19 – Febbraio ‘86

febbraio , 1986

La mostra di Gentilini (1909-1981) a palazzo Venezia, segue, attraverso un percorso cronologico, l’evolversi esistenziale ed artistico del pittore di Faenza, lavoratore infaticabile. Nella sua pittura nulla è buttato via, niente è messo lì per stupire. Con un linguaggio personale e magari un po’ ovvio Gentilini, se pure non dà grandi emozioni, propone le suggestioni, i personali ripensamenti, le citazioni, le ingenuità di un artista che ha vissuto in pieno il suo tempo. Chagall e il cubismo, De Chirico e Dubuffet sono i nomi che più scopertamente vengono fuori. Forse è vero che lui avrebbe invece voluto richiamarsi con più precisione agli antichi, ma non gli riesce: Piero della Francesca e Giotto sono lontani con il loro erculeo e potente slancio divino. Franco Gentilini è troppo piccolo per essere loro accostato; caso mai c’è in lui la traccia della antica tradizione dei ceramisti, artigiani, come lui, di grande polso e di segno sicuro.
Certo, si rimane affascinati di fronte a quella Piazza S. Pietro del 1948, dove la deformazione prospettica e la suggestione cubista non inquinano l’originalità di una meravigliata ammirazione e di una festosità cromatica che commuovono. Altrettanto si può dire per la lunga serie dei paesaggi di città, con monumenti e cattedrali, talvolta riconoscibili; ma più spesso elementi di una città fantastica, che appartiene al suo creatore, sia Ferrara o Cremona, Roma o Manhattan, Brooklyn o Monreale. A queste si contrappongono tratti e ritratti che non sembrano tanto trasfigurazioni di una realtà, quanto piuttosto spoetizzate incrostazioni e ripetizioni di moduli, come la serie dei Banchetti bianchi e neri e i collages.

Ampiamente documentata è anche l’opera grafica, che non aggiunge molto alla comprensione di un artista che ha il suo punto di forza nella positività costante di un fecondo prodigarsi di geniale artigiano.

Ogni epoca produce le proprie stupidaggini e, in ogni tempo, qualche forma di spazzatura viene esaltata come opera d’arte. Noi che, forse, siamo un po’ troppo semplici, ci ritroviamo assai spesso a dire: «Ma l’imperatore è in mutande! ».
Alberto Burri, medico, nato a Città di Castello nel 1915, è entrato da tempo nel panorama dell’arte italiana contemporanea. La sua prima mostra risale infatti al 1947 e nel 1952 è consacrato da una personale nel tempio romano dell’arte contemporanea: la galleria l’Obelisco e dall’invito alla XXVI biennale di Venezia. Da allora la sua carriera non conosce soste: prima sono i vecchi sacchi sbrindellati, poi i legni e le plastiche bruciati e i ferri, poi ancora i «cretti» e i cellotex. Da Los Angeles a Kassel, da Monaco di Baviera a Nizza tutti fingono di ammirare quello che non c’è. Grandi critici e persone psichicamente labili e un po’ ignoranti si estasiano e dissertano sulle vacue «cose» che il dottore va mostrando loro.
Due sacchi sbrindellati non esprimono per niente la disperazione e la lacerazione del mondo, restano solo sacchi rotti.

Oggi Roma torna a pagare l’obolo qualunquista a Burri con due mostre: una alla Galleria Sprovieri di Piazza del Popolo, dove sono esposti undici quadrangoli neri. Qui il nero si assomma al più nero o si sottrae al meno nero attraverso un Annottarsi della ragione in una trivialità pericolosa perché distoglie dalla riflessione. Contemporaneamente alla galleria A.A.M. di via del Vantaggio 12 sono esposti Le opere e i giorni/lo spazio/la scena/le opere 1969-1985 dove si possono vedere gli originali dei bozzetti di vari interventi di Burri a Città di Castello, ad Assisi, a Firenze, il Teatro da realizzare a Palazzo Di Arcevia, il grande Cretto per Gibellina nel Belice e le scenografie per il Tristano e Isotta del regio di Torino del 1975 e per la non avvenuta rappresentazione de «L’avventura di un povero cristiano» di Silone. Cose poco giudicabili queste, viste così «in nuce». Per quel che riguarda l’opera wagneriana l’intervento di Burri, pare però essere ben poca cosa, se lo si confronta con la grandezza della musica cui si rivolge, però…