19 – Febbraio ‘86

febbraio , 1986

Romano Bilenchi ha scritto il Conservatorio di Santa Teresa nel 1940, malgrado una ripubblicazione, di cui si è avuta scarsa risonanza, nel 1973, il libro era divenuto assolutamente introvabile, meno male quindi che Rizzoli lo ha ripubblicato nel 1985, con l’aggiunta di un’appendice, in quella che dovrebbe essere un’edizione completa e definitiva (261 pagg. Lit. 20.000).

È un’opera di grande bellezza che nessuno dovrebbe ignorare tra coloro che amano leggere i libri italiani di narrativa. Mario Luzi, nell’introduzione, parla di «classicità intrinseca» di questo romanzo e noi siamo pienamente d’accordo con lui. In ogni pagina e nel complesso vi è una continua ricerca euritmica, unita a una intensa sensualità, che contagia il lettore e lo avvolge, come irretito da una malia vera e propria. La descrizione degli stati d’animo del fanciullo protagonista si propaga anche agli altri personaggi, dilatandosi ed estendendosi su cose e persone.

La trama è semplice e parla del passaggio dall’infanzia alla giovinezza di Sergio, sullo sfondo di un paesaggio di provincia italiano, segnato dalle tracce che la storia lascia al suo passaggio, negli anni intorno alla prima guerra mondiale.
Pur non essendo scritto in prima persona, l’autore fa sì che le emozioni e i sentimenti di tutti vengano filtrati attraverso la vibrante sensibilità del ragazzo. Si descrivono con minuzia calligrafica atmosfere e colori, emozioni e sapori, gustati fino in fondo, ma senza insistita pedanteria. Abbiamo notato l’assenza, in questo mondo di sensi esasperati, di ogni riferimento agli odori!

Per quel che concerne i significati, è inutile lanciarsi in bislacche interpretazioni psicoanalitiche che pure vengono ad ogni passo. Il ragazzo, personaggio che ha la grandezza e la bellezza sensuale di un piccolo eroe antico, vive una realtà sottilmente omosessuale, e ostenta, per contro, rabbiosamente e goffamente la sua determinazione eterosessuale e incestuosa. La madre di lui e la zia sono due cognate legate .da un sottile e amoroso erotismo, con slanci di amore-odio nei confronti del bambino. Tra le figure di contorno si notano una nonna, odiosa e debole nel suo finto potere e un padre, castrato e teneramente imbelle. Ogni figura, ogni paesaggio ha però una sua completezza e una sua autonomia, anche quando si affaccia appena nella vicenda, per svanire poi nel nulla.

Il diavolo in testa di Bernard Henry Lévy (ed. De Agostini, 485 pagg., Lit. 20.000) segna il passaggio alla narrativa del celebre ex maitre à penser francese. È un passaggio che fa un certo effetto, non fosse altro che per la mole del romanzo. L’aspetto monumentale non si ferma però al numero delle pagine, ma si rivela anche nella pretesa di affrontare questi ultimi quarant’anni di storia recente, non solo francese od europea. Articolato in cinque sezioni: Il diario di Matilde, L’interrogatorio di zio Jean, Le lettere di Marie, La testimonianza di Alain Paradis, Le confezioni di Benjamin, usa le forme del diario, del romanzo epistolare, del libro inchiesta, dell’autobiografia per raccontare le vicende di Benjamin C. nato a Parigi nel 1942 e – forse – morto a Gerusalemme nel 1984. Il polpettone risulta comunque avvincente, anche perché pretende di analizzare quasi tutti i fenomeni più intriganti di questo scorcio di secolo: prima il collaborazionismo, il razzismo e la resistenza francesi; poi la guerra di liberazione algerina, l’odissea palestinese in Libano, il maggio francese, il terrorismo italiano, la mafia e i servizi segreti.

Tutte cose che scottano e che portano il lettore a non guardare tanto per il sottile, noncurante di certe ingenuità un po’ grossolane, talvolta di vere e proprie menzogne e, quel che è più grave a non badare ad un’intenzione, neanche tanto sotterranea, di qualunquismo genericamente antirivoluzionario. L’affresco è quindi piuttosto un pasticcio con tanti ingredienti, non ultimi il giallo, la pornografia e il feuilleton; c’è tanto mestiere, ma ci si alza poco da terra, anzi si sente odore di zolfo.