Archivio di aprile 1985

12 – Aprile ‘85

venerdì, 12 aprile 1985

Si dice che i farfalloni siano cattivissimi, e si dice ancora che siamo particolarmente accaniti contro la ristorazione romana; invece noi, mentre riconosciamo di essere un po’ perfidi quando parliamo di teatro, pittura, musica e altro, ci sentiamo addirittura angelici nei confronti di chi gestisce esercizi in cui si mangia o si beve. Noi, infatti, ci riteniamo assolutamente vittime, talvolta addirittura martiri, del dovere: ci accostiamo ai luoghi di ristoro con l’animo disposto all’indulgenza e alla tolleranza e con l’aspettativa di qualche piacere; ma, in questa città, bella come nessun’altra al mondo, si mangia e si beve male, malissimo. Di chi la colpa? Non certo nostra.
Anche questa volta, in effetti abbiamo avuto esperienze molto negative. In un ristorante che si chiama «l’originale Alfredo all’Augusteo», in piazza Augusto Imperatore, speravamo proprio di divertirci per qualche originalità. Bisogna dire che il posto è alquanto originale appena entrati avete infatti la tremenda certezza di essere entrati in qualche annesso del cimitero monumentale del Verano: in un gelo grigiastro marmi e stucchi, statue e fontane, vegetazione esotica ed ornamenti di latta dorata riempiono gli ampi spazi, sui tavoli coperti dai sudari delle tovaglie i piatti ben colmi e fumanti acquistano un tono da offerte votive, e su tutto sovrasta il monumento equestre di Alfredo in quadriga di stucco con in mano un piatto di fettuccine.
Queste fettuccine sono d’obbligo nel locale e vengono rimestate con le posate d’oro offerte in dono da, un tempo devoti, divi di Hollywood: è un peccato che al gusto si rivelino un vero e proprio preparato di pastine per neonati, troppo cotte e assai unte, oltre che senza sapore. Tra gli altri primi piatti ci sono degli spaghetti sette colli, che sembrano preparati da una mamma distratta, tanto i diversi ingredienti si ritrovano accostati per caso e il tempo di cottura ha passato ogni limite. Ci è parsa meno peggio la zuppa dell’ortolano, non sgradevole anche se mancante di sapidità e le buone verdure non riuscivano a cancellare del tutto l’impressione di minestra troppo acquosa. Un lepido umorismo nasceva all’assaggio dei secondi: una grigliata con broccoli soffocante e incongrua, un tacchino bianco e stopposo assolutamente senza sapore, cotolette di vitello alla bolognese dure come sassi e un fritto misto le cui componenti difficilmente risultavano, al sapore, distinguibili le une dalle altre. La pasta dei profiteroles era di vecchio cartone e il cioccolato lento e gelido che li ricopriva non aiutava a stare allegri. Bevibile un Frascati, fresco e aromatico benché poco tipico mentre il Chianti era senza sapore. Il conto, sostenuto, non ci è parso però alto per le pretese del locale e della clientela che lo frequenta. Mesti siamo tornati a casa, passando davanti alla tomba di Augusto.

A locali molto ampi si contrappongono locali talvolta così angusti che non possono essere frequentati che da gruppi molto esigui. I due Bacaro, quello di Via degli Spagnoli 27 e quello di Via Vittoria 3/b sono accomunati, oltre che dalla stessa gestione, dalla ristrettezza degli ambienti, il primo appena un po’ più ampio, con muri dipinti, diviso in due; il secondo, formato da una sola stanza stretta e lunga, con poca luce e minuscoli tavolini rotondi o rettangolari dal piano di marmo. Tanto in uno quanto nell’altro si ritrova la stessa cucina e si mangia ugualmente male all’insegna della novità. Non ci sono però né scusanti né attenuanti: per inventare nuovi piatti non basta infatti mescolare a casaccio ingredienti eterogenei ed accostare sapori in modo inconsueto; noi non amiamo la nouvelle cuisine del Maestro Bocuse, ma qui la scuola di Lione non ha nulla a che vedere e lo chef manda in tavola piatti che non hanno senso alcuno e i cui sapori stridono da far rizzare i capelli in testa. – Allora siamo davanti a una cucina caratterizzata finalmente da sapori decisi – viene da dire. E invece no. Con vera magia si ottiene che il palato resti scontento e che le pupille irritate abbiano percepito solo un seguito di spiacevoli aggressioni felpate e poco identificabili. Zuppa di rane, tonnarelli neri ai gamberi e arancio, tonnarelli allo zafferano e frutti di mare, tonnarelli agro dolci, per dire dei primi. Spezzatino di vitella alla pera agrodolce, carpaccio al parmigiano e rughetta, carré di cinghiale alla salsa di ginepro, seppie in salsa rosa olive verdi e pinoli, filetto di manzo al cartoccio con salsa di mostarda e coriandolo sono alcuni dei variopinti secondi. E bisogna dar atto della dote di bella fantasia! Si beve però benissimo, spaziando in una gamma di vini molto ampia: Traminer, Pigato, San Polo rosato, Pinot, Ronco dei Roseti dell’Abbazia di Rosasco, Grignolino, Gattinara, Schiava, sono solo alcuni dei vini che ci sono stati proposti con intelligenza, serviti nelle condizioni migliori, con ineccepibili mariages (e questa è la seconda magia, data l’assurdità dei piatti). L’artefice di tanto garbo e talento è una cortese fanciulla che mesce con un sorriso in tavola e al banco, dando anche la possibilità di una degustazione limitata ad un bicchiere. Al momento dei dolci il suggerimento è più limitato, qualche mousse o crème caramel! Il conto è decisamente alto, ma noblesse obliege e lo snobismo costa caro in ogni campo.

Psicoanalisi contro n. 12 – Il ventre del padre

lunedì, 1 aprile 1985

Proviamo a partire da adesso. Il mio adesso è colmo dell’attenzione che sto mettendo nello scrivere: scrivo e contemporaneamente penso a me che sto scrivendo; e sto scrivendo di me che penso di scrivere: non è un gioco di parole, è un vortice; un vortice in cui mi potrei smarrire. Altri pensieri sbucano da ogni parte: improvvisamente, ecco una frase dello spettacolo cui ho assistito ieri sera. Da quello spettacolo vado col pensiero a Livorno, o meglio: Livorno entra nei miei pensieri. Dove è andato il mio cane? È qui: ho lasciato cadere la mano ed ho sentito il suo naso fresco. Pisa: la piazza dei Miracoli: era piccolo, piccolo, il mio cane, con il nasino umido; io volevo portare gli amici a vedere la porta di Bonanno, ma era tardi, il Duomo era chiuso ed il portale con quei meravigliosi rilievi era già stato coperto dall’altro portone, anonimo, di legno. La mano sul legno. Io voglio scrivere adesso, del mio adesso. Partiamo da questo adesso che, come ho appena cercato di dimostrare, non è mai un adesso. I pensieri vengono dal passato e dal presente. Oggi mi sono dato una scadenza: devo scrivere quello che ieri sera avevo in mente, quello che pensavo mentre mi coricavo. Il pensiero, di nuovo, ha fatto un balzo indietro, però adesso… adesso tende verso il poi, verso là dove si prolungherà questo mio scrivere, fra dieci minuti, un’ora, due ore. Adesso ho anche sete; forse incomincio ad avere fame; ma è ancora troppo presto, adesso. I pensieri ruotano: per fortuna il vortice non mi ha ingoiato.

