Archivio di giugno 1985

Psicoanalisi contro n. 14 – Mefistowaltz

sabato, 1 giugno 1985

Il genere umano è diviso da tempo immemorabile in maschi e femmine. Il mito dell’androgino consacra questa divisione fondamentale: anche in questo essere, l’Ermafrodito dai due sessi, quello di Eros e quello di Afrodite, esiste la dualità, espressa dalla compresenza della doppia sessualità: maschile e femminile.
Bisogna accettare questa dualità. Ci possono essere altre dualità: belli e brutti, ricchi e poveri, alti e bassi, potenti e deboli; ma non sono sentite come fondamentali. La divisione primaria è quella tra maschio e femmina.
È così o è tutta un’invenzione? Non è importante rispondere a questa domanda; anche se si trattasse di un’invenzione, sarebbe un’invenzione che è ormai diventata realtà concreta: uomo﷓donna, maschio﷓femmina.

Tra i due elementi di questa coppia si è insinuata, fin da sempre, la lotta. Certo, esiste anche l’amore, ma l’opposizione è più antica e profonda, proprio perché vi è stata la separazione, che è figlia dell’odio. Alcune dèe antichissime: Afrodite e, prima ancora, Astarte, Inanna e così via, hanno cercato, invano, di mettere pace tra i sessi. Queste dèe dell’amore tra l’uomo e la donna hanno anche sanzionato la separazione e la lotta per il predominio di un sesso sull’altro. Qui non voglio parlare di Eros, il quale era veramente prima, anche prima della guerra tra i sessi.
Si potrebbe obiettare che basterebbe cambiare prospettiva per dire che le tante dèe dell’amore stanno come emblema del desiderio di unione e di armonia tra i sessi e che la guerra è venuta dopo, per ragioni non chiare. Originario sarebbe così il desiderio di unione e non l’odio. L’ipotesi è però smentita dalla storia dell’umanità e dalle storie di tanti uomini e donne.

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Queste mie considerazioni scaturiscono soprattutto dall’osservazione clinica: Pòlemos, principalmente, governa il rapporto tra il maschio e la femmina.
Una guerra sottile si annida in ogni gesto. Il desiderio di amore è continuamente contraddetto da un gioco di reciproca castrazione, che si riproduce all’infinito, come un’immagine riflessa da due specchi contrapposti.
La separazione ha prodotto anche l’invidia, che è l’unica forma, ben misera, di unione. Non esiste maschio che non desideri essere femmina e non esiste femmina che non fantastichi di essere maschio. La bisessualità fisiologica e il travestitismo come gioco sessuale non hanno quasi nulla a che vedere con questi miei discorsi. Sto parlando delle fantasie nelle quali ogni essere umano si culla e dalle quali viene cullato, fin dalla prima infanzia.
L’educazione e l’incitamento all’inversione sessuale sono universalizzati. Dico all’inversione e non all’omosessualità. Genitori, educatori, ambiente, insegnano ai bambini che bisogna dirigersi verso l’altro sesso nella ricerca del piacere sessuale; ma poiché l’attrazione per il proprio sesso è originaria ed ineliminabile, il bambino si sente spinto ad adottare i moduli di comportamento dell’altro sesso, nella speranza di poter così soddisfare la sua prima ricerca di piacere, nell’unione desiderata con quelli del proprio sesso. Nello stesso tempo, però, i gesti «invertiti» vengono inibiti e repressi: se un maschietto sembra troppo una femminuccia, se gioca con le bambole, se indossa gli abiti della mamma, viene canzonato. Se una bambina cerca di fare pipì stando in piedi, se vuole giocare al pallone coi maschi, viene derisa. Un nuovo disorientamento si aggiunge a quello più antico e profondo. I cosiddetti omosessuali non si sono sbarazzati, ma hanno creduto di sbarazzarsi, del problema creato da questo tipo di educazione, accettando fino in fondo l’inversione: i maschi rivalutando la propria parte femminile e le femmine esaltando la loro componente virile. «Liberiamoci dalle costrizioni dei maestri di scuola e delle nonne; sculettiamo, se siamo maschi; fumiamo la pipa, se siamo femmine!» Gesti esterni, che hanno poco a che vedere con il maschio e con la femmina; ma quelli sono i messaggi ricevuti da sempre: così camminano le donne, e gli uomini stringono tra i denti tali fallici, fumanti, accessori di legno.
Questo genere di inversione sessuale non ha molto a che vedere con l’omosessualità; è piuttosto un modo per rientrare nei ranghi imposti dall’obbedienza alle regole, di cadere nell’inganno di una falsa legge di natura, nelle trappole dell’educazione imposta. Il desiderio omosessuale è più antico, forse originario; gioca anche con le fantasie di inversione sessuale e vi si appoggia talvolta; ma era prima di queste e sarà dopo di esse.

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Il maschio e la femmina sono due realtà autonome e indipendenti; non sono neppure complementari o speculari. Ragioni procreative e sociali li hanno portati a cercarsi e ad unirsi in alcuni momenti della vita; ma tra loro c’è sempre stata lotta per mantenere una autonoma identità, per evitare di cadere prede dell’uno o dell’altra. Uno degli elementi fondamentali che caratterizzano l’appartenenza all’uno o all’altro sesso è l’organo genitale, in cui anche si incontra e si separa l’esigenza procreativa.
Lungo i secoli, la donna ha costruito il proprio organo genitale, dalla vulva all’utero, rispondendo agli stimoli dell’esterno e seguendo le proprie fantasie. Le teorie darwiniane ed anche le nuove concezioni evoluzionistiche sono oggi in crisi, per cui è meglio non appoggiarsi a queste ipotesi così meccanicistiche e rigide, che si fondano più su rozze congetture pseudoscientifiche che sulla realtà. Nella nostra società, oggi come ieri, la donna ha avuto ed ha un suo modo di rapportarsi al proprio organo genitale. Le si insegna a non toccarlo e a non esporlo; però deve accudirlo con attenzioni di tipo medico ed esaltarlo ideologicamente come fondamento di un valore trascendente.

