiaro, osserva e scruta, col continuo timore di sbagliare. Il paziente, poco a poco, lo segue, sempre timoroso di essere espropriato.

4.
Conobbi quella famiglia per ragioni non legate alla psicoanalisi, ma per il mio mestiere di artista: un marito, una moglie, due figlie. Il marito era un uomo molto importante e molto brutto: ventre enorme e voce nasale, pontificava su tutto, parlando in continuazione; conosceva i vini e la politica estera, gli intrighi della massoneria e la letteratura contemporanea. Chiacchierava di qualunque argomento, ma prediligeva commentare i fatti di cronaca, da cui prendeva spunto per lunghi monologhi, molto filosofici e totalmente imbecilli. Era intollerabile e io non ho mai capito come facesse a parlare così vorticosamente e a mangiare nello stesso tempo. Anche le figlie parlavano tra loro, senza ascoltare il padre; parlavano di cose altrettanto sciocche, oche, persino troppo brutte per esserne consapevoli e quindi sufficientemente presuntuose.

La madre era una signora tranquilla e silenziosa; con la rabbia di chi non può parlare e la violenza contenuta e il masochismo delle persone avvezze a subire prevaricazioni. Un giorno venne da me a chiedermi un’analisi. «Ho pensato a lei, dopo tanti anni – mi disse – perché lei mi sembra uno capace di ascoltare. A casa mia parlano tutti, hanno sempre parlato tutti: mio padre, mio marito, mia madre e poi le mie figlie. Io sono sempre stata zitta». Non l’avevo infatti mai sentita parlare: quanto rancore, quanta rabbia in quella voce apparentemente mite. Quella donna mi piacque. Le dissi: «E allora?» Lei incominciò a parlare, aveva bisogno di parlare.

Mi fu subito chiaro che i suoi disagi erano molti e profondi, ma il pretesto era quello di trovare qualcuno che, sia pure per denaro, la stesse ad ascoltare. Proterva ed aggressiva e un po’ vile, quando glielo feci notare, ammise che era vero: lei voleva essere ascoltata. La sua voce, nel dirmi questo, voleva essere umile e insinuante; ma quanta aggressività, quanto sadismo in quelle labbra strette! E poi, di nuovo le parole, le parole, le parole. Si sdraiava sul divano, poi si alzava, mi puntava i suoi occhi in faccia, due occhi terribili; tornava a sdraiarsi e parlava, mi raccontava, si raccontava. La lasciai andare avanti a lungo, divertendomi anche a seguire quella vita, mezza vera e mezza inventata, che si dipanava davanti a me.

Col tempo, il suono delle sue parole si fece più secco, quella persona, che all’inizio mi aveva percepito, si stava allontanando: parlava per parlare. Soddisfaceva il rituale del pagamento, neppure direttamente con me, e poi liberava quelle sue parole. Mi parlava anche quando era sola a casa sua, in bagno o prima di addormentarsi. Parlava a me, ma io ero diventato sempre più irreale, un pretesto per poter parlare; parlare a me per parlare a nessuno. Parlare a nessuno fa paura, parlare credendo che ci sia qualcuno che non c’è fa meno paura. Io ero diventato Nessuno: Odisseo.
Fu un momento molto difficile: dovevo spezzare quel suo parlare a nessuno. Si era passati dal bisogno di parlare a qualcuno al parlare fine a se stesso. Parole vuote e inutili. Potevo intervenire con delicatezza o con brutalità; decisi di essere brutale: la attaccai, fui spietato. Si sentì improvvisamente nuda e sola. Così mi disse: «Ma ora sono nuda e sola»! Le risposi: «È ora che ci ritroviamo».

