Psicoanalisi contro n. 14 – Mefistowaltz

giugno , 1985

Il genere umano è diviso da tempo immemorabile in maschi e femmine. Il mito dell’androgino consacra questa divisione fondamentale: anche in questo essere, l’Ermafrodito dai due sessi, quello di Eros e quello di Afrodite, esiste la dualità, espressa dalla compresenza della doppia sessualità: maschile e femminile.
Bisogna accettare questa dualità. Ci possono essere altre dualità: belli e brutti, ricchi e poveri, alti e bassi, potenti e deboli; ma non sono sentite come fondamentali. La divisione primaria è quella tra maschio e femmina.
È così o è tutta un’invenzione? Non è importante rispondere a questa domanda; anche se si trattasse di un’invenzione, sarebbe un’invenzione che è ormai diventata realtà concreta: uomo﷓donna, maschio﷓femmina.

Tra i due elementi di questa coppia si è insinuata, fin da sempre, la lotta. Certo, esiste anche l’amore, ma l’opposizione è più antica e profonda, proprio perché vi è stata la separazione, che è figlia dell’odio. Alcune dèe antichissime: Afrodite e, prima ancora, Astarte, Inanna e così via, hanno cercato, invano, di mettere pace tra i sessi. Queste dèe dell’amore tra l’uomo e la donna hanno anche sanzionato la separazione e la lotta per il predominio di un sesso sull’altro. Qui non voglio parlare di Eros, il quale era veramente prima, anche prima della guerra tra i sessi.
Si potrebbe obiettare che basterebbe cambiare prospettiva per dire che le tante dèe dell’amore stanno come emblema del desiderio di unione e di armonia tra i sessi e che la guerra è venuta dopo, per ragioni non chiare. Originario sarebbe così il desiderio di unione e non l’odio. L’ipotesi è però smentita dalla storia dell’umanità e dalle storie di tanti uomini e donne.

2
Queste mie considerazioni scaturiscono soprattutto dall’osservazione clinica: Pòlemos, principalmente, governa il rapporto tra il maschio e la femmina.
Una guerra sottile si annida in ogni gesto. Il desiderio di amore è continuamente contraddetto da un gioco di reciproca castrazione, che si riproduce all’infinito, come un’immagine riflessa da due specchi contrapposti.
La separazione ha prodotto anche l’invidia, che è l’unica forma, ben misera, di unione. Non esiste maschio che non desideri essere femmina e non esiste femmina che non fantastichi di essere maschio. La bisessualità fisiologica e il travestitismo come gioco sessuale non hanno quasi nulla a che vedere con questi miei discorsi. Sto parlando delle fantasie nelle quali ogni essere umano si culla e dalle quali viene cullato, fin dalla prima infanzia.
L’educazione e l’incitamento all’inversione sessuale sono universalizzati. Dico all’inversione e non all’omosessualità. Genitori, educatori, ambiente, insegnano ai bambini che bisogna dirigersi verso l’altro sesso nella ricerca del piacere sessuale; ma poiché l’attrazione per il proprio sesso è originaria ed ineliminabile, il bambino si sente spinto ad adottare i moduli di comportamento dell’altro sesso, nella speranza di poter così soddisfare la sua prima ricerca di piacere, nell’unione desiderata con quelli del proprio sesso. Nello stesso tempo, però, i gesti «invertiti» vengono inibiti e repressi: se un maschietto sembra troppo una femminuccia, se gioca con le bambole, se indossa gli abiti della mamma, viene canzonato. Se una bambina cerca di fare pipì stando in piedi, se vuole giocare al pallone coi maschi, viene derisa. Un nuovo disorientamento si aggiunge a quello più antico e profondo. I cosiddetti omosessuali non si sono sbarazzati, ma hanno creduto di sbarazzarsi, del problema creato da questo tipo di educazione, accettando fino in fondo l’inversione: i maschi rivalutando la propria parte femminile e le femmine esaltando la loro componente virile. «Liberiamoci dalle costrizioni dei maestri di scuola e delle nonne; sculettiamo, se siamo maschi; fumiamo la pipa, se siamo femmine!» Gesti esterni, che hanno poco a che vedere con il maschio e con la femmina; ma quelli sono i messaggi ricevuti da sempre: così camminano le donne, e gli uomini stringono tra i denti tali fallici, fumanti, accessori di legno.
Questo genere di inversione sessuale non ha molto a che vedere con l’omosessualità; è piuttosto un modo per rientrare nei ranghi imposti dall’obbedienza alle regole, di cadere nell’inganno di una falsa legge di natura, nelle trappole dell’educazione imposta. Il desiderio omosessuale è più antico, forse originario; gioca anche con le fantasie di inversione sessuale e vi si appoggia talvolta; ma era prima di queste e sarà dopo di esse.