Nella donna c’è curiosità per il proprio organo e per quello dell’altra, assieme a una grande attrazione libidica, sessuale anche erotica. Troppe donne però sentono il loro apparato genitale diviso in due: una parte esterna, percepibile e palpabile, staccata da ciò che affonda nel loro ventre e che acquista un che di minaccioso e terrifico. Ancora oggi, troppe bambine non vengono preparate all’avvento del menarca. Molte donne ricordano come un’esperienza traumatica quell’improvvisa comparsa di un’emorragia e mi raccontano del loro terrore e del loro imbarazzo. Questo spavento interno, ormai introiettato, io l’ho visto presentarsi anche in alcune adolescenti che pure erano state preparate al fenomeno. Come i meccanismi ipocondriaci, spesso, non sono inibiti che superficialmente dalle rassicurazioni mediche, così molte ragazze piombano ugualmente in crisi di spavento e depressione alla vista di quel sangue.

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Una ragazza di quattordici anni venne da me, con il consenso dei genitori. Fin da piccola, le avevano parlato della differenza tra i sessi, del meccanismo del coito, della procreazione, e quindi anche delle mestruazioni: sapeva che le sarebbero venute e quando le sarebbero venute. Era contenta, soddisfatta, orgogliosa; ne parlava con il fratello come di una sua superiorità. Quel sangue aveva per lei qualcosa di sacro ed esaltante: «Perché, qui — diceva toccandosi il ventre — nascono tutti, i bambini e le bambine». Certo, nonostante le spiegazioni più o meno scientifiche quella bambina credeva all’antico inganno che la generazione fosse una prerogativa solo femminile; ma, tant’è: nel gioco del potere si è pronti anche a confondere gestazione con procreazione. Nel racconto di quella ragazza, nella sua concezione un po’ esaltata dell’essere femmina, si avvertiva qualche cosa di inquietante. In effetti, quando arrivò il menarca tanto preannunciato, ella ebbe un crollo: corse dai genitori che, esterrefatti, non poterono che raccogliere le sue lacrime e le sue urla. Cominciò una forma molto grave di anoressia mentale; ad un certo punto, si recise le vene dei polsi e stette a guardare con gioia il sangue che ne scaturiva. Un sogno fu molto eloquente: anche il fratello si tagliava le vene, gli usciva il sangue, lei ne era felice. Troppo semplice interpretarlo solo come desiderio aggressivo verso il fratello. Certo, forse, desiderio di castrazione; ma la mia lettura fu diversa. Nel sogno il sangue usciva dalle vene del fratello come, nella realtà, era uscito dalle vene di lei; ciò la rendeva simile al fratello e quel sangue cancellava l’onta del sangue che aveva insozzato le sue cosce. Mi disse piangendo: «Non voglio, non voglio!» Il rifiuto del cibo, lentamente, fu superato; le rimase soltanto un grande disgusto per tutte le interiora, di cui non sopportava neppure la vista o l’odore.
Un giorno, la madre volle venire a parlarmi. Mi prese quasi di sorpresa: io non amo queste cospirazioni che spesso i genitori ordiscono con medici, insegnanti e amici dei figli, credendo di giovare a chissà quale loro superiore interesse. Quasi costringendomi ad ascoltarla, mi disse che anche lei aveva provato rifiuto per la sua femminilità e che non l’accettava tuttora; ma non capiva come potesse avere trasmesso lo stesso sentimento alla figlia, proprio lei che aveva sempre creduto di essere così consapevole! Lei e il marito avevano addirittura esaltato la figlia, per il suo essere donna, per la sua possibilità di fare figli. Se ne andò piangendo e dicendomi: «Io mi ero sempre creduta una donna sana». Nell’aria rimase il suo profumo, un profumo un po’ troppo intenso, di buona qualità. Mi venne di fare considerazioni, tra me e me, su quanto sia malata una società che tanto rifiuto può indurre verso il proprio corpo. Per un istante mi venne in mente il diavolo: mi sedetti al pianoforte e le mie dita si trovarono ad eseguire, meccanicamente, una cascatina di note dal Mefistowaltz di Liszt, che salvò me e Belzebù.

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Anche i maschi hanno un rapporto patologico con l’organo sessuale femminile. La stragrande maggioranza della popolazione maschile allevata nella nostra cultura prova un senso di ripugnanza per l’organo sessuale femminile — e questo lo dico, senza paura di smentita, in base ad una esperienza umana, oltre che clinica —. Anche gli eterosessuali più convinti e maniacali, nell’inconscio, provano schifo per quelle pieghe di carne, per quell’organo vuoto, risucchiante, umido, viscido e palpitante, colmo di umori. Il maschio desidera la donna, ne ricerca le carezze, ne desidera il seno, ama i suoi occhi e i suoi capelli, le spalle bianche, le natiche tonde; ma, col pensiero, rifugge dalla realtà che si trova tra le gambe di lei. «Schifo» è la parola che, con brutalità, ma con esattezza, rende il senso di ciò che la gran parte dei maschi prova dentro di sé.