5.
Non è soltanto colpa degli altri se non riusciamo a parlare. E inutile dire che gli altri non ascoltano; è inutile accusare sempre e soltanto. È vero, però, che, spesso, si inizia un’analisi perché si ha bisogno di parlare ad una persona che abbia due caratteristiche fondamentali – positivissime – la prima, che sia pagata per rimanere lì ad ascoltare; la seconda, che debba ascoltare, perché fa parte del suo mestiere. Per costui le nostre parole diventano perciò preziose, qualunque cosa noi diciamo.
E’ facile osservare ovunque, quotidianamente, per strada, in teatro, al mercato, negli ospedali e nelle chiese che alcuni parlano e altri tacciono. Dico che tacciono, perché sarebbe scorretto dire che ascoltano: infatti pochi di quelli che tacciono ascoltano. Quelli che parlano, dal canto loro, proseguono imperterriti, convinti di essere ascoltati, e sentenziano, parlano e raccontano in continuazione.
Io conosco una persona (una sola?) che racconta ogni minimo episodio della sua giornata e che, non appena ha finito il racconto, lo riprende da capo con lo stesso interlocutore, o con un altro capitato lì per caso, e poi continua a raccontare fino a che tutti l’hanno ascoltata almeno una volta e poi ricomincia e, in mancanza di ascoltatori, lo ripete a se stessa. Dietro questo comportamento c’è una sottile angoscia per il tempo che passa. Le vorrei dire: «Amica mia, potrai raccontare anche mille volte il fatterello che ti è accaduto, sempre quel racconto avrà fine e finirà nel nulla!» Parlare può servire a rivivere, ma il tempo non può essere coagulato e fissato, né si può fermare ciò che non si può afferrare.

È fondamentale per la guarigione parlare con la consapevolezza che qualcuno ci ascolta; anche se può allora sopravvenire il timore di essere giudicati. Possono sorgere momenti critici e piccole esplosioni di delirio paranoide; ma l’analista non deve lasciarsi impressionare. Molti, per allontanarmi, dicono: «So che lei non giudica e che non dà consigli». Io rispondo che invece giudico e sono pronto a consigliare. Mi ribattono che l’analista non lo deve fare. Replico che gli altri analisti, forse, non lo fanno; ma io lo faccio. Certo, il mio giudizio sono pronto a discuterlo e i miei consigli non sono comandamenti. Io sono io ed ho il mio modo di fare l’analisi.
Il paziente sente di essere messo alle strette, di non avere più scampo e pensa: «Io parlo e lui mi ascolta. Non si limita ad interpretare asetticamente, ma giudica ed è disposto a darmi consigli». Si rivolge esterrefatto a dirmi che allora io esisto. Quindi io esisto.

6.
Indipendentemente dal problema della psicoanalisi o della psicoterapia, le persone che non ascoltano non sono quasi mai consapevoli di questo loro atteggiamento nei confronti del mondo. E’ molto brutto non essere ascoltati. Io mi sono ripromesso e l’ho giurato al mio démone di non accettare più l’amicizia di qualcuno che parli e non mi voglia ascoltare. Allontano spesso da me, con fastidio, persone che mi sommergono di parole. Se sono costretto a rimanere nella stessa stanza, lentamente mi sposto verso altri oppure, se c’è uno strumento musicale a portata di mano, mi metto a suonare, cercando di soffocare col suono il rumore di quella voce berciante. Lo dico qui esplicitamente: «Se volete soltanto parlare, non rivolgetevi a me; non voglio ascoltare chi non ha voglia di sentire anche me. Io voglio che il gioco sia a due, a tre, a cinque, tutti con la voglia di ascoltare e di parlare essendo ascoltati». Fa molta paura parlare sapendo che si è ascoltati, ed è molto difficile saper ascoltare. Il non riuscire ad ascoltare è anche considerato il sintomo di una situazione di disagio complessivo. Spesso è come se la persona dicesse: «Non riesco ad ascoltare perché la mia sofferenza è troppo profonda. I conflitti mi attanagliano. Le parole degli altri mi scivolano addosso, perché non ho interesse per il mondo; mi sembra che nulla mi possa dare stimoli piacevoli. Non so neppure più se amo le persone che amavo. Loro mi parlano e io non le ascolto».
Pochissimi però sono quelli che vogliono imparare ad ascoltare; meno ancora quelli che decidono di iniziare un’analisi per imparare ad ascoltare.