3
Il maschio e la femmina sono due realtà autonome e indipendenti; non sono neppure complementari o speculari. Ragioni procreative e sociali li hanno portati a cercarsi e ad unirsi in alcuni momenti della vita; ma tra loro c’è sempre stata lotta per mantenere una autonoma identità, per evitare di cadere prede dell’uno o dell’altra. Uno degli elementi fondamentali che caratterizzano l’appartenenza all’uno o all’altro sesso è l’organo genitale, in cui anche si incontra e si separa l’esigenza procreativa.
Lungo i secoli, la donna ha costruito il proprio organo genitale, dalla vulva all’utero, rispondendo agli stimoli dell’esterno e seguendo le proprie fantasie. Le teorie darwiniane ed anche le nuove concezioni evoluzionistiche sono oggi in crisi, per cui è meglio non appoggiarsi a queste ipotesi così meccanicistiche e rigide, che si fondano più su rozze congetture pseudoscientifiche che sulla realtà. Nella nostra società, oggi come ieri, la donna ha avuto ed ha un suo modo di rapportarsi al proprio organo genitale. Le si insegna a non toccarlo e a non esporlo; però deve accudirlo con attenzioni di tipo medico ed esaltarlo ideologicamente come fondamento di un valore trascendente.

Nella donna c’è curiosità per il proprio organo e per quello dell’altra, assieme a una grande attrazione libidica, sessuale anche erotica. Troppe donne però sentono il loro apparato genitale diviso in due: una parte esterna, percepibile e palpabile, staccata da ciò che affonda nel loro ventre e che acquista un che di minaccioso e terrifico. Ancora oggi, troppe bambine non vengono preparate all’avvento del menarca. Molte donne ricordano come un’esperienza traumatica quell’improvvisa comparsa di un’emorragia e mi raccontano del loro terrore e del loro imbarazzo. Questo spavento interno, ormai introiettato, io l’ho visto presentarsi anche in alcune adolescenti che pure erano state preparate al fenomeno. Come i meccanismi ipocondriaci, spesso, non sono inibiti che superficialmente dalle rassicurazioni mediche, così molte ragazze piombano ugualmente in crisi di spavento e depressione alla vista di quel sangue.

