Psicoanalisi contro n. 19 – Goccia di coccodrillo

febbraio , 1986

Ogni uomo inventa il proprio personaggio nel mondo, identificandosi con l’altro, con gli altri, talvolta per amore, imitando e volendo far proprie le belle cose che rendono amabile la persona desiderata; oppure per invidia, rubando, in una arida e spesso ridicola parodia, le caratteristiche dell’altro. Tutto questo serve a creare la maschera su cui si costruiscono poi altre maschere che, pur non essendo infinite, sono, per ciascuno, moltissime.

Io sono quindi il personaggio che ho inventato per me, modello imitato e parodiato da altri; mi ritrovo intorno persone che mi sono simili perché lo vogliono e altre che cercano di essere dissimili da me, ma che, ugualmente, confrontandosi, prendono qualcosa di me. Le maschere si modificano lentamente, si stratificano, si sovrappongono. La persona è la sua maschera, o meglio: le sue maschere. Le persone che mi circondano hanno, però, anche le maschere che io butto loro addosso: le mie proiezioni. A mia volta, sono condizionato dalle proiezioni altrui: se gli altri mi vogliono così, se mi sentono così, finisco per diventare così.
Tanti e tanti anni fa, quando ero insegnante nella scuola di stato – esperienza bellissima e tragica allo stesso tempo – qualcuno diceva che io ero molto cattivo: chissà se era vero! Un giorno, mi telefonò la madre di una mia allieva; mi parlava, piangendo, come si parla a un cattivo, perorando la causa di sua figlia. Io mi sentii calare addosso il costume di scena del cattivo: fui veramente cattivo. Conclusa la telefonata, me ne pentii amaramente, come tutti i coccodrilli, animali a me particolarmente sgraditi, forse proprio per la improbabile stupidaggine che circola sulla loro digestione. Eppure io amo «il buon lucertolone (goccia di coccodrillo)» (G. Lorca).

Il mondo è disperso e permeato di gocce di perfidia.
Un giorno arrivai in un luogo, preceduto dalla fama del buono e dell’eroe – ero un ragazzetto -; fui buono, un eroe stoico! Dietro la finestra della mia stanza c’era tanta nebbia e non si vedeva se non l’ombra terribile di un albero. Io ero tronfio nella mia bontà. Stavo recitando? Perché debbo disconoscere così la mia fatica e la mia sofferenza? Ero buono ed eroico.
Questo mi è capitato e ancor oggi mi capita, come capita ad ognuno, ogni giorno, ogni istante. Ma, se la mia persona è una somma di maschere, di identificazioni e di proiezioni, che vanno da me agli altri e da loro a me, io dove sono?
«Che cosa vedo però oltre i berretti e i vestiti, sotto i quali potrebbero celarsi degli automi?» (Cfr. Cartesio, Meditazioni, II, 3).

2.
Io ritengo che sia indispensabile percepire l’altro nella sua concretezza reale; questa percezione, che supera le maschere, le proiezioni e le identificazioni, io la chiamo «riconoscimento». Cosa possiamo però sperare di riconoscere, se non siamo che maschere? Talvolta penso con orrore che l’essere umano potrebbe essere allegoricamente raffigurato come la soffitta di un teatro: un luogo polveroso, dove sono ammucchiati legno, stoffa e cartapesta, maschere e costumi sparsi dappertutto, ingombro di inerti involucri, che non sono cadaveri, ma che sono inerti. Anche l’uomo mi sembra un involucro costituito dall’unione di tanti oggetti: scarpe, cappelli, brache e gonne, pronto a diventare questo o quello; ma l’essere umano non è il ripostiglio di un teatro e gli elementi non si combinano a caso: ciascuno occupa il posto che gli spetta, frutto di una storia, di esperienze che si sono sommate, di copioni che hanno costruito con coerenza quella persona che è unica e irripetibile. È vero che dietro la maschera c’è un’altra maschera e un’altra ancora; ma è anche vero che ognuno è diverso da ogni altro e il suo riconoscimento è possibile.

Riconoscere non vuol dire soltanto conoscere. Il termine «conoscere» ha un che di freddo, a meno che non sia ricondotto al suo antico significato di conoscenza come rapporto sessuale. In questo senso, allora, potrebbe coincidere col riconoscimento, che sempre comporta qualcosa si erotico, di sensuale e anche, direi, di strettamente sessuale; nel rapporto sessuale c’è infatti la possibilità di conoscere a fondo l’altro. Il riconoscimento, così inteso, non si limita quindi ai processi di analisi e di sintesi, e non è neppure solo intuizione. Riconoscere è anche tutto questo; ma io non voglio restare prigioniero di queste tre parole che hanno ingabbiato tutta la storia della gnoseologia dell’Occidente. Riconoscere è percepire l’altro che è di fronte a noi, percepirlo nella sua concretezza e nella sua realtà, o meglio in parte della sua concretezza e realtà; coglierlo nella sua diversità. Non statua inerte, ma flusso continuo, che noi andiamo modellando e che a sua volta ci modella: con amore, con odio, con rabbia, con stupidità, con più o meno attenzione; nessuno però scivola indifferente ed indenne nel mondo.