Anche chi legge provi a partire dal suo adesso, dal suo adesso colmato dall’attenzione per quello che sta leggendo: senza dubbio, gli si staranno però presentando altri pensieri che, affollando il suo adesso, si sovrappongono alla lettura di queste mie righe. Io adesso penso a colui che leggerà il mio adesso, un adesso che, forse, si realizzerà nel futuro. Scrivo per colui che mi leggerà e il cui adesso sarà ricco di tante cose e, insieme, di questi miei pensieri.
Proviamo a partire da questo sentirci saldamente instabili, in questo momento. È possibile essere consapevoli di più di un pensiero per volta? O non è, invece, un continuo oscillare tra pensieri diversi? Le associazioni si espandono in tutte le direzioni: si va avanti e si ritorna indietro, frammenti di pensiero continui; eppure non ha senso parlare di un solo pensiero, poiché ogni pensiero è sempre la stratificazione di una somma di pensieri.

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Prendiamo la classica idea di cavallo: il cavallo e la cavallinità. Nel cavallo c’è la cavallinità e quando penso al cavallo penso ai cavalli: a un cavallo, a una gualdrappa; la gualdrappa ha un colore e quel colore mi fa pensare a qualcosa che non è inerente al cavallo: la fodera di una poltrona. Ma, allora, stavo pensando al cavallo o a quella poltrona? Non posso certo dire che all’idea di cavallo inerisce quella di poltrona; però, mentre pronunciavo la parola cavallo e pensavo alla cavallinità, ai cavalli, s’era insinuata nella mia mente anche l’immagine della poltrona; me ne accorgo solo adesso: dopo. Adesso è consapevole l’immagine di quella poltrona: la poltrona di una mia casa di campagna, e l’odore del camino, lo sento che mi pizzica dentro il naso; quella poltrona è vicino a un camino. Dove sono andati il cavallo, i cavalli e la cavallinità?

Frammenti di pensiero che si intrecciano, sempre spezzati. Non riesco a capire se sia possibile pensare più pensieri contemporaneamente. Vi è una forma illustre di composizione musicale, chiamata «fuga», che ingioiella la storia della nostra musica: una forma costruita sull’ipotesi che sia possibile seguire, contemporaneamente, più pensieri musicali. Il dubbio, però, che questo non sia possibile è enunciato all’inizio stesso della fuga, che incomincia con un’unica linea melodica, cui, dopo qualche battuta, ne segue un’altra, simile, alla dominante, e poi un’altra, e un’altra ancora, che entrano in successione; le linee melodiche si dipanano e si aggrovigliano; ma sono accordi quelli che sentiamo, o invece riusciamo a seguire tutte queste parti? O, ancora, avviene che ne seguiamo una sola, mentre le altre divengono lo sfondo? Che cosa segue veramente l’orecchio?

Quando la eseguo, con le mie dita, su di una tastiera: due mani, quattro voci e tanti meravigliosi artifizi, ogni tanto, una voce deve essere abbandonata, e rimane sospesa nell’aria, poi viene ripresa e ancora sospesa; ma è sospesa davvero? Quattro voci o sempre soltanto una successione di accordi?
Quando guardo un quadro che cosa guardo: un occhio? E il castello, dietro le spalle di quella figura femminile, bianca e azzurra, rosa, verde e marrone? Un occhio, eppure dietro le spalle della persona ritratta c’è una finestra, e oltre la finestra le colline senesi, e là un castello. Che cosa guardo: le palpebre o l’iride, o quel puntino nero, o quel bagliore? Forse che non vedo quel castello, non vedo la finestra e il cielo? Il quadro lo vedo tutto, e vedo anche la cornice, la parete: tutto questo entra nel mio sguardo. Inoltre, a ciò che vedo guardando il quadro, si aggiunge il ricordo: guardare e ascoltare, forse, sono solo due aspetti del ricordare; ricordare di aver guardato, di aver ascoltato.
Ma, se non si guarda e si ascolta nel momento in cui si guarda e si ascolta, quando poi si ricorda, che cosa si ricorda?
Nel momento in cui si guarda e si ascolta, si guarda dunque e si ascolta veramente qualcosa, non solo si ricorda. Eppure è anche un continuo ricordare. L’orecchio prende e abbandona le voci della fuga. Lo sguardo prende e abbandona le varie parti del quadro. Sempre c’è anche il ricordo di aver visto e udito: per un momento però è stato necessario attualizzare il gesto di guardare o di ascoltare. Lo sfondo, forse, è un’illusione. Probabilmente gli sfondi non esistono. Esistono frammenti di pensieri, di sensazioni, di percezioni, che roteano. Un solo pensiero, in un solo istante e, dietro, attorno, tutto il resto.

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Il fatto è che la consapevolezza non è mai consapevolezza. Si crede di potersi concentrare solo sulla consapevolezza dello scrivere; ma non è possibile scrivere essendo solo consapevoli di scrivere. Lo scrivere è anche altro: è scrivere della consapevolezza. E ricomincia la folla dei pensieri; o meglio: non ricomincia un bel niente, perché è sempre un tutto continuo.
Pensare è sempre anche ricordare e scegliere alcuni tra i ricordi, deformarli, attualizzandoli, per poi nuovamente lasciarli cadere nell’inconsapevolezza.
Il momento della coscienza è un momento intriso di inconsapevolezza. La coscienza è un’astrazione, l’autocoscienza un’illusione.
Si dice che, in psicoanalisi, si prenda coscienza. La terapia psicoanalitica consiste nel districare un po’ il cumulo dei ricordi; ma soprattutto nel ricordare in modo diverso. L’inconscio non è l’inconsapevolezza; l’inconscio è definibile soltanto negativamente: è ciò che non è conscio. Così pure la coscienza è definibile soltanto come ciò che non è inconscio.

L’inconsapevolezza è un fluire continuo tra il conscio e l’inconscio. Si è sempre inconsapevoli, perché si vede sempre soltanto una piccola parte di un tutto, che affonda le proprie radici non si sa dove. Prendere coscienza non significa superare l’inconsapevolezza, non è soltanto far diventare conscio ciò che prima era inconscio. Prendere coscienza vuol dire ristrutturare il campo, darsi nuove ragioni, che non sono certo le ragioni prime su cui basiamo il nostro agire e il nostro essere, ma sono ragioni che ci sono sfuggite e che però hanno continuato ad avere effetto. Ogni gesto ha motivazioni consapevoli e motivazioni inconsce. Uso il termine inconsapevolezza per definire quel continuo smarrimento che prende quando si pensa al proprio inconscio e alla propria coscienza e ci si accorge di non possedere né l’uno né l’altro, ma di essere l’uno e l’altro.