4
Una ragazza di quattordici anni venne da me, con il consenso dei genitori. Fin da piccola, le avevano parlato della differenza tra i sessi, del meccanismo del coito, della procreazione, e quindi anche delle mestruazioni: sapeva che le sarebbero venute e quando le sarebbero venute. Era contenta, soddisfatta, orgogliosa; ne parlava con il fratello come di una sua superiorità. Quel sangue aveva per lei qualcosa di sacro ed esaltante: «Perché, qui — diceva toccandosi il ventre — nascono tutti, i bambini e le bambine». Certo, nonostante le spiegazioni più o meno scientifiche quella bambina credeva all’antico inganno che la generazione fosse una prerogativa solo femminile; ma, tant’è: nel gioco del potere si è pronti anche a confondere gestazione con procreazione. Nel racconto di quella ragazza, nella sua concezione un po’ esaltata dell’essere femmina, si avvertiva qualche cosa di inquietante. In effetti, quando arrivò il menarca tanto preannunciato, ella ebbe un crollo: corse dai genitori che, esterrefatti, non poterono che raccogliere le sue lacrime e le sue urla. Cominciò una forma molto grave di anoressia mentale; ad un certo punto, si recise le vene dei polsi e stette a guardare con gioia il sangue che ne scaturiva. Un sogno fu molto eloquente: anche il fratello si tagliava le vene, gli usciva il sangue, lei ne era felice. Troppo semplice interpretarlo solo come desiderio aggressivo verso il fratello. Certo, forse, desiderio di castrazione; ma la mia lettura fu diversa. Nel sogno il sangue usciva dalle vene del fratello come, nella realtà, era uscito dalle vene di lei; ciò la rendeva simile al fratello e quel sangue cancellava l’onta del sangue che aveva insozzato le sue cosce. Mi disse piangendo: «Non voglio, non voglio!» Il rifiuto del cibo, lentamente, fu superato; le rimase soltanto un grande disgusto per tutte le interiora, di cui non sopportava neppure la vista o l’odore.
Un giorno, la madre volle venire a parlarmi. Mi prese quasi di sorpresa: io non amo queste cospirazioni che spesso i genitori ordiscono con medici, insegnanti e amici dei figli, credendo di giovare a chissà quale loro superiore interesse. Quasi costringendomi ad ascoltarla, mi disse che anche lei aveva provato rifiuto per la sua femminilità e che non l’accettava tuttora; ma non capiva come potesse avere trasmesso lo stesso sentimento alla figlia, proprio lei che aveva sempre creduto di essere così consapevole! Lei e il marito avevano addirittura esaltato la figlia, per il suo essere donna, per la sua possibilità di fare figli. Se ne andò piangendo e dicendomi: «Io mi ero sempre creduta una donna sana». Nell’aria rimase il suo profumo, un profumo un po’ troppo intenso, di buona qualità. Mi venne di fare considerazioni, tra me e me, su quanto sia malata una società che tanto rifiuto può indurre verso il proprio corpo. Per un istante mi venne in mente il diavolo: mi sedetti al pianoforte e le mie dita si trovarono ad eseguire, meccanicamente, una cascatina di note dal Mefistowaltz di Liszt, che salvò me e Belzebù.

5
Anche i maschi hanno un rapporto patologico con l’organo sessuale femminile. La stragrande maggioranza della popolazione maschile allevata nella nostra cultura prova un senso di ripugnanza per l’organo sessuale femminile — e questo lo dico, senza paura di smentita, in base ad una esperienza umana, oltre che clinica —. Anche gli eterosessuali più convinti e maniacali, nell’inconscio, provano schifo per quelle pieghe di carne, per quell’organo vuoto, risucchiante, umido, viscido e palpitante, colmo di umori. Il maschio desidera la donna, ne ricerca le carezze, ne desidera il seno, ama i suoi occhi e i suoi capelli, le spalle bianche, le natiche tonde; ma, col pensiero, rifugge dalla realtà che si trova tra le gambe di lei. «Schifo» è la parola che, con brutalità, ma con esattezza, rende il senso di ciò che la gran parte dei maschi prova dentro di sé.

Venne da me un giovanotto, un bel ragazzo, accanito lettore di giornaletti pornografici. Fin da ragazzino aveva guardato con avidità certe illustrazioni, fotografie o disegni in cui l’organo sessuale femminile era mostrato aperto, spalancato, quasi squartato in un sacrificio osceno. Si era sempre masturbato guardando la superficie patinata di quei fogli di carta stampata, con gusto e piacere, sognando il giorno in cui avrebbe potuto, finalmente, concretamente, realizzare anch’egli i suoi desideri, affondando in quel misterioso groviglio di carne. Finalmente giunse l’occasione di stare con una donna: la guardò nella sua nudità; ma le cosce non erano lucide come quelle delle fotografie, cercò quel profumo che lo aveva sempre eccitato, rimase disorientato da quell’odore così diverso da quello della carta, provò schifo, non ebbe l’erezione. La storia si ripeté: nella solitudine della sua stanza, provava delizie di paradiso masturbandosi davanti a quelle immagini scintillanti alla luce della lampada. Con una donna vera invece era il disastro. Mi disse: «Sono venuto da lei troppo tardi». Risposi: «Speriamo di no! Cominciamo a lavorare».
Questo potrebbe sembrare un caso eccezionale; ma io ripeto che la gran parte dei maschi, nella nostra cultura, ha schifo dell’organo femminile.
Un giorno venne da me un ragazzo proveniente dalla campagna, solido e tranquillo, si era rivolto a me perché gli avevano detto che una psicoterapia poteva essere utile a curare un suo problema di caduta dei capelli. Era pacificato con la propria sessualità, senza problemi, forse un po’ troppo attratto dalla vulva, cui tendeva con manifestazioni infantili, provando grande piacere nella manipolazione e nello sfregamento. Provava anche un grande piacere nello stimolare oralmente il sesso delle sue partner, succhiandolo con avidità. Una notte fece un sogno: sognò una «sorca», come vengono chiamati dalle sue parti certi grossi topi; questa «sorca» era ricoperta da enormi insetti e piaghe purulente, era sudicia e maleodorante. Dopo avermi detto questo, si interruppe e soggiunse: «Ma noi chiamiamo «sorca» anche la «cosa» della donna!» Era sbalordito: «Ma io non ho mai pensato questo!» Io, sadico, gli dissi: «Ma il sogno lo hai fatto tu!»
Di nuovo riflettei sulla società malata che induce tutti questi rifiuti, questi spaventi per il corpo di un’altra persona. Mi venne nuovamente da pensare al diavolo. Nella stanza accanto, il mio nero pianoforte aspettava qualcuno che suonasse il Mefistowaltz; ma l’esorcismo non ci fu: questa volta nessuno suonò.

