14 – Giugno ‘85

giugno , 1985

Sono ben cinque le mostre concomitanti all’esposizione di Palazzo Reale a Napoli delle opere di Salvatore Emblema. Noi abbiamo visitato quella romana alla Galleria Due Ci di piazza Mignanelli 3, dove in due stanze sono esposte alcune opere dell’ultimo periodo di questo, ingiustamente, a nostro avviso, celebrato pittore napoletano.

Nato nel 1929, Emblema ha un curriculum di esposizioni di molti anni e il suo percorso artistico si articola in un rapporto costante con un materiale: la tela di sacco. Talvolta interviene sulla juta con colori anilinici, talaltra con terre colorate o con tecniche miste, una sua peculiarità è la «detessitura» delle tele. I risultati sono di una non figuratività che allude però alle volte alla forma e alle atmosfere.
Le opere della mostra romana hanno titoli come terrae motus, nudo al sole nero o paesaggio in rosso e nero, ma sempre, nelle opere di oggi e in quelle di ieri, il risultato è di una povertà intellettuale assoluta.

Non c’è capacità di comunicare alcunché, è il deserto culturale e morale.
Gli stessi moduli sono ripetuti ossessivamente e insulsamente in una triviale imitazione dell’americano Rothko. Non vogliamo sprecare altre parole per tanta pochezza, ma vogliamo invece spenderne qualcuna per richiamare al buon senso certe persone autorevoli che hanno perso di vista il concetto del ridicolo.
Primo fra tutti G.C, Argan, che noi stimiamo come persona di cultura solida e di grande preparazione, il quale in un articolo del ‘79, riportato nel catalogo generale, usa espressioni che sembrano fare il verso al critico strampalato, parlando di «…lenta destrutturazione dello schermo per recuperare la trasparenza dall’opacità svelando la spazialità interna della materia prima della pittura,…». Siamo consapevoli che è disonesto estrapolare alcune righe da un discorso, ma invitiamo a leggere l’articolo per intero e a constatare che non si ricava niente di più. Non parliamo poi di altri, meno colti e certamente incompetenti, oltre che meno scaltri, come Arcangelo Izzo che scrive un grottesco assemblaggio di parole in libertà, con qualche pretesa di psicologia analitica, per giustificare l’ingiustificabile.