Non siamo in grado di controllare né il conscio né l’inconscio, possiamo soltanto indagare e, attraverso questa indagine, appropriarci un po’ dell’uno e dell’altro. Con questa appropriazione, che è anche una riappropriazione, non giungiamo al possesso di noi, ma giungiamo ad un maggior controllo, che non deve essere però il controllo sterile, gravido di sofferenze, del rituale ossessivo; ma deve essere un controllo che coincide il più possibile con l’abbandono.
Controllare per potersi abbandonare, sapersi abbandonare soltanto se si è in grado di controllare anche l’abbandono; non è una contraddizione, è un’armonia.
Il controllo ossessivo è una prigionia; il controllo di chi si sa abbandonare è una rilassata serenità. L’abbandono scomposto è delirio e depressione; l’abbandono è una consapevolezza piacevole di sentirsi fluire con il tempo e nel tempo.

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La psicoanalisi non soltanto serve a gettare luce su alcune motivazioni del nostro agire presente, ma serve anche a riappropriarci di un po’ di passato. L’uomo, vivendo, si spreca: si spreca perché non sa e soprattutto perché non vuole sapere. Fantasie e desideri continuamente agiscono, si intrecciano e si sciolgono. Nessuno è sincero quando racconta la propria vita, neppure quando la racconta a se stesso. Per capire noi stessi dobbiamo, prima di tutto, capire le motivazioni che muovono gli esseri umani; che muovono coloro che vivono insieme con noi.
Se non si capisce l’inconscio sociale, non si capisce l’inconscio individuale. La psicoanalisi non è mai solo una terapia individuale; proprio per questo gli imbecilli e i vili ne hanno paura e l’accusano di non essere scienza, di essere metafisica, di essere una cialtroneria.
Il mondo dell’uomo trova invece, nell’atteggiamento psicoanalitico, una chiave di lettura insostituibile. Ovviamente non basta dire: «atteggiamento psicoanalitico», bisogna poi anche determinare quale psicoanalisi si intenda usare come strumento; ma al di là della posizione di chiusura assunta da molti di coloro che stanno arroccati entro i dogmi della loro scuola, le diverse correnti psicoanalitiche, mettono a punto, nonostante tutto, con il loro stesso scontrarsi ed opporsi, strumenti validi per la ricerca e la comprensione delle dinamiche sociali.

Non intendo parlare qui di un ecumenismo psicoanalitico, al contrario, io penso anzi che, attraverso gli scontri, si possono chiarire molti problemi. L’inconscio sociale viene in questo modo frugato e il riduzionismo di vecchie chiavi di lettura è smascherato.
Se è facile il moralismo, anche in politica, che pure suscita tanta ammirazione nel Poeta:

«…Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande,
che temprando lo scettro a’ regnatori,
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;…» (U. Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 154﷓158),

meno facile è affrontare dinamiche che si nascondono dietro consuetudini morali e slogan collettivi, introiettati, sul sesso, sull’amore, sulla famiglia, sul maschio e sulla femmina, sul lavoro e sulla sincerità. Ciò che, per secoli, è stato venduto come bene o come bello può rivelare, se ci si mette da un altro punto di vista, malvagità e brutture. Bello e brutto, buono e cattivo; lo scetticismo è sempre in agguato; ma lo scetticismo è un atteggiamento utile soltanto quando è superato.
L’inconscio comune si fonda su valori che lo trascendono; ma questi valori, a loro volta, hanno formato l’inconscio di una collettività.
I valori non possono essere distinti dai desideri, che si esprimono attraverso i bisogni, i quali stanno a fondamento dei valori. Il fondamento sta proprio in questa circolarità; importante è sentire l’esigenza del fondamento, che non deve però restare immutabile e inamovibile. Ecco perché io ribadisco il valore della lotta: la lotta per porre le nuove fondamenta. Dare un fondamento alla società può sembrare opera bizzarra e inutile, la società ha comunque un suo fondamento.

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L’inconscio del gruppo sociale è simile ad una caverna ripiena di cose meravigliose, le cui profondità non potranno mai essere del tutto esplorate; però non bisogna, per timore, rinunciare a portare alla luce tutto ciò che è possibile.
Ho parlato di una caverna, quindi di un ventre, il ventre di una madre e di un padre. Il ventre del padre è ancora più misterioso del ventre della madre, che si spalanca nelle contrazioni del parto. I padri partoriscono nel mistero. Il mistero dei padri si presenta senza veli, come la nudità delle antiche divinità maschili. Il maschio è prima del padre.
Su che cosa si fonda il maschio? Anche qui la circolarità.
Non bisogna però smettere di scrutare, di sforzarsi di capire.
Le intuizioni, anche geniali, se troppo ripetute, diventano banalità, sciocche formulette che cullano i vili e gli imbecilli.
Un popolo, un gruppo sociale, come formano il proprio inconscio? Su cosa fondano le loro dinamiche? Perché quel colore di capelli, quegli occhi, quel corpo; perché quella lingua, quelle abitudini, quei sogni? Perché quella morale, quella scienza, quella filosofia e quell’arte? Perché nel cielo, tra gli alberi e nelle fonti, quel dio o quegli dèi, anch’essi con un volto, una lingua, un carattere e, probabilmente, dei sogni?
Quel popolo, con la sua morale, i suoi dèi, il suo corpo, ha scelto qualcosa di ciò che è, oppure tutto gli è stato dato? Dato da chi e quando?
Ritorna qui il problema dell’espropriazione: un gruppo sociale è espropriato di ogni possibilità di scelta?
Pensieri, valori, lotte non sono che il frutto di un meccanico divenire, che si fonda su un’opaca fattualità.
Esisteva un tempo il mondo, esistevano condizioni climatiche, caratteristiche del suolo, della vegetazione, le acque, il sole. L’uomo, unendosi ad altri uomini, ha imparato a vivere in quel mondo, con quelle risorse, le ha manipolate, si è forgiato in un ambiente talvolta ostile; ma, dentro di lui, esistevano già misteriose pulsioni, desideri.
Ha guardato l’amico e l’amante: qualcuno aveva di più e qualcuno di meno; ha sentito il bisogno di controllare e guidare sé e l’altro.
L’altro si è ribellato o ha accettato.
La lotta non è mai stata soltanto per la sopravvivenza, questa è un’ingenua favola evoluzionistica.
Si lotta per vivere, non per sopravvivere. Anche nelle situazioni più disastrate l’uomo desidera ed ha sempre qualcosa di più che la semplice sopravvivenza. Può essere una fantasia, un sogno, un gioco, un gioiello o una danza.
La pura sopravvivenza non si sa bene che cosa sia: la vita è sempre caratterizzata da molte più possibilità di quante ne siano necessarie.
Questo vale anche per la sessualità: sesso e procreazione non coincidono; un’altra ingenuità evoluzionistica è quella che riduce la sessualità alla esigenza della conservazione della specie.
Il sesso è ben altro che il coito procreativo.
I baci e le carezze vanno oltre la dialettica dei due sessi; la sessualità naturale non è, probabilmente, mai esistita; certo non esiste più da molti millenni.
La sessualità è un piacere che si esprime attraverso un rituale, basato su gesti permessi e gesti proibiti; il piacere che la permea è un piacere oscuro, continuamente contraddetto dal senso di colpa e dai tabù; ma non per questo è meno un piacere. Il comportamento sessuale non è un dato di fatto: è forse l’acquisizione più artificiale e più contronatura dell’uomo.
Questa mia affermazione avrebbe un senso, però, solo se io fossi convinto dell’esistenza della natura. Ma, se neppure la natura ha fondamento, dove è e cosa è il fondamento?
Una società non sceglie perché non può scegliere: costruisce i propri valori adeguando i propri desideri, che sorgono, a loro volta, da un’adeguazione precedente. Eppure i capi, i preti, i filosofi, i genitori, i vecchi e i giovani parlano dei valori del loro gruppo sociale e disquisiscono; talvolta si oppongono a valori antichi con nuove ragioni, su cui fondano nuovi valori. I rivoluzionari, i ribelli, i riformatori, i geni esprimono la coscienza sociale di un gruppo; ma, come per l’individuo, la coscienza è sempre mescolata all’inconsapevolezza e affonda nell’inconscio. La fattualità è un meccanismo, questo meccanismo può chiamarsi destino oppure divinità.
Ma è utile lasciarsi così andare a questa espropriazione?