7.
Molti all’inizio della psicoterapia si rivolgono al terapeuta con aggressività e violenza, riempiono la stanza delle loro parole per impedirgli di parlare. Qualche volta, si fermano per dire, con astio: «Certo, lei non parla mai!» Poi riprendono il loro fiume di parole, terrorizzati dalla possibilità di sentirsi dire qualcosa sul loro conto. Ci sono persone che sarebbero capaci di condurre avanti l’analisi per anni, parlando sempre, pur di non permettere all’analista di proferire una sola parola. Quando l’analista incomincia a parlare, costoro rimangono sbalorditi, molte volte non capiscono subito quello che viene loro detto e se lo fanno ripetere a più riprese; poi cercano di fare come se nulla fosse stato e continuano a parlare. Questa è una situazione tipica: a tutti fa paura l’analisi e tutti hanno usato il trucco di parlare per non far parlare. Una difesa, un rifiuto, una fuga. C’era una signora che mi parlava di sé, della sua ricerca del dialogo, del suo bisogno di capire gli altri, della sua apertura verso il mondo. Era pronta ad aiutare tutti: i vicini di casa, i famigliari, i parenti, gli amici, anche lo sconosciuto incontrato sull’autobus. Venne da me, la prima volta, accompagnata da un figliolino, piccolo e grasso, con gli occhiali e i capelli a spazzola, le guance troppo rosse e gli occhi febbricitanti. Lei aveva subito iniziato a parlare, già avevo sentito la sua voce arrivare fino a me dalla strada, e poi su per le scale e in anticamera. Mi disse della sua impossibilità a non aiutare gli altri, a non lasciarsi coinvolgere. Voleva che l’aiutassi a diventare più forte. La seconda volta si fece accompagnare dal marito, sempre parlando. Aveva bisogno di qualcuno, non poteva stare sola, perché aveva paura. Proprio lei che aveva sempre aiutato gli altri e continuava a farlo, adesso aveva bisogno degli altri; ma gli altri, questo aiuto, non glielo volevano dare.
C’erano il marito e il figlio, questo sì, e qualche volta anche la suocera, loro le stavano vicino; ma la bella disponibilità che lei aveva per gli altri, ora che lei ne aveva bisogno, non era contraccambiata a sufficienza. La lasciai andare avanti, sperando che si stancasse; ma non si stancava mai. Un giorno dissi una sola frase: mi guardò esterrefatta. Non tornò mai più.

8.
C’è una persona, a me molto cara, che mi chiede continuamente consigli; però, prima che io possa cercare di darglieli mi dice: «Sai io che cosa farei?» Io rimango sorridente e tranquillo: quella persona si dice tutto da sé e spesso se ne va, convinta che io l’abbia aiutata.

Ed è così, infatti, quel mio silenzio, in quel momento, ha avuto quel significato. Poi lentamente io recupero: i consigli glieli dò veramente; ma devo farlo di straforo. Quella è una persona che si crede onnipotente. Chissà se è maschio o femmina? L’analisi, comunque, deve anche insegnare ad ascoltare. Al di là del problema della paura delle interpretazioni, chi non ascolta è profondamente malato. Le prime frasi dell’analista possono ferire o bruciare; possono anche far fuggire, se dette fuori tempo; o possono rendere il paziente così ottuso che non capirà mai più quello che l’analista avrà da dirgli. Bisogna incominciare a parlare con forza e decisione, anche se talvolta sommessamente, ma sempre con un po’ d’amore. L’analista deve stare attento a non parlare per rabbia, per affermare il proprio potere, per stupire o per ferire.
C’è anche, sempre, un momento in cui il paziente è particolarmente debole. In quel momento l’analista deve tacere, non dire nulla. Parlerà la sua presenza, il suo calore. Guai a cogliere il paziente indifeso, nel momento della sua maggior debolezza, se ne fa una vittima e non lo si aiuta ad incamminarsi per la strada della guarigione. Di carnefici di questo tipo è pieno il mondo: persone che aspettano che tu sia indebolito per ferirti con le loro parole. Questo uno psicoterapeuta non deve farlo mai. Deve parlare soltanto quando è certo che l’altro sia sufficientemente robusto per potersi ribellare, se lo decide. L’analisi deve anche essere una lotta, perché chi ha troppa paura di lottare, non solo non deve fare lo psicoanalista, ma neppure il paziente che ricerca la guarigione. Vivere significa anche lottare; qualche volta vincere e qualche volta perdere. Nell’analisi, però, analista e paziente devono vincere sempre, entrambi.