Venne da me un giovanotto, un bel ragazzo, accanito lettore di giornaletti pornografici. Fin da ragazzino aveva guardato con avidità certe illustrazioni, fotografie o disegni in cui l’organo sessuale femminile era mostrato aperto, spalancato, quasi squartato in un sacrificio osceno. Si era sempre masturbato guardando la superficie patinata di quei fogli di carta stampata, con gusto e piacere, sognando il giorno in cui avrebbe potuto, finalmente, concretamente, realizzare anch’egli i suoi desideri, affondando in quel misterioso groviglio di carne. Finalmente giunse l’occasione di stare con una donna: la guardò nella sua nudità; ma le cosce non erano lucide come quelle delle fotografie, cercò quel profumo che lo aveva sempre eccitato, rimase disorientato da quell’odore così diverso da quello della carta, provò schifo, non ebbe l’erezione. La storia si ripeté: nella solitudine della sua stanza, provava delizie di paradiso masturbandosi davanti a quelle immagini scintillanti alla luce della lampada. Con una donna vera invece era il disastro. Mi disse: «Sono venuto da lei troppo tardi». Risposi: «Speriamo di no! Cominciamo a lavorare».
Questo potrebbe sembrare un caso eccezionale; ma io ripeto che la gran parte dei maschi, nella nostra cultura, ha schifo dell’organo femminile.
Un giorno venne da me un ragazzo proveniente dalla campagna, solido e tranquillo, si era rivolto a me perché gli avevano detto che una psicoterapia poteva essere utile a curare un suo problema di caduta dei capelli. Era pacificato con la propria sessualità, senza problemi, forse un po’ troppo attratto dalla vulva, cui tendeva con manifestazioni infantili, provando grande piacere nella manipolazione e nello sfregamento. Provava anche un grande piacere nello stimolare oralmente il sesso delle sue partner, succhiandolo con avidità. Una notte fece un sogno: sognò una «sorca», come vengono chiamati dalle sue parti certi grossi topi; questa «sorca» era ricoperta da enormi insetti e piaghe purulente, era sudicia e maleodorante. Dopo avermi detto questo, si interruppe e soggiunse: «Ma noi chiamiamo «sorca» anche la «cosa» della donna!» Era sbalordito: «Ma io non ho mai pensato questo!» Io, sadico, gli dissi: «Ma il sogno lo hai fatto tu!»
Di nuovo riflettei sulla società malata che induce tutti questi rifiuti, questi spaventi per il corpo di un’altra persona. Mi venne nuovamente da pensare al diavolo. Nella stanza accanto, il mio nero pianoforte aspettava qualcuno che suonasse il Mefistowaltz; ma l’esorcismo non ci fu: questa volta nessuno suonò.

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L’organo genitale maschile è composto dal pene e dai testicoli, avvolti nello scroto, circondati da una peluria più o meno folta. Esso è percepito, sia dai maschi, sia dalle femmine, come un’individualità quasi separata dal resto del corpo cui appartiene. Molti uomini si rivolgono al loro organo genitale come ad un individuo capace di impulsi, desideri, carattere e volontà propri. Coloro che soffrono di disturbi come l’impotenza o l’eiaculazione precoce sentono queste disfunzioni come ribellione del loro organo sessuale. Si trovano tesi per il desiderio e ansiosi di soddisfarlo; ma, lì, tra le gambe, «lui» sonnecchia pacifico; oppure anticipa i tempi del piacere, svuotandosi incontrollabilmente. Tutto questo acquista talora connotazioni di simpatico umorismo; ma più spesso è terribile, perché questa scissione procura conflitti ed angoscia. Quanti maschi sono spaventati all’idea del rapporto sessuale perché pensano di dover dimostrare qualcosa e temono di fare «cilecca»; di non essere all’altezza. Quante crisi, anche gravi, sono iniziate dopo un’esperienza sessuale in cui ha agito il rifiuto del pene alla risposta tanto attesa, la sua non partecipazione.
L’organo maschile è tutto esterno, oggetto di un esibizionismo compiaciuto; la sua patologia è soprattutto psichica.
Il maschio esalta il proprio membro, fantastica su di esso, sulle sue dimensioni; lo vorrebbe enorme, in concorrenza con quello degli altri maschi. Molto presto incominciano i conflitti, i confronti con il fallo, visto o immaginato, del padre e degli amici. Sorge il timore che il proprio membro non sia abbastanza grande; si teme di esporlo alla vista degli altri, sulle spiagge o nelle palestre, davanti ad amici che sembrano forniti di attributi più imponenti e aggressivi. Si ha paura di esibirlo davanti a una donna che potrebbe ridere, confrontarlo con altri, canzonare: «Che vuoi fare con questo cosino?» Conobbi un ragazzino cui due ragazze, prima una e poi l’altra, avevano detto questa frase. Crudeltà femminile? Certo; ma forse anche l’atteggiamento tracotante del maschietto le aveva indotte ad una simile considerazione impietosa. Dalla seconda esperienza egli uscì completamente distrutto.
Il maschio invidia il fallo dell’altro maschio; la femmina lo invidia al maschio. L’organo maschile non ispira, per lo più, sensi di schifo, ma fa paura. Dietro la paura, lo sappiamo, si nasconde il desiderio. Il desiderio che si prova verso l’organo maschile è molto spesso percepibile attraverso lo schermo della paura che ispira, una paura che è però diversa dallo schifo: fa paura per la sua forza, perché è capace di aggredire, di far male, perché può sfuggire al controllo.
Molte donne hanno paura di fissare lo sguardo sul membro virile, sono disposte a sentirlo, a percepirlo, a farsene colmare attraverso la penetrazione, ad assimilarlo come oggetto interno; ma poi preferiscono negarlo nella sua realtà oggettiva. Evitano di guardarlo, e il gesto che le fa distogliere gli occhi da quella vista non è solo frutto di un’educazione impartita direttamente, ma ha radici più antiche.
L’invidia e il desiderio di possesso dominano; il maschio è espropriato del fallo due volte: una volta perché non lo sente mai completamente suo e non è in grado di dominarlo come le altre parti del corpo, e poi quando ha paura di gestirlo e lo offre alla donna perché ne abbia cura, ne amministri l’energia, la capacità di erezione. Sono due castrazioni che l’uomo si impone prima ancora di essere stato capace di una appropriazione del proprio fallo.