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Prima ho parlato della profondità misteriosa del ventre del maschio e anche della sua spudorata ed esibita nudità. Sento, nel maschio un fondamento che mi inquieta e mi affascina: so di dire questo anche perché io sono maschio e cerco in me il mio fondamento.
Proietto me stesso nel mondo e mi identifico: con la donna, con gli animali, con la natura; e poi ritorno a me, maschio continuamente contraddetto, e trovo in fondo al mio ventre anche la madre, anche la femmina; sebbene io rifiuti come una semplificazione blasfema e pseudoscientifica la favoletta della bisessualità. La bisessualità non è che una leggera contraddizione dell’anatomia del corpo umano: il maschio e la femmina hanno la loro origine in qualcosa di più nascosto e sacro. Io sono partito da me ed ho scoperto gli altri, li ho trovati intorno a me e dentro di me: maschi e femmine; ed ho trovato anche il mondo, con i suoi movimenti, i suoi rumori e i suoi colori che hanno contribuito a costituirmi. Mi ha costituito la storia del ventre di mia madre, la mia storia in quel ventre, le prime carezze, le prime paure, i primi momenti di gioia.

Io, adesso, sono il frutto del mio passato: il mio inconscio e la mia claudicante coscienza non hanno realmente un inizio, mi sono stati dati.
Se mi sono stati dati, anch’io, come persona, sono espropriato di ogni possibilità di scelta: sono quello che sono e diverrò quello che mi sarà concesso di diventare.
Se però sono costituito dagli altri e dal mondo, e se il mondo si basa su di un fondamento che non è una scelta del gruppo in cui sono nato, come posso scegliere me stesso?
Io, che sono lo specchio del mondo, rispecchio un mondo senza libertà di scelta. Questo mondo si rispecchia in me ed io sono il contenuto di questo specchio. Ma, se sono soltanto uno specchio, non sono: mi perdo negli altri e nell’altro da me.
Sento che questa è un’affermazione assurda: gli altri e il mondo sono perché li riconosco e dico loro: «Voi siete! ».
Il mio riconoscimento è anche creazione: il mondo e gli altri si fondano in me. Ritorna la circolarità.

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Non è soltanto il problema della prevedibilità scientifica; non si tratta solo di decidere se lo scienziato della psiche, potendo prevedere il comportamento dell’uomo, annulli la sua libertà. Il problema sta nel sapere se esista un gesto primo, su cui si fondano gli altri gesti, e se quel primo gesto è scelto o è dato; ma ciò va al di là delle possibilità della scienza. La risposta non si può trovare nei manuali di biologia, antropologia, psichiatria e psicoanalisi. I manuali si fondano sui trattati e i trattati si fondano sugli esseri umani, i quali hanno appreso queste cose dalla loro vita e dai gesti degli altri; ma i gesti degli altri sono anche frutto della povertà dei manuali. Le possibilità sarebbero tante, ma i manuali, scritti o recitati a memoria dalla tradizione, privano l’uomo della possibilità di molti gesti. I manuali sono utili e pericolosi allo stesso tempo; senza manuali non si legge il mondo; ma il mondo imprigionato nei manuali è privato di molte possibilità, che lo renderebbero più ricco, più bello e più interessante.
Bisogna contraddire i manuali, non il mondo.

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Io non so se scelgo la mia vita, i miei pensieri, i miei desideri. So che me li trovo addosso, dentro di me e dentro agli altri. Molti psicologi del passato si sono posti il problema della scelta della malattia psichica. Il disagio psichico è frutto di uno scontro e incontro di situazioni esistenziali, pulsioni interne, traumi esterni.
È importante credere che l’esistenza di una persona sia anche frutto di una scelta.
Ogni malato ha un suo stile, perché ogni essere umano ha una storia con una sua peculiare architettura.
Ho fatto confusione fra stile e scelta: un gesto può essere inserito nello stile di una persona ed essere frutto di una struttura coerente, che però può non dipendere minimamente da una scelta. Se la scelta fosse libera contraddirebbe addirittura la possibilità di uno stile, che, invece, pretende una certa costanza.

Eppure, secondo me, scelta e stile si compenetrano: sono come la parte interna e quella esterna di una maschera, la parte concava e la parte convessa; non sono separabili, ma sono diverse; non sono soltanto opposte, sono diverse, che è molto di più.
Io sto a guardare la maschera, davanti e poi dietro, per cercare di capirne il significato.