6
L’organo genitale maschile è composto dal pene e dai testicoli, avvolti nello scroto, circondati da una peluria più o meno folta. Esso è percepito, sia dai maschi, sia dalle femmine, come un’individualità quasi separata dal resto del corpo cui appartiene. Molti uomini si rivolgono al loro organo genitale come ad un individuo capace di impulsi, desideri, carattere e volontà propri. Coloro che soffrono di disturbi come l’impotenza o l’eiaculazione precoce sentono queste disfunzioni come ribellione del loro organo sessuale. Si trovano tesi per il desiderio e ansiosi di soddisfarlo; ma, lì, tra le gambe, «lui» sonnecchia pacifico; oppure anticipa i tempi del piacere, svuotandosi incontrollabilmente. Tutto questo acquista talora connotazioni di simpatico umorismo; ma più spesso è terribile, perché questa scissione procura conflitti ed angoscia. Quanti maschi sono spaventati all’idea del rapporto sessuale perché pensano di dover dimostrare qualcosa e temono di fare «cilecca»; di non essere all’altezza. Quante crisi, anche gravi, sono iniziate dopo un’esperienza sessuale in cui ha agito il rifiuto del pene alla risposta tanto attesa, la sua non partecipazione.
L’organo maschile è tutto esterno, oggetto di un esibizionismo compiaciuto; la sua patologia è soprattutto psichica.
Il maschio esalta il proprio membro, fantastica su di esso, sulle sue dimensioni; lo vorrebbe enorme, in concorrenza con quello degli altri maschi. Molto presto incominciano i conflitti, i confronti con il fallo, visto o immaginato, del padre e degli amici. Sorge il timore che il proprio membro non sia abbastanza grande; si teme di esporlo alla vista degli altri, sulle spiagge o nelle palestre, davanti ad amici che sembrano forniti di attributi più imponenti e aggressivi. Si ha paura di esibirlo davanti a una donna che potrebbe ridere, confrontarlo con altri, canzonare: «Che vuoi fare con questo cosino?» Conobbi un ragazzino cui due ragazze, prima una e poi l’altra, avevano detto questa frase. Crudeltà femminile? Certo; ma forse anche l’atteggiamento tracotante del maschietto le aveva indotte ad una simile considerazione impietosa. Dalla seconda esperienza egli uscì completamente distrutto.
Il maschio invidia il fallo dell’altro maschio; la femmina lo invidia al maschio. L’organo maschile non ispira, per lo più, sensi di schifo, ma fa paura. Dietro la paura, lo sappiamo, si nasconde il desiderio. Il desiderio che si prova verso l’organo maschile è molto spesso percepibile attraverso lo schermo della paura che ispira, una paura che è però diversa dallo schifo: fa paura per la sua forza, perché è capace di aggredire, di far male, perché può sfuggire al controllo.
Molte donne hanno paura di fissare lo sguardo sul membro virile, sono disposte a sentirlo, a percepirlo, a farsene colmare attraverso la penetrazione, ad assimilarlo come oggetto interno; ma poi preferiscono negarlo nella sua realtà oggettiva. Evitano di guardarlo, e il gesto che le fa distogliere gli occhi da quella vista non è solo frutto di un’educazione impartita direttamente, ma ha radici più antiche.
L’invidia e il desiderio di possesso dominano; il maschio è espropriato del fallo due volte: una volta perché non lo sente mai completamente suo e non è in grado di dominarlo come le altre parti del corpo, e poi quando ha paura di gestirlo e lo offre alla donna perché ne abbia cura, ne amministri l’energia, la capacità di erezione. Sono due castrazioni che l’uomo si impone prima ancora di essere stato capace di una appropriazione del proprio fallo.