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L’organo femminile fa schifo, quello maschile fa paura. Questi due sentimenti sono il prodotto di una società malata, dove gli individui sono troppo abituati ai meccanismi di espropriazione. L’alienazione è presente e continua.
Dalle considerazioni che ho fatto finora esce sfavorita la sessualità femminile, soprattutto per quello che riguarda la concretezza degli organi sessuali della donna, vulva e vagina in particolare. Indubbiamente ci sono problemi miei. Rifiuti miei, di maschio orgoglioso di avere un pene e due testicoli. Però, sono sicuro che, pur facendo la tara di quello che è solo frutto di fantasie, desideri e paure mie, questa svalutazione ha sufficiente riscontro nella generalità degli esseri umani.
La mia professione mi mette a quotidiano confronto con persone che mi raccontano come percepiscono il loro essere maschi o femmine, cosa provano per i loro organi genitali e per quelli dell’altro. Il mio cammino insieme a queste persone è iniziato tanto tempo fa: ho capito cose che non avrei mai voluto capire e alcune che, forse per mia tranquillità, non avrei mai dovuto capire. Posso però affermare che il maschio e la femmina non sono creature complementari; da molto tempo è avvenuta una separazione che ha prodotto un continuo processo di autocostruzione delle rispettive individualità di maschio e di femmina. La lotta e l’inimicizia sono prima dell’amore tra i sessi e ancora oggi il rapporto è tra eroi imbelli e dèe castratrici.

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Un errore grave per uno psicoanalista sarebbe quello di pensare che le differenze tra il maschio e la femmina siano solo quelle secondarie, fisiologiche e sociologiche, di due entità tutto sommato speculari e complementari, ma sostanzialmente uguali. Una simile convinzione non potrà che produrre disastri terapeutici. Un tale terapeuta, per viltà o cialtroneria, vorrà persuadere maschi e femmine che sono uguali, che hanno ugual peso e ugual valore, che la lotta è finita. La lotta, invece, continua, e la guarigione, per uomini e donne, può essere solo la possibilità di appropriarsi di sé, del proprio essere maschi e femmine, magari dominati dalle fantasie di essere l’altro da sé: l’amico, il marziano che viene dalle galassie, ma, più spesso l’individuo dell’altro sesso.
Bisogna oltrepassare la soglia che separa il nostro essere dalla nostra genitalità. La sessualità deve invadere tutto il nostro corpo e la nostra persona. Schifo e paura debbono essere superati. Non è ancora tempo però di lasciare libero il desiderio, perché la sua soddisfazione è ancora reciproca castrazione.
Può essere utile il separatismo sessuale, l’isolamento con quelli che sono del nostro stesso sesso; per cercare di capirci per mettere le basi di un confronto che deve avvenire poi anche con quelli dell’altro sesso. Un altro sesso che non è solo fuori di noi, ma è anche dentro di noi.
Guai a chi pratica una psicoanalisi ottimistica: la via è ancora lunga; bisogna cercare però di far sì che a percorrerla siano persone felici perché hanno la certezza di intravedere, in lontananza, Eros: un dio che non ha genitori, che non conosce la separazione tra il maschio e la femmina, che è un maschio. E allora? Io non so andare oltre alla visione di questo giovinetto dalle ali d’oro: ciascuno deve ritrovarlo in sé, anche se è necessario combattere questa lotta impietosa.

14 – Giugno ‘85

sabato, 1 giugno 1985

Raramente è dato di conoscere città più bizzarra di Roma, che non tenga così per nulla al proprio prestigio. Qui tutto è buttato come alla rinfusa: bene, male e cose incongrue stanno fianco a fianco ed è incongruo questo ristorante: Marcello, in via Aurora 87, messo a due passi dall’area di Via Veneto. I passati fasti della dolce vita non sembrano neppure aver sfiorato questo locale che ricorda così da vicino le trattorie delle borgate romane del secondo dopoguerra. Tutto è poverello, il servizio è sgangherato, l’atmosfera né attraente né scostante, la gente non cordiale, ma neppure scortese. I vini proposti sono tutti indecenti.
Il menù dà un senso di profonda tristezza alla sola lettura e la poca allegria si fa cupezza alla vista e all’assaggio delle portate: al fondo di un bacile, che per contrasto pare immenso, si arrotolano miseri spaghetti ai frutti di mare, oppure con carciofi; le orecchiette al pomodoro mal cotte e dolciastre affondano a loro volta in tanta immensità. Lo stufato con sedano è abbondante e risulta saporito malgrado la parsimonia degli ingredienti; lo spezzatino alle erbe ha solo un pungentissimo sentore di rosmarino; il filetto in crosta – impensabile sortita verso l’alta cucina di una cucina depressa – lascia di stucco l’avventore di fronte ad un rotolino di pasta unta e bruciacchiata che avvolge qualcosa di non chiaro. I dessert ricordano quelli che allietavano le festicciole in casa, la domenica pomeriggio, dei poveri ma belli di una volta. Il pubblico è del tutto eterogeneo: dall’ambiguo al turistico. Gente che ha girato il mondo ed è tornata al punto di partenza e si racconta ad alta voce, senza pudore, mentre la notte finisce.