12 – Aprile ‘85

lunedì, 1 aprile 1985

In quell’orribile postaccio (uno squallido ex-cinematografo, l’altra sera anche gelido) in cui l’Accademia Filarmonica Romana si ostina ad ammannire quel minestrone sconclusionato che è la sua stagione di concerti, il giovane pianista canadese Louis Lortie ha presentato un concerto intorno al quale vale la pena di fare alcune considerazioni. Questo giovanotto non ha problemi nel tradurre sonoramente il suo modo di leggere lo spartito: la scioltezza delle sue mani è sbalorditiva, passaggi ed accordi sono precisi, esposti con sicurezza e, spesso, anche in modo lucido ed accattivante. Nonostante ciò corre, come pianista, il grandissimo rischio di presentare i suoi brani come se fossero uova di Pasqua: nastri di raso troppo variopinti, stagnola luccicante, il tutto posato su base di plastica. E la sorpresa? Eppure, benché sottilissimo, lo strato di cioccolato è buono. Molto gradevole è stato nell’esecuzione dei Tre Capricci (Il lamento, La leggerezza, Un sospiro) di F. Liszt, accattivante e sempre corretto, eccetto forse nell’uso del pedale nel primo brano. Ottimo l’abbiamo trovato nella Sonatina di M. Ravel, in cui si è dimostrato meditativo e persino un po’ contenuto; mentre si è potuto scatenarne La Valse, dello stesso autore, dal semplice e astuto virtuosismo compositivo, di cui Lortie è riuscito a mettere in luce la ricca armonia e l’arguto umorismo; brano questo che consente all’esecutore di gigioneggiare, perché in questa circostanza Ravel stesso ha voluto essere splendido gigione. Nei Dodici studi op. 10, di F. Chopin, Lortie ha lasciato intravedere al meglio la sua buona stoffa e la sua grande sensibilità musicale. Con due difetti: il primo consiste in un’esecuzione sempre troppo rapida, anche se mai squilibrata nei rapporti dinamici interni; il secondo difetto è di eseguire questi «studi» troppo come se fossero studi. Anche se il primo verte sugli arpeggi lati, il secondo sui disegni cromatici, il terzo sul cantabile, etc. tutti e dodici vanno ben oltre la scolastica esposizione di difficoltà tecniche da superare. Tutti gli studi di Chopin, sia dell’op. 10, sia dell’op. 25 raggiungono le vette più alte, in assoluto, della musica. Ciò che è risultato evidente nel concerto del 20 marzo all’Olimpico è la presenza di due tendenze in conflitto: il desiderio di un successo immediato con la musica troppo patinata, che non riesce però ad ottundere la forza e la dolcezza che, se sviluppate, potranno trasformare Louis Lortie in uno splendido esecutore. Gli consiglieremmo di cercarsi un altro maestro, o di innamorarsi. O meglio: di innamorarsi di un altro maestro.

Fuori c’è la solita notte romana di questo marzo, piove, ma c’è un lontano sentore di primavera; dentro alla stanza appannata dal fumo e dalla penombra suona: uno/due/quattro strumenti, rock/folk/ jazz, bene/male: non lo vogliamo dire. Perché questa volta i farfalloni sono così misteriosi? Perché sono un po’ stravaganti, e poi perché ci ha accolto un ragazzo dolce e simpatico e anche gli altri ci sono parsi persone un po’ sperdute, inesperti e non imbroglioni, non abbiamo colto alcuna tracotanza. Magari sono stati meravigliosi mistificatori che hanno saputo bene infinocchiarci; ma noi, che siamo anche fini scrutatori di anime, abbiamo l’impressione di non esserci sbagliati. Nelle nostre peregrinazioni notturne siamo continuamente alla ricerca di posti e posticini in cui si possa ascoltare un po’ di musica di qualunque genere e mangiare o bere qualcosa di gradevole e semplice; ma troppo spesso si è ripetuta, con variazioni anche meno simpatiche, questa situazione in cui tutto è sbagliato: la musica lascia a desiderare e in tavola si rovesciavano disastri. Non è soltanto il mezzo litro di panna in ogni salsa (si sa che i farfalloni sono nemici giurati di questo derivato del latte, quando entra in cucina), ma è il fatto che si aggiunge al vino bianco non tenuto al fresco, mentre quello rosso viene dal frigorifero (come la frittata di zucchine) e non è nemmeno un giovane lambrusco; i secondi poi sono uniformi pezzi di stopposa carne, tutti uguali nel sapore, nonostante i piatti abbiano nomi diversi. È vero che il conto non è alto, ma è assurdo che non si abbia diritto di mangiare bene se non si spendono centomila lire a persona. Perché i giovani debbono imbrogliarsi a vicenda? O essere insensibili e cretini come quei quattro del tavolo a fianco? Sono due maschi e due femmine, il Nasone parla con l’altro maschietto di arte figurativa e di architettura: Bauhaus, Kenzo Tange, Brasilia, il maschietto tenta di dire la sua, ma il Nasone non permette che le idiozie dell’altro tolgano spazio ai suoi sproloqui; le due ragazze, molto belle, molto vestite giuste squittiscono tra loro, più sottovoce, e ogni tanto sgranano gli occhioni in doveroso, reverente tributo alle argomentazioni con cui i maschi sostengono le proprie tesi. Tutti e quattro fumano mentre mangiano e non solo tra un piatto e l’altro, il Nasone addirittura non toglie la cicca di bocca nemmeno quando ingurgita un boccone o tracanna un sorso. Sembrano i soliti che non capiscono niente di quello che mangiano e bevono; ma ad un certo punto il soggetto della discussione si sposta: ora Nasone indottrina il maschietto su quali sono i vini genuini e quali no, sommando una sull’altra mille ovvietà da intenditore. Allora è giusto che i locali siano così, che nessuno si sforzi in cucina e in cantina, se a nessuno importa riappriopriarsi del diritto elementare di mangiare buono e sano al giusto prezzo.

Una sera, passeggiando dopo uno spettacolo finito troppo presto, entrammo per caso al Mississipi Jazz Club, in Borgo Angelico 16. Un locale stile anni sessanta, frequentato da gente con gli anni in «anta», dove fa atmosfera anche un simpatico «vecchio Sam» che serve birra alla spina. Volevamo ascoltare un po’ di jazz, né ci importava molto che fosse di un tipo piuttosto che di un altro; fummo fortunati: si stava esibendo un quartetto composto da Gianni Sangiusti al clarino, Carlo Loffredo al contrabbasso, Francesco Forti al saxofono e Sante Isgrò alla batteria, cui più tardi si unirono il trombone di Roberto Nicolai e il basso-tuba di Gilberto Debbi.
Una musica pastosa e gradevole, retta da una precisa logica armonica del contrabbasso. Ci ha subito incantato il sax di Forti, e su di lui si è incentrata la nostra attenzione per gran parte del tempo: sensuale e preciso, anche quando, se pur timidamente, ha usato la voce. Dal rimpasto degli esecutori e dalle aggiunte di Nicolai e Debbi, con Loffredo passato al banjo, è scaturito un jazz franco-italiano, senza la sciatteria del casareccio; intelligente e seduttorio, talvolta un po’ facile, ma sufficientemente preciso e abbastanza immune da tentennamenti ritmici e slabbrature armoniche, come troppo spesso accade invece nel jazz di qualunque tendenza, quando è eseguito da bianchi. Avevamo fame e sete: abbiamo cominciato con alcuni cocktail aperitivi: Affinity, Bobby Burns, Negroni, tutti decisamente sbagliati, ma non sgradevoli. Non ci aspettavamo di mangiare bene e in effetti alcune cose erano decisamente cattive: hamburger surgelati, crostini tristi e salse da supermercato; però abbiamo avuto una gradevolissima sorpresa quando abbiamo assaggiato alcuni piatti di pasta, preparati con perizia: penne Hot, oppure ai piselli e funghi, ottime e stupefacentemente senza panna. La birra alla spina e in bottiglia buona sempre, mentre i vini, bianchi e rossi, ci sono parsi banali e troppo cari.