7
L’organo femminile fa schifo, quello maschile fa paura. Questi due sentimenti sono il prodotto di una società malata, dove gli individui sono troppo abituati ai meccanismi di espropriazione. L’alienazione è presente e continua.
Dalle considerazioni che ho fatto finora esce sfavorita la sessualità femminile, soprattutto per quello che riguarda la concretezza degli organi sessuali della donna, vulva e vagina in particolare. Indubbiamente ci sono problemi miei. Rifiuti miei, di maschio orgoglioso di avere un pene e due testicoli. Però, sono sicuro che, pur facendo la tara di quello che è solo frutto di fantasie, desideri e paure mie, questa svalutazione ha sufficiente riscontro nella generalità degli esseri umani.
La mia professione mi mette a quotidiano confronto con persone che mi raccontano come percepiscono il loro essere maschi o femmine, cosa provano per i loro organi genitali e per quelli dell’altro. Il mio cammino insieme a queste persone è iniziato tanto tempo fa: ho capito cose che non avrei mai voluto capire e alcune che, forse per mia tranquillità, non avrei mai dovuto capire. Posso però affermare che il maschio e la femmina non sono creature complementari; da molto tempo è avvenuta una separazione che ha prodotto un continuo processo di autocostruzione delle rispettive individualità di maschio e di femmina. La lotta e l’inimicizia sono prima dell’amore tra i sessi e ancora oggi il rapporto è tra eroi imbelli e dèe castratrici.

8
Un errore grave per uno psicoanalista sarebbe quello di pensare che le differenze tra il maschio e la femmina siano solo quelle secondarie, fisiologiche e sociologiche, di due entità tutto sommato speculari e complementari, ma sostanzialmente uguali. Una simile convinzione non potrà che produrre disastri terapeutici. Un tale terapeuta, per viltà o cialtroneria, vorrà persuadere maschi e femmine che sono uguali, che hanno ugual peso e ugual valore, che la lotta è finita. La lotta, invece, continua, e la guarigione, per uomini e donne, può essere solo la possibilità di appropriarsi di sé, del proprio essere maschi e femmine, magari dominati dalle fantasie di essere l’altro da sé: l’amico, il marziano che viene dalle galassie, ma, più spesso l’individuo dell’altro sesso.
Bisogna oltrepassare la soglia che separa il nostro essere dalla nostra genitalità. La sessualità deve invadere tutto il nostro corpo e la nostra persona. Schifo e paura debbono essere superati. Non è ancora tempo però di lasciare libero il desiderio, perché la sua soddisfazione è ancora reciproca castrazione.
Può essere utile il separatismo sessuale, l’isolamento con quelli che sono del nostro stesso sesso; per cercare di capirci per mettere le basi di un confronto che deve avvenire poi anche con quelli dell’altro sesso. Un altro sesso che non è solo fuori di noi, ma è anche dentro di noi.
Guai a chi pratica una psicoanalisi ottimistica: la via è ancora lunga; bisogna cercare però di far sì che a percorrerla siano persone felici perché hanno la certezza di intravedere, in lontananza, Eros: un dio che non ha genitori, che non conosce la separazione tra il maschio e la femmina, che è un maschio. E allora? Io non so andare oltre alla visione di questo giovinetto dalle ali d’oro: ciascuno deve ritrovarlo in sé, anche se è necessario combattere questa lotta impietosa.