Il pianeta terra, gestito con grazia rapinosa dalla coppia Roberto e Patrizia è il luogo in cui non si capita facilmente per caso, per cui tutti sono complici del delitto contro il buon gusto che quotidianamente viene perpetrato.
Diciamo subito che il nostro è un schieramento ideologico; ma poco ci indigna quanto il tentativo di contrabbandare meschinità piccolo borghese per «alta classe». Tutto è irritante, dopo che appena si è varcata la soglia di questo bel palazzetto antico, in Via dell’Arco del Monte 94: le piante di plastica che invadono l’ingresso, i minuscoli tavolinetti in vetro e ottone del bar angusto in cui viene servito un avaro aperitivo. Nella sala da pranzo al piano superiore i tavoli sono tronfi, luccicanti di sottopiatti di metallo e candelabri eccessivi in stile (?) che sottraggono i commensali alla reciproca vista, i posacenere dipinti a mano sono sparsi con abbondanza sulle tovaglie; danno fastidio anche i guanti bianchi dell’impacciato giovanotto che serve ai tavoli, le doghe di legno che ricoprono sotto e sopra le antiche pareti, i coltelli da pesce che arrivano immancabili a dare il colpo di grazia al buon gusto.
In lista nel menù degustazione che ci viene proposto ci sono piatti che promettono il paradiso: ma il fegato d’oca all’aceto balsamico è inconsistente e male gli si accoppia il Parvum di Villania, un Picolit il cui delicato aroma non la spunta contro il pungente dell’aceto. I bocconcini di gamberi e ostriche sono avvolti in pasta troppo spessa, il risi e bisi – ancorché da ricetta «autentica» – sembra un risotto ai piselli e parmigiano, mentre i ravioli verdi di melanzane non hanno sapore, il tutto abbinato a un Colle Picchioni Oro ’83, bianco di Marino che capita male dopo l’aceto e il Picolit. Il rombo allo scalogno è inconsistente e il vino di cottura disturba l’accostamento col bianco Vintage Tunina ’83 Jerman.
Il filetto alla lattuga e il piccione disossato ripieno di carciofi sono piatti onestamente accettabili e il rosso Grattamacco ’82 di Meletti vi si sposa bene.
I dessert sono moltissimi, in quantità minuscole come si addice a gente fine; il moscato Conti Martini si destreggia con agilità tra bastoncini al cioccolato e torte di carote.
L’impressione finale è che la conduzione del ristorante non abbia saputo scegliere, col risultato che la professionalità ci abbia rimesso senza che i commensali riescano ad avere l’impressione di essere ricevuti come ospiti graditi. La cucina di Roberto è troppo sicura di sé e la sua via di mezzo tra il vecchio e il nuovo pare frutto più che altro di impreparazione; la giovane signora Patrizia gioca il ruolo difficilissimo di chi vuol dimenticare, magari grazie ad un abito firmato, i doveri del mestiere.

Non ci sono esitazioni, né sospetti di parzialità nel giudizio solo negativo che diamo al ristorante Benito di Vicolo del Falco in Borgo Pio. L’accoglienza è quasi brutale, la saletta è troppo piccola per i tavolini che contiene ed inoltre è maleodorante, le tovaglie non sono pulite e non sempre vengono cambiate con l’avvicendamento degli avventori, le pareti sono stracariche di tutto il pattume kitsch di obbligo: papi, santini, ricette in cornice, chitarre, reti, conchiglie, sombreri e stelle marine.
Il menù, più imposto che proposto, offre le stazioni rituali di una via crucis del pesce, che parte dal sauté di cozze e vongole insapore, passa attraverso la consolatoria veronica di tre ostriche gustose, per poi ripiombare nell’appiccicosità degli spaghetti alle vongole intrisi di un’irritante salsetta d’uovo ed una nauseabonda pasta ai gusci di granchio sovrastata da un’immensità di amarissimo origano.
La crocifissione vera e propria è il misto di pesci fritti e al forno devastati da un acre sentore di conservante. Il tutto è seguito dalla deposizione davanti al commensale stordito di una marmorea torta di mele e una zuppa inglese di plumbea pesantezza.
Il vino della casa non potrebbe essere usato per la Messa; quello in bottiglia è assai vile; il liquore finale procura bruciori gastrici. Il conto, alla bersagliera, è decisamente troppo alto.

Ciò che viene offerto, in un ambiente tranquillo, al ristorante L’Ammiraglio, in Via Lucrezio Caro 21, è indubbiamente gradevole. Il cuoco è bravo e crediamo che se stesse più attento alla scelta delle materie prime potrebbe proporre una cucina addirittura ottima. Il sauté di cozze è gradevole, gli spaghetti sono fragranti e di buona cottura, il pollo alla Kiev è ottimo, scarso invece lo spiedino all’Ammiraglio. Eccezionale la crème brulée, dal caramello croccante e friabile, solo dignitosa la zuppa inglese. Accettabili i vini.
La sorpresa vera e propria l’abbiamo però avuta dopo cena: attratti dalla musica di un pianoforte, dopo aver sceso una scaletta, ci siamo trovati in un accogliente piano-bar dove, al suono di gradevoli canzoni, abbiamo ordinato un paio di cocktail: un whisky sour ed un rusty nail, più per abitudine che per convinzione.
Benché fossimo un po’ assonnati e in leggero stato di ebbrezza, rimanemmo percossi di delizia non appena le nostre labbra si accostarono ai bicchieri; solo allora ci accorgemmo che dietro il bancone c’era il grande Valentino Cipriani, glorioso barman del boom che, dopo complicate vicende, faste e nefaste, è qui approdato a miscelare bevande sublimi e racconti di gloria.

14 – Giugno ‘85

sabato, 1 giugno 1985

Delle tre serate dedicate a Charlie Parker, trent’anni dopo, abbiamo assistito a quella che ha visto venerdì 17 maggio succedersi al teatro Olimpico: Bob DoroughBill Takas, il sestetto Charlie’s Angels e il Charlie Parker All Stars Quintet di Dizzy Gillespie.

Vogliamo, prima di tutto, parlare del meraviglioso secondo tempo dove si è esibito il gruppo di Gillespie, offrendo quasi un’ora di ottimo be-bop per tutti. Una musica rilassata, precisa, entusiasmante, un’improvvisazione che non era mai sgangherata ripetitività, ma un susseguirsi di idee armonicamente geniali e logicamente ben concatenate. Il suono della tromba di Gillespie è preciso e fluido, la sua intonazione è perfetta, sia nelle note rapide, stilisticamente corrette, sia nei rotondi momenti cantabili. Meraviglioso il pianoforte di John Lewis: accordi sobri e ricchi. Pieno di inventiva il contrabbasso di David Williams. Il sax alto di Phil Woods era perfetto, con momenti di geniale contrappunto con la tromba. Preciso il batterista Roy Haines dalle continue invezioni ritmiche e timbriche.