12 – Aprile ‘85

lunedì, 1 aprile 1985

Nestore Venturini, Enciclopedia delle bevande alcoliche, con la collaborazione di Adelio Schiavon Tonnato, edizioni M.E.B. Padova, pp. 250 Lit. 38.000. Lo stesso autore è ben consapevole che non è possibile esaurire in un sia pure ben curato volume la materia tanto estesa, per cui le informazioni non possono essere che succinte e a volo di uccello su alcuni argomenti. Il capitolo dei vini ci pare aver sofferto principalmente di questa necessità di sintesi, anche se non ha giustificazione l’affermazione un po’ troppo sciovinista che: «La Francia che per secoli ha dominato il mondo con i suoi grandi vini…, oggi ha dovuto cedere lo scettro all’Italia…» Oltre tutto, non è neppure vero: è solo una stupidaggine. Ottima, invece la trattazione degli altri soggetti: su quasi tutte le bevande alcoliche più note sono date informazioni chiare, documentate e la consultazione è sufficientemente facile e permette, a chi ne abbia il desiderio, di orientarsi bene in questa foresta alcolica. La sezione dei cocktails è impiantata bene e può costituire una buona base di partenza per l’amatore che vuole anche diventare conoscitore.

Forse discutibile la scelta delle marche commerciali e dei produttori, che, data la vastità e la mutevolezza della materia, non può essere affrontata senza il sospetto di una volontà promozionale di quelli che si sono scelti. Tutto sommato un volume interessante ed anche un libro-oggetto dal costo non troppo elevato e dal bell’aspetto.

12 – Aprile ‘85

lunedì, 1 aprile 1985

Cinecittà è il titolo di un esilissimo canovaccio che è una grande occasione per celebrare il trionfo del teatro. Lo spettacolo è andato in scena al Teatro delle Arti di Via Sicilia, è una commedia con musiche di Pier Benedetto Bertoli e Antonio Calenda, che racconta la storia di una giovane aspirante attrice che incontra due guitti di avanspettacolo che si aggirano, spaesati, nella nascente città del cinema, voluta dal Duce sulle rive del Tevere. I due si fanno carico di proteggere la giovane nell’arte e nella vita, come padri e pigmalioni, destinati ad essere abbandonati quando lei avrà raggiunto il successo, simbolicamente rappresentato, a metà tra il sogno e la realtà, da una fuga di immagini cinematografiche. Alcuni grandi attori, guidati ma non sopraffatti, si dovrebbe dire quindi: concertati dal regista e co-autore Antonio Calenda, sono riusciti a far capire che cosa deve essere il buon teatro. Buono in tutti i sensi, perché intelligente, poetico, divertente e culturalmente valido. Cultura non vuol dire noia (come credono, invece, coloro che hanno messo in scena la Fedra di Racine, con quella poveretta di Anna Maria Guarnieri) e questo è il vero grande teatro barocco, dove impari a recitare con un maestro che recita con te: splendida e indimenticabile la scena che ci insegna cosa vuol dire in arte, e forse nella vita, avere un Maestro. Ad un certo punto, la giovane attricetta, che si trova cooptata nella compagnia di avanspettacolo dei suoi due «tutori», viene ammaestrata nell’arte di muovere le anche dalla vecchia attrice (interpretata da Rosalia Maggio). Noi non abbiamo veramente più capito se si stava fingendo di insegnare o se veramente in quel momento l’esperta attrice non stesse dando li sulla scena alla giovane Nikki Gaida una lezione. Invitiamo comunque la giovane «allieva» a non dimenticare mai ciò che, nella finzione, le è stato insegnato davvero. Rosalia Maggio è superba, aggressiva e seducente; riesce a scaraventare sul pubblico una girandola di sconcezze, senza diventare mai volgare, ma restando sempre e solo irresistibilmente spiritosa. Certo, qualche volta fa quasi paura: riesce ad esaltare infatti nei maschi profonde e ancestrali fantasie di castrazione; ma, tant’è: il teatro e la vita sono fatti anche di questo. Ad altissimo livello la infaticabile e scoppiettante Anna Canipori (nel personaggio di Tecla, l’affittacamere innamorata del teatro e dell’attore) che, ad ogni istante, esibiva in continuazione piccoli e grandi gioielli di bravura professionale e di intelligenza teatrale. Irresistibile la comicità di Roberto Bencivenga (Dino Doni), ritmico, preciso, dallo sbalorditivo virtuosismo vocale, che egli sa trasformare in attenta comunicazione con il pubblico. Belli ed efficaci anche i personaggi del gerarchetto di Dodo Gagliarde, il Blasetti di Virgilio Quagliato, l’Alessandrini di Alfredo Girard, il bieco custode del teatro di Tiziano Pelanda. Attori questi, impegnati, oltretutto, a sostenere più ruoli.

Spiritose e bravine le segretarie-soubrettine Maria Cioffi e Carla Signoris. Infine, vogliamo parlare di Dino Valdi e Pietro De Vico: la coppia dei due sopravvissuti del vecchio mondo dell’avanspettacolo. Esplosivi in una comicità talvolta astratta, metafisica, alla Jonesco, quasi, ma più calda e mediterranea.
Abbiamo detto che il testo è un canovaccio perché ognuno dei due attori vi si è appoggiato anche per presentare gags e pezzi di bravura dal repertorio accumulato in lunghi anni di vita sulle scene. Il sogno, la realtà, il teatro nel teatro, si mescolano continuamente. L’esplosivo finale dell’avanspettacolo rappresentato non è lo stesso della commedia, che si conclude con una tenerissima scena d’amore tra i due vecchi attori che forse sognano o forse no. Mentre si sente cantare da tutti il gradevole tema della canzonetta conduttrice di tutto lo spettacolo, esplodono le bombe della seconda guerra mondiale. Non c’è retorica, ma solo commozione, che diventa entusiasmo quando si ha la possibilità di liberare l’applauso finale. Splendide sia le musiche originali, sia gli arrangiamenti di Germano Mazzocchetti e Mario Pagano, eseguite dallo stesso Mazzocchetti al pianoforte, da Antonio Schioppa al contrabbasso e Gaetano Di Pietra alla batteria.
Costumi appropriati di Ambra Danon e scene, giustamente povere, di Nicola Rubertelli.
Gli inserti filmati intervengono con efficacia a scandire il tempo della rappresentazione e della Storia.