3.
Ogni rapporto, anche quello psicoanalitico, deve tendere al riconoscimento. Il paziente deve riconoscere il terapeuta e questi deve riconoscere il proprio paziente; attraverso questo riconoscimento passa la guarigione.
Noi non siamo dispersi nella pluralità delle nostre maschere perché siamo unici nella somma che risulta dal loro sovrapporsi, per cui gli altri ci possono identificare e riconoscere, e noi fare altrettanto, in un cangiare continuo che rende la vita, per fortuna, poco monotona. Il riconoscimento non avviene immediatamente, per lo più. Siamo frutti di una educazione malata perché siamo stati educati in una società malata; ma la malattia non deve inibire le nostre speranze. Soprattutto non deve castrare la nostra allegria.

Fin da subito, è possibile cercare il comportamento più sano. Sto qui accarezzando il libro che un amico mio ha appena accarezzato: un tenero amico, venuto di lontano, con la sua barba e i suoi dolci occhi, un po’ spauriti, giunto a farmi un regalo. Con il regalo, mi ha portato anche il suo corpo, i suoi sogni, le sue speranze e le sue paure. Ha accarezzato questo stesso libro che io sto accarezzando, poi si è addormentato, rasserenato dalla certezza del mio amore. Adesso lui non c’è ed io posso scrivere, confortato dal suo amore. Ci siamo riconosciuti. Tante sono le strade del riconoscimento che si intravedono nello svolgersi della cura: il paziente, all’inizio, non le vede quasi; il terapeuta vede un po’ più chiaro, osserva e scruta, col continuo timore di sbagliare. Il paziente, poco a poco, lo segue, sempre timoroso di essere espropriato.

4.
Conobbi quella famiglia per ragioni non legate alla psicoanalisi, ma per il mio mestiere di artista: un marito, una moglie, due figlie. Il marito era un uomo molto importante e molto brutto: ventre enorme e voce nasale, pontificava su tutto, parlando in continuazione; conosceva i vini e la politica estera, gli intrighi della massoneria e la letteratura contemporanea. Chiacchierava di qualunque argomento, ma prediligeva commentare i fatti di cronaca, da cui prendeva spunto per lunghi monologhi, molto filosofici e totalmente imbecilli. Era intollerabile e io non ho mai capito come facesse a parlare così vorticosamente e a mangiare nello stesso tempo. Anche le figlie parlavano tra loro, senza ascoltare il padre; parlavano di cose altrettanto sciocche, oche, persino troppo brutte per esserne consapevoli e quindi sufficientemente presuntuose.

La madre era una signora tranquilla e silenziosa; con la rabbia di chi non può parlare e la violenza contenuta e il masochismo delle persone avvezze a subire prevaricazioni. Un giorno venne da me a chiedermi un’analisi. «Ho pensato a lei, dopo tanti anni – mi disse – perché lei mi sembra uno capace di ascoltare. A casa mia parlano tutti, hanno sempre parlato tutti: mio padre, mio marito, mia madre e poi le mie figlie. Io sono sempre stata zitta». Non l’avevo infatti mai sentita parlare: quanto rancore, quanta rabbia in quella voce apparentemente mite. Quella donna mi piacque. Le dissi: «E allora?» Lei incominciò a parlare, aveva bisogno di parlare.

Mi fu subito chiaro che i suoi disagi erano molti e profondi, ma il pretesto era quello di trovare qualcuno che, sia pure per denaro, la stesse ad ascoltare. Proterva ed aggressiva e un po’ vile, quando glielo feci notare, ammise che era vero: lei voleva essere ascoltata. La sua voce, nel dirmi questo, voleva essere umile e insinuante; ma quanta aggressività, quanto sadismo in quelle labbra strette! E poi, di nuovo le parole, le parole, le parole. Si sdraiava sul divano, poi si alzava, mi puntava i suoi occhi in faccia, due occhi terribili; tornava a sdraiarsi e parlava, mi raccontava, si raccontava. La lasciai andare avanti a lungo, divertendomi anche a seguire quella vita, mezza vera e mezza inventata, che si dipanava davanti a me.