Orribile per contro era stato il duo che aveva aperto il concerto: Bob Dorough è un cantantucolo poco intonato che inciampa nei più semplici passaggi cromatici e Bill Takas, al contrabbasso, si perde in ghirigori elementari, sciatti e infantili, tanto che non è riuscito nemmeno il salvataggio di Woods, intervenuto alla fine, a rialzare le sorti.

Assolutamente deludente abbiamo trovato il sestetto. Sono sei persone che non sanno suonare insieme, che fanno rumore e basta. Urbani era letteralmente insopportabile al sax alto: le sue note alte avevano un tono di esercitazione scolastica di assoluta monotonia e sfociavano in spernacchiamenti da transatlantico in partenza. Del tutto fuori stile il pianoforte di Franco D’Andrea capace solo di giganteschi accordi alla Schumann di dozzina; irrisorio l’intervento della tromba di Paolo Fresu; c’è parso più corretto il sax tenore di Maurizio Gianmarco, che pure in quel bailamme soccombeva; addirittura grottesca la batteria di Roberto Gatto, che sembrava accompagnare qualche canzonetta pseudorock al Festival di Sanremo. Insopportabile in senso assoluto e per tutto il concerto l’uso dell’amplificazione, non solo fuori stile, ma anche al di là di ogni buon senso acustico. Abbiamo avuto però l’impressione che la maggior parte del pubblico non stesse a sentire.

14 – Giugno ‘85

sabato, 1 giugno 1985

Contrariamente a quanto dichiarano, nella prefazione, Fruttero e Lucentini, autori del volume La prevalenza del cretino, edito da Mondadori (pagg. 370 Lit. 18.000) noi speriamo proprio che il libro sia una «denuncia», una «rivalsa», una «vendetta» contro il cretino prevalente. Gli scritti qui raccolti sono di varia provenienza e, per lo più raccolgono «elzeviri» comparsi negli scorsi anni sul giornale torinese cui i due autori collaborano. Purtroppo, migliaia di cretini (è un best-seller) leggeranno queste pagine con tronfia soddisfazione, poiché i cretini sono sempre gli altri ed essi non vi si riconosceranno mai, altrimenti non sarebbero tali. In modo intelligente i due scrittori illustrano con moltissimi esempi come il cretino sia il male della terra e su di esso si fondino le dittature, lo sfruttamento, il razzismo e la morte, fenomeni però che purtroppo non coinvolgono solo lui. Sono pagine un po’ ripetitive necessariamente, che lasciano trapelare, dietro un’apparente oggettività, chiari ed astuti schieramenti, anche politici; servono però a rinfocolare l’odio per chi è giusto che sia odiato. Menzioniamo come passo esemplare l’articolo intitolato: «Cuore di turista», che dà voce ad un grido di dolore tanto spesso uscito anche dal nostro cuore.

Vi sono alcune persone cui noi non riconosciamo il diritto di parlare della cultura e del mondo ellenico: sono i moralisti, banali, amanti dell’ovvio e di dubbia cultura. Ci pare che uno di essi sia K.J. Dover, autore del libro: L’omosessualità nella grecia antica (Einaudi 1985, pagg. 248, Lit. 35.000). Questo professore di Oxford vuole ad ogni costo sostenere la tesi – non dichiarata esplicitamente – che in Grecia l’omosessualità fosse soprattutto pederastia. Con poco senso critico, accumula in modo noioso le più scontate ovvietà, riprendendo il vecchio tema dell’efebo, visto come succedaneo della donna. L’omosessualità femminile, di cui l’autore si sbarazza in poche pagine, è poi praticamente negata. Indubbiamente, nell’antica Grecia, era esaltato anche l’amore di un adulto per un adolescente; ma l’insistenza su questo punto non è tanto caratteristica dell’epoca, quanto della selezione delle fonti che è stata operata nelle epoche successive. La censura morale e la caratterizzazione a senso unico sono infatti posteriori: se il filologo, l’archeologo e il critico sono capaci di un’osservazione acuta e scaltra, non si lasceranno ingannare dalla lettura fatta da altri e potranno leggere nella sua interezza la grande ricchezza della concezione greca della sessualità (e non solo dell’omosessualità); una ricchezza che va ben oltre il dannunzianesimo trito cui cercano di assimilarla certi vecchi moralisti bavosi che toccano il sedere ai ragazzini, mentre fanno discorsi edificanti. Non si capisce perché uno come Dover che si dimostra molto attento nell’evitare l’errore di considerare la cultura greca come un blocco unitario, restituendole la prospettiva dei diversi secoli in cui s’è articolata, non voglia poi trarre le dovute conseguenze. Gli stessi esempi classici, ricordati anche nel volume, di Armodio e Aristogitone, o di Achille e Patroclo, non possono essere ridotti ad una notarile questione anagrafica, che, in base all’età voglia distinguere l’amante dall’amato, codificando ad ogni costo i ruoli. L’omosessualità dei Greci ha sempre fatto paura: agli antichi e ai moderni.