In via del Collegio Romano n.1, c’è un bello spazio teatrale: le due sale, comode e accoglien ti, precedute da un bell’ingresso, della Scaletta, dove abbiamo visto rappresentare «Due Estati a Vienna» di Carlo Vitali.L’autore è un musicologo bolognese, che conosce indubbiamente bene la storia della musica; ma che proprio non sa dove stia di casa il teatro. Ha tentato di scrivere un copione su di un pezzo della vita di Vivaldi: la sua andata a Vienna nell’illusione di trovare fortuna e la morte. Ne è risultato un testo irrimediabilmente noioso, con Vivaldi che scrive e riceve lettere, e con una giovane nipote che intristisce a fianco del vecchio prete amareggiato e disgustato del mondo. Nel primo atto, arriva una virtuosa cantatrice bolognese che dice un po’ di banalità, nell’intento non riuscito di delineare un carattere; nel secondo tempo giunge un castrato che accudisce e mette a letto il vecchio e fa l’amore con la nipote (e questa è una bizzarria). Don Antonio Vivaldi, detto il «prete rosso», muore, nell’indifferenza di tutti, anche degli spettatori, soprattutto degli spettatori.
Consigliamo al signor Vitali di continuare a fare il musicologo e basta. Stranamente, un musicologo ha avuto bisogno della consulenza musicale di Arnaldo Morelli, non poteva farsela da sé? Si ascoltano splendidi brani di musica: da Bach ad Haendel, da Biber e Vivaldi, ovviamente; ma il tutto con un che di appiccicato, come se si tentasse di far entrare la musica nella vicenda, ma essa vi restasse volutamente, chissà perché, estranea. Un discorso opposto deve essere fatto sulla realizzazione scenica: la regia, con quel testo tra le mani, non poteva fare di più; il regista Luigi Tani, che impersonava anche Vivaldi, ha scelto per sé una recitazione forse un po’ troppo stentorea; nel tentativo, pensiamo, di dare robustezza alle gracili battute del copione. Veramente ottima Ivana Giordan, che impersonava, nel primo tempo, la virtuosa e, nel secondo, il castrato: due personaggi ben riusciti, resi con il corpo, l’intonazione, il volto, la recitazione ben differenziati nei due casi; proterva, ciarlatana, invadente, la virtuosa; sentimentale, appassionato e bizzarro il giovinetto.
Uno spettacolo che, nonostante il testo, non lascia insoddisfatti soltanto.

La stessa Compagnia Teatro d’Arte ha messo in scena al Teatro Eliseo Uno sguardo dal ponte, di Arthur Miller: un ampio dramma, dalla solida struttura, scritto con magistrale abilità di artigiano, ricco di idee teatrali e di effetti sicuri, anche quando sono un po’ facili. Lo spettatore
rimane coinvolto dal testo e da quello che il regista Antonio Calenda riesce a farne, con la solita magistrale capacità. Le scene si susseguono precise con ritmica concretezza e interna poesia, niente risulta ovvio o banale. Il commento sonoro di Mario Pagano, sebbene scarno, coagula suoni tra il metafisico e il realistico, di eco dal porto e di ansia sospesa. I costumi diAmbra Danon hanno la preziosità di una Ambra Danon hanno la preziosità di una ricostruzione filologica mentre le scene di Nicola Rubertelli sintetizzano in uno stesso spazio i luoghi e i momenti della storia. Eddie Carbone, portuale di origine italiana che vive a Brooklyn, si trova a lottare contro tutti per difendere un disperato amore per la giovane nipote, che ha allevato in casa come una figlia. Contro la moglie e contro il giovano lavoratore clandestino che vuole sposare la ragazza, contro il buon senso e contro la legge, ma soprattutto contro se stesso. Tanto che arriva a tradire, denunciando il giovane, insieme con il fratello, all’ufficio immigrazione. Con la denuncia scatta il meccanismo della vergogna e della vendetta: Eddie muore in una specie di duello rusticano, ucciso dal fratello del ragazzo. Tutto ruota intorno a tre splendidi personaggi: Eddie e i due fratelli italiani, Marco e Rodolfo. E per tutto il tempo ci si chiede: di chi è veramente innamorato Eddie? Della giovane nipote o del ragazzino biondo che gliela vuole portare via, i quali sono entrambi innamorati di lui? L’autore, il regista e gli interpreti sono consapevoli di questo non detto per il quale la storia acquista il suo senso più profondo, che culmina nella scena dei due baci: Eddie si butta prima sulla nipote e la bacia, e poi, fingendo di voler dimostrare l’anormalità sessuale di Rodolfo lo bacia a sua volta, stringendolo in un abbraccio sensuale e appassionato. Un amore impossibile che deve portare al sacrificio. Gastone Moschin è un Eddie superbo, virilmente protervo, di una mascolinità ostentata e, sotto sotto, tenera e smarrita, nei momenti della disperazione raggiunge l’intensità degli eroi classici della tragedia. Eccellente l’interpretazione di Marco Maltauro nella parte di Rodolfo: malizioso e tenero, il più stupefatto e il più consapevole di tutti, con un segno di gradevole modernità nell’impostazione del personaggio. Bellissimo il Marco di Luciano Bartoli, pieno di ombre, come i suoi capelli neri. Forse un po’ dimessa l’interpretazione delle due donne: Palla Pavese nella parte della moglie Bea, ed Emanuela Moschin nella parte di Cathy, anche se, nel secondo atto, sanno trovare accenti giustamente drammatici. Il ruolo dell’avvocato Alfieri, che ha la funzione di coro, è tratteggiato con correttezza da Graziano Giusti, sempre in bilico tra l’uomo di legge e il prete. Vorremmo dargli un consiglio: cerchi di trovare il tono giusto al momento dell’ultima bellissima battuta, che deve riuscire a creare un’atmosfera completamente diversa. In essa è racchiusa la forza di una storia e la grandezza del teatro.