19 – Febbraio ‘86

sabato, 1 febbraio 1986

I sedici quartetti per archi di L. van Beethoven, cui va aggiunta la Grande Fuga op. 133, pur se scritti nell’arco di poco meno di trent’anni, rappresentano un percorso artistico compatto e vario allo stesso tempo e costituiscono una delle più ricche ed ammirevoli costruzioni della storia musicale dell’Occidente. In essi la sapienza compositiva si unisce perfettamente a una profondità spirituale, forse, irraggiungibile. Purtroppo, per ragioni comprensiabilissime, legate alla varia durata delle singole composizioni è impossibile presentarli, nei vari concerti, rispettando l’ordine cronologico di composizione, che pure ha grande importanza per questi quartetti, più che per altre opere dello stesso autore, dato che la struttura perfetta della forma quartettistica, con le sue nervature così visibili, rende evidente lo sviluppo del pensiero beethoveniano e il lungo lavorio creativo. Avremmo il desiderio, un po’ delirante, di poter sentire, almeno una volta, tutti i quartetti di seguito, con poche ore di pausa tra un’esecuzione e l’altra – tanto per prendere fiato -.

Apprezzabile, comunque, l’iniziativa dell’Istituzione Universitaria dei Concerti che ha scelto di offrirne al pubblico romano l’esecuzione integrale, nella interpretazione del Quartetto Academica. Mariana Sirbu e Ruxandra Cola, violini, James Creitz, viola e Mihai Dancila, violoncello, sono un insieme rumeno di eccellenti musicisti che non solo eseguono con precisione appassionata, ma sanno esprimere e chiarire quello che hanno capito, riuscendo a comunicarlo anche a coloro che sono musicalmente meno preparati.
Questo non vuol dire che le loro esecuzioni non abbiano pecche, però sono ben poca cosa rispetto alla validità del risultato complessivo. Noi vogliamo soffermare l’attenzione sul concerto del 18 gennaio all’auditorio di San Leone Magno.

Il Quartetto in Do minore Op. 18, n. 4 è stato correttamente eseguito, mettendone in risalto la fluidità e la grazia un po’ ingenua: dopo l’allegro, leggiadro, è stato espresso bene lo stupore balbettante dello scherzo con quei brandelli di semplice gioco imitativo; gradevolissimo il minuetto prima e il finale poi, ironici ed ammiccanti.

Il Quartetto in Do maggiore Op. 59 n. 3 è iniziato con due accordi eseguiti in modo splendido, come due sillabe, eco una dell’altra, la prima dolce e virile, la seconda sommessa e sfuggente, poi la ricerca sonora è continuata con attenta precisione; il secondo tempo in cui il violoncello risultava sopraffatto dagli altri strumenti, ci è parso poco equilibrato; ma l’equilibrio è stato ritrovato dagli interpreti negli altri due tempi, soprattutto nello splendido contrappunto finale, anche se ha nuociuto un’eccessiva cantabilità dei violini e una certa mancanza di vigore complessivo.

Il Quartetto in la minore Op. 132 è stato interpretato impeccabilmente e la sua bellezza formale è stata resa con maestria: si è passati dalla languida drammaticità iniziale alle belle sonorità arcaiche e meditative del secondo movimento e poi al blocco dei due movimenti conclusivi, articolatissimi, solidi, ricchi di sottile poeticità.
Nonostante l’irrequietezza di alcuni fanciullini, il pubblico assai numeroso è rimasto attento e coinvolto per tutto il concerto.

Si scendono molti scalini per arrivare alla serie di cantine collegate da ampi archi bassi dell’Alexander Platz di via Ostia 9. Molta gente ai tavoli, molta intorno alla piccola pedana, graziose forestiere servono ai tavoli muovendosi disinvoltamente tra il bancone del bar e gli avventori apparsi.

