14 – Giugno ‘85

giugno , 1985

Lo spazio di teatro Due, in vicolo Due Macelli 37, è molto gradevole: nuove comode poltrone su cui sedere, un santo barocco che guarda dall’affresco sul soffitto.
Qui abbiamo visto un gruppo di ottimi attori interpretare un pessimo testo: Il Turno di Berto Gavioli.
Tanto era piacevole, sciolta e professionale la recitazione, quanto risultava rigido, dilettantesco e spiacevole il testo. Nella trama iper-realismo e surrealismo si mescolano: in una sala di doppiaggio, durante il turno dalle nove alle tredici, si sviluppano tra gli attori che vi lavorano bozzetti di vita vissuta, frammisti a problemi tecnici e malignità di un mondo frustrato di gente che ha venduto la propria voce, restando confinata al ruolo di ombra vocale di altri.
I personaggi sono convenzionali: la direttrice managerialmente castratoria, il marito di lei privilegiato e imbelle, la segretaria malinconica e stizzita, il giovane tecnico tenero e sensuale, l’anziano omosessuale torbido e disperato, l’ex attore affermato eterosessuale e fatuo, l’aspirante attrice ingenua e perversa.
Fuori c’è Roma travolta da un gigantesco e metafisico ingorgo che rende tutti prigionieri.
Le tensioni esplodono. Insulti e tentativi di violenza e di seduzione.
Vi è anche un misterioso capo, ricco e potente, che arriva ad un certo punto, nelle vesti di un simbolico e fantascientifico trono da fumetto dai roteanti bagliori.
Tutti cercano ad un certo punto di ribellarsi: insultano ed aggrediscono il feticcio del potere; ma, come era fin troppo prevedibile, la frustrazione finisce per trionfare e, mentre l’ingorgo esterno si scioglie, anche le macchinette umane riprendono a girare secondo i ritmi consueti della rassegnazione. Gli attori sono stati bravi tutti; le loro voci erano belle, corrette, personali e ciascun personaggio era reso con acume, anche quelli sulla carta più insulsi e banali; li citiamo in ordine alfabetico: Aurora Cancian, Alberto Caneva, Eugenio Marinelli, Bruna Martelli, Diego Michelotti, Luciano Roffi, Sonia Scotti. La regia dello stesso Gavioli sembrava voler aggiungere qualcosa qua e là, senza riuscirvi: troppe pretese, troppi elementi affastellati alla rinfusa; hanno finito per risentirne anche le scene di Carlo Fonti e le musiche originali di Stefano Macrino e Aldo Azzaro.

Una bella idea che non sortisce però l’effetto sperato è quella che sta dietro allo spettacolo Ti darò quel fior, messo in scena al Teatro dell’Orologio, in via dei Filippini.
L’intenzione sarebbe quella di allestire uno spettacolo cabarettistico, collocato nella seconda parte della serata, favorendo un rapporto tra scena e spettatore di tipo non convenzionalmente teatrale, ma che ricrei un po’ l’atmosfera del tabarin d’altri tempi.
E’ bello che qualcuno abbia pensato che in una città come Roma ci fosse bisogno di rompere il rigido schema degli orari: dovrebbero esserci spettacoli a tutte le ore, anche alle sette del mattino, se pur siamo d’accordo che le ore della notte sono particolarmente favorevoli e galeotte per spettacolini estrosi e frizzanti. Come abbiamo detto, le intenzioni sono buone, ma il risultato non lo è altrettanto, a cominciare dallo stesso cartellone. Non solo infatti vi si legge come ora di inizio le ventitre, mentre lo spettacolo inizia di fatto a mezzanotte meno un quarto; ma addirittura mancano alcune informazioni fondamentali sugli autori dei testi e delle musiche delle canzoni su cui si basa lo spettacolo. Anche la messa in scena è un po’ mal riuscita, triste per uno spettacolo brillante è infatti quel tabarin coi bicchierini di plastica sui tavolini, le gassose in bottiglietta e quattro cioccolatini nella ciotola; si avverte una piccineria da giochino infantile, che ha poco da spartire con la finzione teatrale; sul pretesto di un’esile trama poliziesca lo spettacolo di Marco Mete, autore e regista, mette in scena un Landru, che prima dell’esecuzione, ricapitola cantando la storia dei suoi dieci delitti contro altrettante signore.
Le canzoni di Gill, Pasquariello, De Angelis, Mascheroni & Marf sono intervallate da interventi brillanti del commissario Vecchiato, interpretato dall’ottimo Renato Campese, che con virtuosismo e ironia inserisce brani di repertorio famosi. Gennaro Canavacciuolo canta e recita il personaggio dell’assassino galante, ma risulta debole e ripetitivo e non è aiutato dalle canzoni scelte che sono talvolta brutte volgari e assai poco spiritose.
Non basta che le cose siano del tempo che fu perché siano belle; anche il passato è pieno di spazzatura! Del tutto pleonastica la presenza di Gloria Sapio, donna pluriassassinata.
L’accompagnamento al pianoforte di Edoardo Morello risultava elementare e confuso: non c’è bisogno in queste situazioni di fare del virtuosismo pianistico, ma si deve evitare di ammucchiare tutte le note, tenendo continuamente abbassato il pedale del «legato».

Il titolo dello spettacolo andato in scena al Teatro in Trastevere di vicolo Moroni è Pornografia? e il punto interrogativo ha pesantemente dominato i nostri pensieri per tutti i tre quarti d’ora circa dello spettacolo.
Può una dama attempata stare in bilico su di una scala di legno, mettersi stivaloni e impermeabile di cerata nera, travestirsi da vecchio granduca bilioso, offrire i suoi consigli di maitresse a una giovane prostituta, recitare un sonetto di Shakespeare, pronunciando nel contempo una girandola incandescente di parole sconce? Certo che può!
Se però quella signora sembra una contessa subalpina che un gioco di salotto costringe per penitenza a recitare un monologo osceno davanti a un gruppo di ragazzini, allora la pornografia diventa patetismo.
Ci sono sembrate del tutto assurde le scelte registiche di Claudia Coli e Carlo Pasquini che hanno coinvolto in questo gioco Clara Colosimo; non sappiamo poi fino a quale punto sia responsabile Mauro Bolognini cui il cartellone attribuisce genericamente il «progetto».
I testi sono tutti belli e di autori insigni: Apollinaire, l’Aretino, Diderot, Mozart, Ombrosi, Vignali e Shakespeare, tutti dignitosi e tutt’altro che volgari, a parte la caduta di tono di un Genet moralistico e pre-gay. Superba è stata l’apertura con la lettera scatologica e coprofila di W.A. Mozart alla cugina, di una bellezza che ci ha fatto riflettere sulla grandezza, anche letteraria, di Mozart. Il commento musicale di Marcello Piras ci è parso insignificante, ma un discorso a parte merita la canzone Pornografia del greco Azidakis, col testo italiano ingenuo e scioccherello di P.F. Poggi e che per un effetto, che pensiamo non fosse voluto, ricordava troppo umoristicamente un inno all’Immacolata Concezione di Maria.