14 – Giugno ‘85

sabato, 1 giugno 1985

Lo spazio di teatro Due, in vicolo Due Macelli 37, è molto gradevole: nuove comode poltrone su cui sedere, un santo barocco che guarda dall’affresco sul soffitto.
Qui abbiamo visto un gruppo di ottimi attori interpretare un pessimo testo: Il Turno di Berto Gavioli.
Tanto era piacevole, sciolta e professionale la recitazione, quanto risultava rigido, dilettantesco e spiacevole il testo. Nella trama iper-realismo e surrealismo si mescolano: in una sala di doppiaggio, durante il turno dalle nove alle tredici, si sviluppano tra gli attori che vi lavorano bozzetti di vita vissuta, frammisti a problemi tecnici e malignità di un mondo frustrato di gente che ha venduto la propria voce, restando confinata al ruolo di ombra vocale di altri.
I personaggi sono convenzionali: la direttrice managerialmente castratoria, il marito di lei privilegiato e imbelle, la segretaria malinconica e stizzita, il giovane tecnico tenero e sensuale, l’anziano omosessuale torbido e disperato, l’ex attore affermato eterosessuale e fatuo, l’aspirante attrice ingenua e perversa.
Fuori c’è Roma travolta da un gigantesco e metafisico ingorgo che rende tutti prigionieri.
Le tensioni esplodono. Insulti e tentativi di violenza e di seduzione.
Vi è anche un misterioso capo, ricco e potente, che arriva ad un certo punto, nelle vesti di un simbolico e fantascientifico trono da fumetto dai roteanti bagliori.
Tutti cercano ad un certo punto di ribellarsi: insultano ed aggrediscono il feticcio del potere; ma, come era fin troppo prevedibile, la frustrazione finisce per trionfare e, mentre l’ingorgo esterno si scioglie, anche le macchinette umane riprendono a girare secondo i ritmi consueti della rassegnazione. Gli attori sono stati bravi tutti; le loro voci erano belle, corrette, personali e ciascun personaggio era reso con acume, anche quelli sulla carta più insulsi e banali; li citiamo in ordine alfabetico: Aurora Cancian, Alberto Caneva, Eugenio Marinelli, Bruna Martelli, Diego Michelotti, Luciano Roffi, Sonia Scotti. La regia dello stesso Gavioli sembrava voler aggiungere qualcosa qua e là, senza riuscirvi: troppe pretese, troppi elementi affastellati alla rinfusa; hanno finito per risentirne anche le scene di Carlo Fonti e le musiche originali di Stefano Macrino e Aldo Azzaro.

Una bella idea che non sortisce però l’effetto sperato è quella che sta dietro allo spettacolo Ti darò quel fior, messo in scena al Teatro dell’Orologio, in via dei Filippini.
L’intenzione sarebbe quella di allestire uno spettacolo cabarettistico, collocato nella seconda parte della serata, favorendo un rapporto tra scena e spettatore di tipo non convenzionalmente teatrale, ma che ricrei un po’ l’atmosfera del tabarin d’altri tempi.
E’ bello che qualcuno abbia pensato che in una città come Roma ci fosse bisogno di rompere il rigido schema degli orari: dovrebbero esserci spettacoli a tutte le ore, anche alle sette del mattino, se pur siamo d’accordo che le ore della notte sono particolarmente favorevoli e galeotte per spettacolini estrosi e frizzanti. Come abbiamo detto, le intenzioni sono buone, ma il risultato non lo è altrettanto, a cominciare dallo stesso cartellone. Non solo infatti vi si legge come ora di inizio le ventitre, mentre lo spettacolo inizia di fatto a mezzanotte meno un quarto; ma addirittura mancano alcune informazioni fondamentali sugli autori dei testi e delle musiche delle canzoni su cui si basa lo spettacolo. Anche la messa in scena è un po’ mal riuscita, triste per uno spettacolo brillante è infatti quel tabarin coi bicchierini di plastica sui tavolini, le gassose in bottiglietta e quattro cioccolatini nella ciotola; si avverte una piccineria da giochino infantile, che ha poco da spartire con la finzione teatrale; sul pretesto di un’esile trama poliziesca lo spettacolo di Marco Mete, autore e regista, mette in scena un Landru, che prima dell’esecuzione, ricapitola cantando la storia dei suoi dieci delitti contro altrettante signore.
Le canzoni di Gill, Pasquariello, De Angelis, Mascheroni & Marf sono intervallate da interventi brillanti del commissario Vecchiato, interpretato dall’ottimo Renato Campese, che con virtuosismo e ironia inserisce brani di repertorio famosi. Gennaro Canavacciuolo canta e recita il personaggio dell’assassino galante, ma risulta debole e ripetitivo e non è aiutato dalle canzoni scelte che sono talvolta brutte volgari e assai poco spiritose.
Non basta che le cose siano del tempo che fu perché siano belle; anche il passato è pieno di spazzatura! Del tutto pleonastica la presenza di Gloria Sapio, donna pluriassassinata.
L’accompagnamento al pianoforte di Edoardo Morello risultava elementare e confuso: non c’è bisogno in queste situazioni di fare del virtuosismo pianistico, ma si deve evitare di ammucchiare tutte le note, tenendo continuamente abbassato il pedale del «legato».

Il titolo dello spettacolo andato in scena al Teatro in Trastevere di vicolo Moroni è Pornografia? e il punto interrogativo ha pesantemente dominato i nostri pensieri per tutti i tre quarti d’ora circa dello spettacolo.
Può una dama attempata stare in bilico su di una scala di legno, mettersi stivaloni e impermeabile di cerata nera, travestirsi da vecchio granduca bilioso, offrire i suoi consigli di maitresse a una giovane prostituta, recitare un sonetto di Shakespeare, pronunciando nel contempo una girandola incandescente di parole sconce? Certo che può!
Se però quella signora sembra una contessa subalpina che un gioco di salotto costringe per penitenza a recitare un monologo osceno davanti a un gruppo di ragazzini, allora la pornografia diventa patetismo.
Ci sono sembrate del tutto assurde le scelte registiche di Claudia Coli e Carlo Pasquini che hanno coinvolto in questo gioco Clara Colosimo; non sappiamo poi fino a quale punto sia responsabile Mauro Bolognini cui il cartellone attribuisce genericamente il «progetto».
I testi sono tutti belli e di autori insigni: Apollinaire, l’Aretino, Diderot, Mozart, Ombrosi, Vignali e Shakespeare, tutti dignitosi e tutt’altro che volgari, a parte la caduta di tono di un Genet moralistico e pre-gay. Superba è stata l’apertura con la lettera scatologica e coprofila di W.A. Mozart alla cugina, di una bellezza che ci ha fatto riflettere sulla grandezza, anche letteraria, di Mozart. Il commento musicale di Marcello Piras ci è parso insignificante, ma un discorso a parte merita la canzone Pornografia del greco Azidakis, col testo italiano ingenuo e scioccherello di P.F. Poggi e che per un effetto, che pensiamo non fosse voluto, ricordava troppo umoristicamente un inno all’Immacolata Concezione di Maria.