Col tempo, il suono delle sue parole si fece più secco, quella persona, che all’inizio mi aveva percepito, si stava allontanando: parlava per parlare. Soddisfaceva il rituale del pagamento, neppure direttamente con me, e poi liberava quelle sue parole. Mi parlava anche quando era sola a casa sua, in bagno o prima di addormentarsi. Parlava a me, ma io ero diventato sempre più irreale, un pretesto per poter parlare; parlare a me per parlare a nessuno. Parlare a nessuno fa paura, parlare credendo che ci sia qualcuno che non c’è fa meno paura. Io ero diventato Nessuno: Odisseo.
Fu un momento molto difficile: dovevo spezzare quel suo parlare a nessuno. Si era passati dal bisogno di parlare a qualcuno al parlare fine a se stesso. Parole vuote e inutili. Potevo intervenire con delicatezza o con brutalità; decisi di essere brutale: la attaccai, fui spietato. Si sentì improvvisamente nuda e sola. Così mi disse: «Ma ora sono nuda e sola»! Le risposi: «È ora che ci ritroviamo».

5.
Non è soltanto colpa degli altri se non riusciamo a parlare. E inutile dire che gli altri non ascoltano; è inutile accusare sempre e soltanto. È vero, però, che, spesso, si inizia un’analisi perché si ha bisogno di parlare ad una persona che abbia due caratteristiche fondamentali – positivissime – la prima, che sia pagata per rimanere lì ad ascoltare; la seconda, che debba ascoltare, perché fa parte del suo mestiere. Per costui le nostre parole diventano perciò preziose, qualunque cosa noi diciamo.
E’ facile osservare ovunque, quotidianamente, per strada, in teatro, al mercato, negli ospedali e nelle chiese che alcuni parlano e altri tacciono. Dico che tacciono, perché sarebbe scorretto dire che ascoltano: infatti pochi di quelli che tacciono ascoltano. Quelli che parlano, dal canto loro, proseguono imperterriti, convinti di essere ascoltati, e sentenziano, parlano e raccontano in continuazione.
Io conosco una persona (una sola?) che racconta ogni minimo episodio della sua giornata e che, non appena ha finito il racconto, lo riprende da capo con lo stesso interlocutore, o con un altro capitato lì per caso, e poi continua a raccontare fino a che tutti l’hanno ascoltata almeno una volta e poi ricomincia e, in mancanza di ascoltatori, lo ripete a se stessa. Dietro questo comportamento c’è una sottile angoscia per il tempo che passa. Le vorrei dire: «Amica mia, potrai raccontare anche mille volte il fatterello che ti è accaduto, sempre quel racconto avrà fine e finirà nel nulla!» Parlare può servire a rivivere, ma il tempo non può essere coagulato e fissato, né si può fermare ciò che non si può afferrare.

È fondamentale per la guarigione parlare con la consapevolezza che qualcuno ci ascolta; anche se può allora sopravvenire il timore di essere giudicati. Possono sorgere momenti critici e piccole esplosioni di delirio paranoide; ma l’analista non deve lasciarsi impressionare. Molti, per allontanarmi, dicono: «So che lei non giudica e che non dà consigli». Io rispondo che invece giudico e sono pronto a consigliare. Mi ribattono che l’analista non lo deve fare. Replico che gli altri analisti, forse, non lo fanno; ma io lo faccio. Certo, il mio giudizio sono pronto a discuterlo e i miei consigli non sono comandamenti. Io sono io ed ho il mio modo di fare l’analisi.
Il paziente sente di essere messo alle strette, di non avere più scampo e pensa: «Io parlo e lui mi ascolta. Non si limita ad interpretare asetticamente, ma giudica ed è disposto a darmi consigli». Si rivolge esterrefatto a dirmi che allora io esisto. Quindi io esisto.

6.
Indipendentemente dal problema della psicoanalisi o della psicoterapia, le persone che non ascoltano non sono quasi mai consapevoli di questo loro atteggiamento nei confronti del mondo. E’ molto brutto non essere ascoltati. Io mi sono ripromesso e l’ho giurato al mio démone di non accettare più l’amicizia di qualcuno che parli e non mi voglia ascoltare. Allontano spesso da me, con fastidio, persone che mi sommergono di parole. Se sono costretto a rimanere nella stessa stanza, lentamente mi sposto verso altri oppure, se c’è uno strumento musicale a portata di mano, mi metto a suonare, cercando di soffocare col suono il rumore di quella voce berciante. Lo dico qui esplicitamente: «Se volete soltanto parlare, non rivolgetevi a me; non voglio ascoltare chi non ha voglia di sentire anche me. Io voglio che il gioco sia a due, a tre, a cinque, tutti con la voglia di ascoltare e di parlare essendo ascoltati». Fa molta paura parlare sapendo che si è ascoltati, ed è molto difficile saper ascoltare. Il non riuscire ad ascoltare è anche considerato il sintomo di una situazione di disagio complessivo. Spesso è come se la persona dicesse: «Non riesco ad ascoltare perché la mia sofferenza è troppo profonda. I conflitti mi attanagliano. Le parole degli altri mi scivolano addosso, perché non ho interesse per il mondo; mi sembra che nulla mi possa dare stimoli piacevoli. Non so neppure più se amo le persone che amavo. Loro mi parlano e io non le ascolto».
Pochissimi però sono quelli che vogliono imparare ad ascoltare; meno ancora quelli che decidono di iniziare un’analisi per imparare ad ascoltare.