I cocktail che servono sono però cattivi, per cui dopo qualche tentativo ci fermiamo e non proviamo nemmeno a inoltrarci nelle sfiziosità gastronomiche che, pure sono proposte in quantità, sulla lista, con oscillazioni dal romanesco al messicano. Avremmo voluto ascoltare Lino Patruno e i suoi ragazzi nel loro Jazz Show, ma la cosa è risultata assai faticosa. Non solo nessun altro tra i presenti sembrava aver l’aria di ascoltare, ma le loro voci erano così preponderanti sui suoni della band che… E vero che nella tradizione di questo tipo di musica e di posti è previsto che si possa talvolta allentare l’attenzione per fare quattro chiacchiere con gli amici, sorseggiando in pace un whisky o affini, lasciando che la tromba faccia il suo a-solo corteggiata solo dal contrabbasso; però è anche tipico di queste serate vivere momenti di intenso trasporto, in magica comunicazione con gli strumenti e gli esecutori, tesi e sospesi fino all’applauso liberatorio. Forse il gruppo di Patruno non era in sintonia coi presenti! Aguzzando l’orecchio noi abbiamo percepito una musica assai molle, priva di originalità, se pure eseguita in modo non scorretto. La noia aveva il sopravvento malgrado Patruno stesso, si sforzasse di mostrare un po’ di grinta aggressiva.

Confessiamo di non avere resistito fino in fondo e di aver lasciato presto il fumo e le speranze, allontanandoci un po’ irritati e malinconici.

19 – Febbraio ‘86

sabato, 1 febbraio 1986

Come se

L’unica possibilità che non stia per scoppiare la guerra sta forse nel fatto che la guerra non è mai finita, solo che gli scrittori dell’apocalisse e i futurologi del “day after” non si sono accorti di essere stati superati dagli eventi e di essere intanto divenuti archeologi senza saperlo.
I disastri atomici appartengono già al passato e la specie è stata irrimediabilmente corrotta. Torme di replicanti ripetono tutti i giochi possibili, ma nessuno rispetta le regole del gioco.
Tra i giochi più diffusi c’è quello di fare “come se…”: come se la rivoluzione riguardasse più da vicino i ragazzi dell’ottantacinque… come se il razzismo discriminasse soltanto i negri dei ghetti sudafricani… come se quello della patria fosse un problema solo dei palestinesi… come se il terrorismo mietesse vittime solo negli aeroporti.

Anche la psicoanalisi va in giro ad esibire se stessa come se fosse capace di guarire.
Mentre il problema oggi non è quello di essere sani, ma quello piuttosto di conoscere di quale male si sta morendo.
Freud ebbe la consapevolezza, forse, di stare portando al mondo una peste, ma si rese certamente conto di non contaminare un mondo pieno di salute. Forse domani la moda sarà cambiata e la psicoanalisi – anche quella gindriana – sarà un reperto fossile, del resto non è più, questo, il tempo della filosofia perenne.

Le vecchie generazioni mostrano di provare vergogna per le nefandezze mostruose che hanno saputo commettere, ma ci vuole poco ad accorgersi che le nuove leve non sono migliori.
Il qualunquismo non è mai stato molto apprezzato eppure di qualunquismo soltanto si finisce per campare.
Per questo è consigliale restare incatenati all’oggi e diffidare dei guerrieri che lottano con troppa convinzione per un domani migliore…

Se domani il sole sorgerà ancora, brillerà su quello che stiamo costruendo qui e adesso.
Una vita tolta, un dolore procurato, una prevaricazione, sono gesti irrimediabili e bisogna avere una grande presunzione di sé, per giustificarli con ispirati messianesimi. La speranza non può nascere dalla disperazione di qualcuno.
Tanto vale far finta consapevolmente che il male del mondo non sia così definitivo, non con la speranza di fondare la città del sole, ma con la consolazione che può venire da Eros e Ironia, insieme ai quali può essere men duro il prezzo di strada che pur ci tocca fare.
Come se l’essere umano che è in ciascuno di noi e di quelli intorno a noi potesse rappresentare veramente il fine e il mezzo, oltre ogni contraddizione. Come se il gioco valesse la candela.

