19 – Febbraio ‘86

febbraio , 1986

I sedici quartetti per archi di L. van Beethoven, cui va aggiunta la Grande Fuga op. 133, pur se scritti nell’arco di poco meno di trent’anni, rappresentano un percorso artistico compatto e vario allo stesso tempo e costituiscono una delle più ricche ed ammirevoli costruzioni della storia musicale dell’Occidente. In essi la sapienza compositiva si unisce perfettamente a una profondità spirituale, forse, irraggiungibile. Purtroppo, per ragioni comprensiabilissime, legate alla varia durata delle singole composizioni è impossibile presentarli, nei vari concerti, rispettando l’ordine cronologico di composizione, che pure ha grande importanza per questi quartetti, più che per altre opere dello stesso autore, dato che la struttura perfetta della forma quartettistica, con le sue nervature così visibili, rende evidente lo sviluppo del pensiero beethoveniano e il lungo lavorio creativo. Avremmo il desiderio, un po’ delirante, di poter sentire, almeno una volta, tutti i quartetti di seguito, con poche ore di pausa tra un’esecuzione e l’altra – tanto per prendere fiato -.

Apprezzabile, comunque, l’iniziativa dell’Istituzione Universitaria dei Concerti che ha scelto di offrirne al pubblico romano l’esecuzione integrale, nella interpretazione del Quartetto Academica. Mariana Sirbu e Ruxandra Cola, violini, James Creitz, viola e Mihai Dancila, violoncello, sono un insieme rumeno di eccellenti musicisti che non solo eseguono con precisione appassionata, ma sanno esprimere e chiarire quello che hanno capito, riuscendo a comunicarlo anche a coloro che sono musicalmente meno preparati.
Questo non vuol dire che le loro esecuzioni non abbiano pecche, però sono ben poca cosa rispetto alla validità del risultato complessivo. Noi vogliamo soffermare l’attenzione sul concerto del 18 gennaio all’auditorio di San Leone Magno.

Il Quartetto in Do minore Op. 18, n. 4 è stato correttamente eseguito, mettendone in risalto la fluidità e la grazia un po’ ingenua: dopo l’allegro, leggiadro, è stato espresso bene lo stupore balbettante dello scherzo con quei brandelli di semplice gioco imitativo; gradevolissimo il minuetto prima e il finale poi, ironici ed ammiccanti.

Il Quartetto in Do maggiore Op. 59 n. 3 è iniziato con due accordi eseguiti in modo splendido, come due sillabe, eco una dell’altra, la prima dolce e virile, la seconda sommessa e sfuggente, poi la ricerca sonora è continuata con attenta precisione; il secondo tempo in cui il violoncello risultava sopraffatto dagli altri strumenti, ci è parso poco equilibrato; ma l’equilibrio è stato ritrovato dagli interpreti negli altri due tempi, soprattutto nello splendido contrappunto finale, anche se ha nuociuto un’eccessiva cantabilità dei violini e una certa mancanza di vigore complessivo.

Il Quartetto in la minore Op. 132 è stato interpretato impeccabilmente e la sua bellezza formale è stata resa con maestria: si è passati dalla languida drammaticità iniziale alle belle sonorità arcaiche e meditative del secondo movimento e poi al blocco dei due movimenti conclusivi, articolatissimi, solidi, ricchi di sottile poeticità.
Nonostante l’irrequietezza di alcuni fanciullini, il pubblico assai numeroso è rimasto attento e coinvolto per tutto il concerto.

Si scendono molti scalini per arrivare alla serie di cantine collegate da ampi archi bassi dell’Alexander Platz di via Ostia 9. Molta gente ai tavoli, molta intorno alla piccola pedana, graziose forestiere servono ai tavoli muovendosi disinvoltamente tra il bancone del bar e gli avventori apparsi.

I cocktail che servono sono però cattivi, per cui dopo qualche tentativo ci fermiamo e non proviamo nemmeno a inoltrarci nelle sfiziosità gastronomiche che, pure sono proposte in quantità, sulla lista, con oscillazioni dal romanesco al messicano. Avremmo voluto ascoltare Lino Patruno e i suoi ragazzi nel loro Jazz Show, ma la cosa è risultata assai faticosa. Non solo nessun altro tra i presenti sembrava aver l’aria di ascoltare, ma le loro voci erano così preponderanti sui suoni della band che… E vero che nella tradizione di questo tipo di musica e di posti è previsto che si possa talvolta allentare l’attenzione per fare quattro chiacchiere con gli amici, sorseggiando in pace un whisky o affini, lasciando che la tromba faccia il suo a-solo corteggiata solo dal contrabbasso; però è anche tipico di queste serate vivere momenti di intenso trasporto, in magica comunicazione con gli strumenti e gli esecutori, tesi e sospesi fino all’applauso liberatorio. Forse il gruppo di Patruno non era in sintonia coi presenti! Aguzzando l’orecchio noi abbiamo percepito una musica assai molle, priva di originalità, se pure eseguita in modo non scorretto. La noia aveva il sopravvento malgrado Patruno stesso, si sforzasse di mostrare un po’ di grinta aggressiva.

Confessiamo di non avere resistito fino in fondo e di aver lasciato presto il fumo e le speranze, allontanandoci un po’ irritati e malinconici.