7.
Molti all’inizio della psicoterapia si rivolgono al terapeuta con aggressività e violenza, riempiono la stanza delle loro parole per impedirgli di parlare. Qualche volta, si fermano per dire, con astio: «Certo, lei non parla mai!» Poi riprendono il loro fiume di parole, terrorizzati dalla possibilità di sentirsi dire qualcosa sul loro conto. Ci sono persone che sarebbero capaci di condurre avanti l’analisi per anni, parlando sempre, pur di non permettere all’analista di proferire una sola parola. Quando l’analista incomincia a parlare, costoro rimangono sbalorditi, molte volte non capiscono subito quello che viene loro detto e se lo fanno ripetere a più riprese; poi cercano di fare come se nulla fosse stato e continuano a parlare. Questa è una situazione tipica: a tutti fa paura l’analisi e tutti hanno usato il trucco di parlare per non far parlare. Una difesa, un rifiuto, una fuga. C’era una signora che mi parlava di sé, della sua ricerca del dialogo, del suo bisogno di capire gli altri, della sua apertura verso il mondo. Era pronta ad aiutare tutti: i vicini di casa, i famigliari, i parenti, gli amici, anche lo sconosciuto incontrato sull’autobus. Venne da me, la prima volta, accompagnata da un figliolino, piccolo e grasso, con gli occhiali e i capelli a spazzola, le guance troppo rosse e gli occhi febbricitanti. Lei aveva subito iniziato a parlare, già avevo sentito la sua voce arrivare fino a me dalla strada, e poi su per le scale e in anticamera. Mi disse della sua impossibilità a non aiutare gli altri, a non lasciarsi coinvolgere. Voleva che l’aiutassi a diventare più forte. La seconda volta si fece accompagnare dal marito, sempre parlando. Aveva bisogno di qualcuno, non poteva stare sola, perché aveva paura. Proprio lei che aveva sempre aiutato gli altri e continuava a farlo, adesso aveva bisogno degli altri; ma gli altri, questo aiuto, non glielo volevano dare.
C’erano il marito e il figlio, questo sì, e qualche volta anche la suocera, loro le stavano vicino; ma la bella disponibilità che lei aveva per gli altri, ora che lei ne aveva bisogno, non era contraccambiata a sufficienza. La lasciai andare avanti, sperando che si stancasse; ma non si stancava mai. Un giorno dissi una sola frase: mi guardò esterrefatta. Non tornò mai più.

8.
C’è una persona, a me molto cara, che mi chiede continuamente consigli; però, prima che io possa cercare di darglieli mi dice: «Sai io che cosa farei?» Io rimango sorridente e tranquillo: quella persona si dice tutto da sé e spesso se ne va, convinta che io l’abbia aiutata.

Ed è così, infatti, quel mio silenzio, in quel momento, ha avuto quel significato. Poi lentamente io recupero: i consigli glieli dò veramente; ma devo farlo di straforo. Quella è una persona che si crede onnipotente. Chissà se è maschio o femmina? L’analisi, comunque, deve anche insegnare ad ascoltare. Al di là del problema della paura delle interpretazioni, chi non ascolta è profondamente malato. Le prime frasi dell’analista possono ferire o bruciare; possono anche far fuggire, se dette fuori tempo; o possono rendere il paziente così ottuso che non capirà mai più quello che l’analista avrà da dirgli. Bisogna incominciare a parlare con forza e decisione, anche se talvolta sommessamente, ma sempre con un po’ d’amore. L’analista deve stare attento a non parlare per rabbia, per affermare il proprio potere, per stupire o per ferire.
C’è anche, sempre, un momento in cui il paziente è particolarmente debole. In quel momento l’analista deve tacere, non dire nulla. Parlerà la sua presenza, il suo calore. Guai a cogliere il paziente indifeso, nel momento della sua maggior debolezza, se ne fa una vittima e non lo si aiuta ad incamminarsi per la strada della guarigione. Di carnefici di questo tipo è pieno il mondo: persone che aspettano che tu sia indebolito per ferirti con le loro parole. Questo uno psicoterapeuta non deve farlo mai. Deve parlare soltanto quando è certo che l’altro sia sufficientemente robusto per potersi ribellare, se lo decide. L’analisi deve anche essere una lotta, perché chi ha troppa paura di lottare, non solo non deve fare lo psicoanalista, ma neppure il paziente che ricerca la guarigione. Vivere significa anche lottare; qualche volta vincere e qualche volta perdere. Nell’analisi, però, analista e paziente devono vincere sempre, entrambi.