19 – Febbraio ‘86

sabato, 1 febbraio 1986

La mostra di Gentilini (1909-1981) a palazzo Venezia, segue, attraverso un percorso cronologico, l’evolversi esistenziale ed artistico del pittore di Faenza, lavoratore infaticabile. Nella sua pittura nulla è buttato via, niente è messo lì per stupire. Con un linguaggio personale e magari un po’ ovvio Gentilini, se pure non dà grandi emozioni, propone le suggestioni, i personali ripensamenti, le citazioni, le ingenuità di un artista che ha vissuto in pieno il suo tempo. Chagall e il cubismo, De Chirico e Dubuffet sono i nomi che più scopertamente vengono fuori. Forse è vero che lui avrebbe invece voluto richiamarsi con più precisione agli antichi, ma non gli riesce: Piero della Francesca e Giotto sono lontani con il loro erculeo e potente slancio divino. Franco Gentilini è troppo piccolo per essere loro accostato; caso mai c’è in lui la traccia della antica tradizione dei ceramisti, artigiani, come lui, di grande polso e di segno sicuro.
Certo, si rimane affascinati di fronte a quella Piazza S. Pietro del 1948, dove la deformazione prospettica e la suggestione cubista non inquinano l’originalità di una meravigliata ammirazione e di una festosità cromatica che commuovono. Altrettanto si può dire per la lunga serie dei paesaggi di città, con monumenti e cattedrali, talvolta riconoscibili; ma più spesso elementi di una città fantastica, che appartiene al suo creatore, sia Ferrara o Cremona, Roma o Manhattan, Brooklyn o Monreale. A queste si contrappongono tratti e ritratti che non sembrano tanto trasfigurazioni di una realtà, quanto piuttosto spoetizzate incrostazioni e ripetizioni di moduli, come la serie dei Banchetti bianchi e neri e i collages.

Ampiamente documentata è anche l’opera grafica, che non aggiunge molto alla comprensione di un artista che ha il suo punto di forza nella positività costante di un fecondo prodigarsi di geniale artigiano.

Ogni epoca produce le proprie stupidaggini e, in ogni tempo, qualche forma di spazzatura viene esaltata come opera d’arte. Noi che, forse, siamo un po’ troppo semplici, ci ritroviamo assai spesso a dire: «Ma l’imperatore è in mutande! ».
Alberto Burri, medico, nato a Città di Castello nel 1915, è entrato da tempo nel panorama dell’arte italiana contemporanea. La sua prima mostra risale infatti al 1947 e nel 1952 è consacrato da una personale nel tempio romano dell’arte contemporanea: la galleria l’Obelisco e dall’invito alla XXVI biennale di Venezia. Da allora la sua carriera non conosce soste: prima sono i vecchi sacchi sbrindellati, poi i legni e le plastiche bruciati e i ferri, poi ancora i «cretti» e i cellotex. Da Los Angeles a Kassel, da Monaco di Baviera a Nizza tutti fingono di ammirare quello che non c’è. Grandi critici e persone psichicamente labili e un po’ ignoranti si estasiano e dissertano sulle vacue «cose» che il dottore va mostrando loro.
Due sacchi sbrindellati non esprimono per niente la disperazione e la lacerazione del mondo, restano solo sacchi rotti.

Oggi Roma torna a pagare l’obolo qualunquista a Burri con due mostre: una alla Galleria Sprovieri di Piazza del Popolo, dove sono esposti undici quadrangoli neri. Qui il nero si assomma al più nero o si sottrae al meno nero attraverso un Annottarsi della ragione in una trivialità pericolosa perché distoglie dalla riflessione. Contemporaneamente alla galleria A.A.M. di via del Vantaggio 12 sono esposti Le opere e i giorni/lo spazio/la scena/le opere 1969-1985 dove si possono vedere gli originali dei bozzetti di vari interventi di Burri a Città di Castello, ad Assisi, a Firenze, il Teatro da realizzare a Palazzo Di Arcevia, il grande Cretto per Gibellina nel Belice e le scenografie per il Tristano e Isotta del regio di Torino del 1975 e per la non avvenuta rappresentazione de «L’avventura di un povero cristiano» di Silone. Cose poco giudicabili queste, viste così «in nuce». Per quel che riguarda l’opera wagneriana l’intervento di Burri, pare però essere ben poca cosa, se lo si confronta con la grandezza della musica cui si rivolge, però…