19 – Febbraio ‘86

febbraio , 1986

Dobbiamo chiarire anzi tutto una cosa che riteniamo fondamentale: l’allestimento che Gabriele Lavia ha proposto sulla scena dell’Eliseo de Il diavolo e il buon Dio di J.P. Sartre è un’operazione teatrale e artistica positiva e riuscita. Anche se non sempre ci troviamo d’accordo sulle decisioni di volta in volta prese nell’adattamento del testo, pure riconosciamo che sempre viene dimostrata grande serietà professionale e la capacità di fare, in ogni momento, teatro.

Il testo sartriano è di indubbia efficacia; ricco di bagliori e di chiaroscuri, turba e coinvolge. Vi sono, è vero, tantissime parole, che però esigono la presenza del corpo, del gesto, del movimento su cui costruirsi.
A differenza di altri testi teatrali del filosofo francese, non è questo un esempio di «teatro di parola». È vero però che Sartre, talvolta, la tira un po’ per le lunghe e rischia momenti di noia e quindi anche i due farfalloni erano preparati a pagare alla cultura questo inevitabile scotto; ma la noia non l’hanno avvertita neppure per un istante.
Sartre scrisse «Il diavolo e il buon Dio» nel 1951, in tre atti e undici quadri, per dimostrare con una parabola storica che «l’assoluto sia nel bene sia nel male, approda all’unico risultato di distruggere vite umane»
Siamo nel 1500 e Worms è assediata dalle truppe dell’arcivescovo di Magonza, comandate da Goetz, spietato e crudele capitano di ventura. Il prete Heinrich, nella città assediata riceve dal vescovo morente le chiavi della città, con l’alternativa di tradire il suo popolo o di lasciare che esso, in rivolta contro il clero, uccida i suoi confratelli. Decide di tradire la città consegnando le chiavi a Goetz, ma costui rinuncia al massacro e sfida Dio stesso tramutandosi da criminale in Santo. Iniziata la sua nuova vita barando al gioco dei dadi, Goetz trova però che fare il bene è ancora più difficile che fare il male: ogni suo gesto d’amore si trasforma infatti in male per gli altri o si ritorce contro di lui. Ciononostante egli prosegue ostinato fino a fondare la sua «città del sole», costruita sull’amore e sul rifiuto della violenza. Ma la rivoluzione dei contadini spazza via la città del sole massacrando i suoi abitanti. Tenta allora la via dell’ascetismo, ma l’arrivo di Heinrich a un anno e un giorno dalla iniziale scommessa lo costringe a riconoscere l’inutilità dei suoi sforzi e ad accettare il comando della rivoluzione e il suo ruolo di uomo costretto ad uccidere altri uomini.
Nella realizzazione in due tempi di Lavia, l’efficacia drammatica della prima parte è rimasta intatta ed è indiscutibile: la filosofia sartriana diventa improvvisamente poesia e dramma. Ottimi i movimenti di massa, cui si alternano in buon contrappunto le singole figure, tutte ben evidenti, come l’Arcivescovo, interpretato da Tarcisio Branca, gesuiticamente odioso; e la figura della Madre, primo personaggio femminile, efficace ed emozionante, dei tre ruoli ricoperti da Monica Guerritore, che ne ha saputo cesellare le non molte battute con drammatica perizia; Nasty, retorico capo rivoluzionario, cui ha prestato giusti accenti e bella figura Sergio Reggi. Sempre in questa prima parte abbiamo trovato debole il personaggio di Heinrich che acquisterà poi la giusta dimensione drammatica nella seconda parte, in cui Gianni De Lellis arriva a dargli uno splendore quasi eroico.
Lavia ci presenta fin dalla sua apparizione in scena un Goetz demonicamente sgangherato, nell’anima e nel corpo. La sua intraprendenza è un seguirsi di pezzi da virtuoso, fino al calare del primo sipario. Nella seconda parte, ìl Goetz convertito in disperata lotta con il fantasma di Dio, è costruito da Lavia con astuzia, ma con discontinuità: eccessivo nei suoi bamboleggiamenti che lo fanno oscillare dalla pesantezza degli angeloni alla Dario Fo al cinguettio, poco originale, se pur divertente, delle macchiette asessuate di Paolo Poli. Quel che ci è parso più grave è però che alcune situazioni di tormentata sensualità sado-masochistica, vere e proprie esplosioni della «nausea» sartriana, sono troppo simili a fumettistiche estrapolazioni dalla «Scandalosa Gilda», qui Lavia coinvolge nel suo istrionismo anche la Guerritore che, dall’inizio alla fine, Caterina e Hilda, lo segue nel bene e nel male.
Bravi anche tutti gli altri: Sergio Doria, Giorgio Giacomin, Marcello Scuderi, Pietro Bartolini, Laura Visconti, Fabio Maraschi, Vincenzo Preziosa e tutto l’affollato seguito di Chierici, Soldati, Popolani e Baroni.
La scena di Giovanni Agostinucci è invariata dall’inizio alla fine e si serve bene delle luci per riempire con diverse atmosfere i larghi gradoni e il fondale nero, funzionali all’alternarsi di movimenti corali e solistici. I costumi di Andrea Viotti ci sono parsi adeguati per tutti, meno per il protagonista.
Concludiamo riaffermando che in questa realizzazione, traduzione e adattamento di Lavia non va comunque perduto il dramma sartiano dell’uomo guitto ed eroe alla disperata ricerca di sé.