14 – Giugno ‘85

giugno , 1985

Raramente è dato di conoscere città più bizzarra di Roma, che non tenga così per nulla al proprio prestigio. Qui tutto è buttato come alla rinfusa: bene, male e cose incongrue stanno fianco a fianco ed è incongruo questo ristorante: Marcello, in via Aurora 87, messo a due passi dall’area di Via Veneto. I passati fasti della dolce vita non sembrano neppure aver sfiorato questo locale che ricorda così da vicino le trattorie delle borgate romane del secondo dopoguerra. Tutto è poverello, il servizio è sgangherato, l’atmosfera né attraente né scostante, la gente non cordiale, ma neppure scortese. I vini proposti sono tutti indecenti.
Il menù dà un senso di profonda tristezza alla sola lettura e la poca allegria si fa cupezza alla vista e all’assaggio delle portate: al fondo di un bacile, che per contrasto pare immenso, si arrotolano miseri spaghetti ai frutti di mare, oppure con carciofi; le orecchiette al pomodoro mal cotte e dolciastre affondano a loro volta in tanta immensità. Lo stufato con sedano è abbondante e risulta saporito malgrado la parsimonia degli ingredienti; lo spezzatino alle erbe ha solo un pungentissimo sentore di rosmarino; il filetto in crosta – impensabile sortita verso l’alta cucina di una cucina depressa – lascia di stucco l’avventore di fronte ad un rotolino di pasta unta e bruciacchiata che avvolge qualcosa di non chiaro. I dessert ricordano quelli che allietavano le festicciole in casa, la domenica pomeriggio, dei poveri ma belli di una volta. Il pubblico è del tutto eterogeneo: dall’ambiguo al turistico. Gente che ha girato il mondo ed è tornata al punto di partenza e si racconta ad alta voce, senza pudore, mentre la notte finisce.

Il pianeta terra, gestito con grazia rapinosa dalla coppia Roberto e Patrizia è il luogo in cui non si capita facilmente per caso, per cui tutti sono complici del delitto contro il buon gusto che quotidianamente viene perpetrato.
Diciamo subito che il nostro è un schieramento ideologico; ma poco ci indigna quanto il tentativo di contrabbandare meschinità piccolo borghese per «alta classe». Tutto è irritante, dopo che appena si è varcata la soglia di questo bel palazzetto antico, in Via dell’Arco del Monte 94: le piante di plastica che invadono l’ingresso, i minuscoli tavolinetti in vetro e ottone del bar angusto in cui viene servito un avaro aperitivo. Nella sala da pranzo al piano superiore i tavoli sono tronfi, luccicanti di sottopiatti di metallo e candelabri eccessivi in stile (?) che sottraggono i commensali alla reciproca vista, i posacenere dipinti a mano sono sparsi con abbondanza sulle tovaglie; danno fastidio anche i guanti bianchi dell’impacciato giovanotto che serve ai tavoli, le doghe di legno che ricoprono sotto e sopra le antiche pareti, i coltelli da pesce che arrivano immancabili a dare il colpo di grazia al buon gusto.
In lista nel menù degustazione che ci viene proposto ci sono piatti che promettono il paradiso: ma il fegato d’oca all’aceto balsamico è inconsistente e male gli si accoppia il Parvum di Villania, un Picolit il cui delicato aroma non la spunta contro il pungente dell’aceto. I bocconcini di gamberi e ostriche sono avvolti in pasta troppo spessa, il risi e bisi – ancorché da ricetta «autentica» – sembra un risotto ai piselli e parmigiano, mentre i ravioli verdi di melanzane non hanno sapore, il tutto abbinato a un Colle Picchioni Oro ’83, bianco di Marino che capita male dopo l’aceto e il Picolit. Il rombo allo scalogno è inconsistente e il vino di cottura disturba l’accostamento col bianco Vintage Tunina ’83 Jerman.
Il filetto alla lattuga e il piccione disossato ripieno di carciofi sono piatti onestamente accettabili e il rosso Grattamacco ’82 di Meletti vi si sposa bene.
I dessert sono moltissimi, in quantità minuscole come si addice a gente fine; il moscato Conti Martini si destreggia con agilità tra bastoncini al cioccolato e torte di carote.
L’impressione finale è che la conduzione del ristorante non abbia saputo scegliere, col risultato che la professionalità ci abbia rimesso senza che i commensali riescano ad avere l’impressione di essere ricevuti come ospiti graditi. La cucina di Roberto è troppo sicura di sé e la sua via di mezzo tra il vecchio e il nuovo pare frutto più che altro di impreparazione; la giovane signora Patrizia gioca il ruolo difficilissimo di chi vuol dimenticare, magari grazie ad un abito firmato, i doveri del mestiere.

Non ci sono esitazioni, né sospetti di parzialità nel giudizio solo negativo che diamo al ristorante Benito di Vicolo del Falco in Borgo Pio. L’accoglienza è quasi brutale, la saletta è troppo piccola per i tavolini che contiene ed inoltre è maleodorante, le tovaglie non sono pulite e non sempre vengono cambiate con l’avvicendamento degli avventori, le pareti sono stracariche di tutto il pattume kitsch di obbligo: papi, santini, ricette in cornice, chitarre, reti, conchiglie, sombreri e stelle marine.
Il menù, più imposto che proposto, offre le stazioni rituali di una via crucis del pesce, che parte dal sauté di cozze e vongole insapore, passa attraverso la consolatoria veronica di tre ostriche gustose, per poi ripiombare nell’appiccicosità degli spaghetti alle vongole intrisi di un’irritante salsetta d’uovo ed una nauseabonda pasta ai gusci di granchio sovrastata da un’immensità di amarissimo origano.
La crocifissione vera e propria è il misto di pesci fritti e al forno devastati da un acre sentore di conservante. Il tutto è seguito dalla deposizione davanti al commensale stordito di una marmorea torta di mele e una zuppa inglese di plumbea pesantezza.
Il vino della casa non potrebbe essere usato per la Messa; quello in bottiglia è assai vile; il liquore finale procura bruciori gastrici. Il conto, alla bersagliera, è decisamente troppo alto.

Ciò che viene offerto, in un ambiente tranquillo, al ristorante L’Ammiraglio, in Via Lucrezio Caro 21, è indubbiamente gradevole. Il cuoco è bravo e crediamo che se stesse più attento alla scelta delle materie prime potrebbe proporre una cucina addirittura ottima. Il sauté di cozze è gradevole, gli spaghetti sono fragranti e di buona cottura, il pollo alla Kiev è ottimo, scarso invece lo spiedino all’Ammiraglio. Eccezionale la crème brulée, dal caramello croccante e friabile, solo dignitosa la zuppa inglese. Accettabili i vini.
La sorpresa vera e propria l’abbiamo però avuta dopo cena: attratti dalla musica di un pianoforte, dopo aver sceso una scaletta, ci siamo trovati in un accogliente piano-bar dove, al suono di gradevoli canzoni, abbiamo ordinato un paio di cocktail: un whisky sour ed un rusty nail, più per abitudine che per convinzione.
Benché fossimo un po’ assonnati e in leggero stato di ebbrezza, rimanemmo percossi di delizia non appena le nostre labbra si accostarono ai bicchieri; solo allora ci accorgemmo che dietro il bancone c’era il grande Valentino Cipriani, glorioso barman del boom che, dopo complicate vicende, faste e nefaste, è qui approdato a miscelare bevande sublimi e racconti di gloria.