12 – Aprile ‘85

lunedì, 1 aprile 1985

Elzeviro

Coltivare l’orto dei personali interessi sembrerebbe oggi la scelta meno insana: psicoanalisi, cultura ed arte sono impegni sufficientemente gravosi, per chi voglia occuparsene seriamente, tanto da giustificare chi non volesse alzare gli occhi e drizzare le orecchie su realtà equivoche, a proposito delle quali è troppo facile, o troppo difficile, esprimere un giudizio di bene o di male.
Per lungo tempo, un tipo di carattere tipografico, particolarmente elegante, è stato sinonimo di un particolare genere di letteratura giornalistica. Nell’elzeviro si rifugiava chi, volendo o dovendo scrivere, preferiva evitare le noie che la censura del regime procurava spesso e volentieri agli estensori di un pensiero difforme da quello imperante. I risultati sono stati spesso eccellenti pagine di letteratura abilmente disimpegnata. La situazione non è quindi nuova e questo foglio potrebbe essere tentato di trasformarsi per intero in un grande elzeviro in nome della cultura e della scienza.
La scelta dell’impegno si impone però anche oggi: se non per coraggio, almeno per la paura. Nessuno infatti può sentirsi sufficientemente al sicuro da allentare la corda della vigilanza.
Guerra, mafia, terrorismo, polizia suonano un concerto tragico cui si aggiungono altre mille voci e mille strumenti che nessun principio di giustizia riesce più a disciplinare. I suonatori fanno tutto il possibile perché vengano sentiti gli spari degli altri e ogni arma ha un suono diverso, pur accompagnando uno stesso canto di morte.
Il gioco di massacro è incominciato da tanto di quel tempo che non pare esserci altra soluzione che quella di accettarlo nella vita di ogni giorno, finché resta da vivere.
Chi è disarmato non sempre riesce ad intendere il suono delle armi, ma nel mirino c’è anche lui.
La vita non ha valore, ma contro la vita dell’altro si vuole che debba andare il proprio vivere: ciascuno difende il proprio delitto e condanna il delitto degli altri. La giustizia non si ricorda neppure più se, da qualche parte, ci siano regole del gioco, e, quando se ne ricorda, le sovverte. Un elzeviro rischia dunque di diventare ogni esercizio di opinione; non solo: in un crescendo abnorme di gigantismo l’elzeviro è la sola forma che finisce per assumere ogni dibattito di idee.
Realtà della morte ed irrealtà della parola, verità della morte e falsità della vita: dove è la grande Rivoluzione? O bisogna aspettare che si realizzi la città di Dio? L’apocalisse stessa non ha potere deterrente e il giorno dopo appare più uguale al giorno prima: nella lotta pare che stia il senso stesso della vita. La lotta ha senso perché nasce dall’amore di sé, nessuno può fare a meno di amarsi, ma nessuno sa amarsi così tanto da bastare per sé. Si lotta dunque per ottenere dall’amore di qualcuno amore per se stessi. Eros è in principio, se lo si perde di vista, resta il tempo di scrivere solo qualche più o meno significativo elzeviro in attesa della fine.

12 – Aprile ‘85

lunedì, 1 aprile 1985

Antonio Donghi, Sessanta dipinti, dal 1922 al 1961. Palazzo Braschi.
Ogni artista si proietta nella sua arte, poi vi si identifica, e, nuovamente si riproietta in produzioni successive. Egli stesso, come tutti gli esseri umani, vive nella continua altalena di proiezioni e identificazioni. Questo vale anche per i pittori e gli scultori, di qualunque corrente artistica facciano parte. Anche una ipsilon viola su di una tela bianca è una proiezione ed è l’origine di una identificazione. È stato molto interessante seguire l’itinerario delle proiezioni e identificazioni, per tutta la vita, di questo buon pittore romano. Non è un «grande» artista; non si esce dalla mostra che raccoglie opere che vanno nell’arco di tempo di tutta la sua vita, esaltati, commossi, e neppure rinnovati; ma si è certamente guadagnato qualcosa in comprensione del mondo e dell’altro. Donghi è stato, essenzialmente, un artista che ha avuto paura; non la paura eroica, ma la piccola paura, un po’ meschina, di chi teme di darlo a vedere che è un pauroso. Il suo mondo è un mondo un po’ banale; la sua analisi psicologica è ovvia, la sua cultura è mediocre; la sua abilità manuale non è straordinaria. – Ma allora questo è una schifezza di pittore! – Invece, no! Stranamente, in questa rattrappita mediocrità, tra avarizia e perbenismi, la frigidità è vinta dalla avidità. – Avidità di che cosa? – Della vita, di cui il pittore non vuole lasciarsi sfuggire niente. Ecco allora un amore ambivalente per Roma, scoperta nella sua prevedibilità, ma anche il prevedibile talvolta folgora. Ecco le donne, né troppo amate, né troppo odiate: esseri che possono farti spendere, è meglio osservarle con cautela e attenzione. Ecco i cacciatori, retorici nella loro dimessa quotidianità.

Si scoprono influenze dei nostri Maestri passati e della Francia del tempo. Il Novecento si insinua appena, poi prende piede, senza schiacciare però la personalità dell’artista.
Vogliamo parlare di un solo quadro: La cocottina, del 1927, quando Donghi aveva solo trent’anni. Seduta al tavolino di un caffè, con le gambe accavallate, un corpo non bello avvolto nella morbidità ocra di un abituccio, ha l’occhio nero e le labbra rosse, una ciocca di capelli scuri che fuoriesce dalla cloche di panno marrone che porta sul capo, brilla il biancore di un orecchino; questi accenni vivaci di intenzioni e di colori, sono immersi nella luce opaca di una stanza gialla e nebbiosa; sul tavolino rotondo di marmo grigio, sono posate sul vassoio di metallo una tazza bianca e le precise e vitree trasparenze del bicchiere e della bottiglia; una connotazione quasi moralistica fa risaltare il gesto con cui il piede si poggia sul ferro nero del tavolo, le cui gambe precise e filiformi contrastano con le gambe tozze e malcelate della cocottina. Guardare questo quadro procura disagio e tenerezza, nella mente si forma la domanda: – A cosa pensa la cocottina? – Qui ci pare di cogliere il senso della pittura di Donghi, un significato che accettiamo con riserva.

Giuseppe Modica, Galleria Incontro d’Arte, via del Vantaggio 17/A.
Modica è un giovane pittore, nato a Mazara del Vallo nel 1953, espone qui un buon numero di sue opere, acrilici, oli, chine, graffiti, tecniche miste, tutte concentrate negli ultimi tre-quattro anni. Sono veramente affascinanti, superfici piene di idee, fantasie, divertimenti e molte, moltissime variazioni sul tema. Abbiamo detto «variazioni» perché, non sono ripetizioni. Si segue questa mostra come se si ascoltasse una sinfonia, i temi principali e molti altri soggetti, che si susseguono e si intrecciano, con sviluppi ampi, riprese limpide e chiare, poi il discorso pare andare lontano. La simbologia di Modica è facile, quasi trasparente, talvolta; altre volte, più nascosta, sfuma nell’allegoria. Questo è un po’ il rischio di questo pittore che pare eccedere nell’allegorico, anche se quasi sempre riesce a riprendere il controllo. Il maschio e la femmina talvolta raffigurati, sono comunque sempre presenti in proiezioni e proiezioni di proiezioni: ciotole, limoni, alberi, revolver, la contrapposizione continua di liquidi e di solidi; le grandi muraglie di pietra o di mattoni, scogli o mura di Babilonia sorgono da immense profondità marine, immote e specchianti, rese più grandi dalla solitudine di bagnanti isolati, piccole barche a vela, tuffatori, tori metafisici; architetture di archi, reminiscenze di colonne e di terme, pareti di vetro; l’aria che talvolta diventa concreta colonna di luce spessa e aleatoria. In ogni opera sembra che qualcosa debba ancora succedere e il significato metafisico si carica di un thrilling un po’ facile, se pure non sgradevole.