14 – Giugno ‘85

sabato, 1 giugno 1985

Epidemie

In un’epoca di grandi campagne di prevenzione e profilassi contro l’ennesimo virus dalla forza distruttiva, non risulta che siano state prese grosse iniziative per difendere l’umanità dai portatori di “tifo sportivo”. Eppure le statistiche registrano tra le categorie cosiddette “a rischio” che frequentano gli stadi, percentuali altissime di mortalità.
Il sospetto è che si operi qualche discriminazione. Se la malattia e la morte provengono da comportamenti in qualche modo connotabili come diversi dalla norma, si invoca subito la soppressione del comportamento e l’isolamento degli individui “portatori”. Se invece il contagio viene da un comportamento di massa, codificato e accettato nella norma dei comportamenti, le vittime saranno imputate a tragiche fatalità o a contingenti disfunzioni del sistema collettivo.
Il portatore di “tifo sportivo” –e, spesso, l’assassino dello stadio- è, per lo più, un cretino che miete le sue vittime tra altri cretini, e per questo si potrebbe essere indotti all’indifferenza anche davanti alla morte. Ma l’indifferenza davanti alla morte dei propri simili è, appunto, una caratteristica del cretino. Ogni essere umano ha diritto alla vita e nessun omicidio deve restare impunito. Nella difficoltà che si incontra nella ricerca dei colpevoli, si finisce spesso per attribuire la colpa a un capro espiatorio, che può essere di volta in volta, la fatalità, l’omosessuale o il tifoso inglese. Il tifoso è così profondamente convinto di essere sano che non arriva, quasi mai, a rendersi conto di essere, invece “portatore malato” di un virus mortale; di essere stato contagiato prima ancora di riuscire ad avere consapevolezza alcuna, né si rende conto di portare a sua volta il contagio nella propria famiglia e nel proprio ambiente. Certo, ha l’attenuante di essere indotto al comportamento malato, per non sentirsi “diverso” dagli altri. Certo, ciò che ve lo induce è una somma di interessi di alcuni”non cretini” che del suo tifo hanno bisogno per incrementare consistenti profitti economici ed ideologici. Certo, chi gli induce l’abitudine alla propria situazione endemica, desta anche la sua insofferenza per epidemie occasionali e per “untori” che egli possa sentire come estranei: sovversivi, mistici, terroni, froci, tutti portatori di mali che “bisogna” estirpare. “Tifoso” è sano perché è maggioranza. Maggioranza è sana anche quando è maggioranza di cretini.
Il cretino è assassino più spesso di quanto non si creda e lo stadio non è che uno dei luoghi dell’olocausto, poiché ci sono mille altri luoghi dove la “fatalità” colpisce: l’ingorgo impazzito, il mare inquinato, il locale sovraffollato, il bosco incendiato, il pozzo scoperto…. I vili e gli imbecilli continueranno però a preferire la strage collettiva, raccontata con dovizia di particolari raccapriccianti, piuttosto che affrontare l’angoscia di assumersi in prima persona la responsabilità di ogni gesto individuale di prevaricazione dell’altro. E anche la strage diventa il “business” di qualcuno, che è un po’ meno cretino e un po’ più assassino.

14 – Giugno ‘85

sabato, 1 giugno 1985

Sono ben cinque le mostre concomitanti all’esposizione di Palazzo Reale a Napoli delle opere di Salvatore Emblema. Noi abbiamo visitato quella romana alla Galleria Due Ci di piazza Mignanelli 3, dove in due stanze sono esposte alcune opere dell’ultimo periodo di questo, ingiustamente, a nostro avviso, celebrato pittore napoletano.

Nato nel 1929, Emblema ha un curriculum di esposizioni di molti anni e il suo percorso artistico si articola in un rapporto costante con un materiale: la tela di sacco. Talvolta interviene sulla juta con colori anilinici, talaltra con terre colorate o con tecniche miste, una sua peculiarità è la «detessitura» delle tele. I risultati sono di una non figuratività che allude però alle volte alla forma e alle atmosfere.
Le opere della mostra romana hanno titoli come terrae motus, nudo al sole nero o paesaggio in rosso e nero, ma sempre, nelle opere di oggi e in quelle di ieri, il risultato è di una povertà intellettuale assoluta.

Non c’è capacità di comunicare alcunché, è il deserto culturale e morale.
Gli stessi moduli sono ripetuti ossessivamente e insulsamente in una triviale imitazione dell’americano Rothko. Non vogliamo sprecare altre parole per tanta pochezza, ma vogliamo invece spenderne qualcuna per richiamare al buon senso certe persone autorevoli che hanno perso di vista il concetto del ridicolo.
Primo fra tutti G.C, Argan, che noi stimiamo come persona di cultura solida e di grande preparazione, il quale in un articolo del ‘79, riportato nel catalogo generale, usa espressioni che sembrano fare il verso al critico strampalato, parlando di «…lenta destrutturazione dello schermo per recuperare la trasparenza dall’opacità svelando la spazialità interna della materia prima della pittura,…». Siamo consapevoli che è disonesto estrapolare alcune righe da un discorso, ma invitiamo a leggere l’articolo per intero e a constatare che non si ricava niente di più. Non parliamo poi di altri, meno colti e certamente incompetenti, oltre che meno scaltri, come Arcangelo Izzo che scrive un grottesco assemblaggio di parole in libertà, con qualche pretesa di psicologia analitica, per giustificare l’ingiustificabile.