12 – Aprile ‘85

aprile , 1985

Cinecittà è il titolo di un esilissimo canovaccio che è una grande occasione per celebrare il trionfo del teatro. Lo spettacolo è andato in scena al Teatro delle Arti di Via Sicilia, è una commedia con musiche di Pier Benedetto Bertoli e Antonio Calenda, che racconta la storia di una giovane aspirante attrice che incontra due guitti di avanspettacolo che si aggirano, spaesati, nella nascente città del cinema, voluta dal Duce sulle rive del Tevere. I due si fanno carico di proteggere la giovane nell’arte e nella vita, come padri e pigmalioni, destinati ad essere abbandonati quando lei avrà raggiunto il successo, simbolicamente rappresentato, a metà tra il sogno e la realtà, da una fuga di immagini cinematografiche. Alcuni grandi attori, guidati ma non sopraffatti, si dovrebbe dire quindi: concertati dal regista e co-autore Antonio Calenda, sono riusciti a far capire che cosa deve essere il buon teatro. Buono in tutti i sensi, perché intelligente, poetico, divertente e culturalmente valido. Cultura non vuol dire noia (come credono, invece, coloro che hanno messo in scena la Fedra di Racine, con quella poveretta di Anna Maria Guarnieri) e questo è il vero grande teatro barocco, dove impari a recitare con un maestro che recita con te: splendida e indimenticabile la scena che ci insegna cosa vuol dire in arte, e forse nella vita, avere un Maestro. Ad un certo punto, la giovane attricetta, che si trova cooptata nella compagnia di avanspettacolo dei suoi due «tutori», viene ammaestrata nell’arte di muovere le anche dalla vecchia attrice (interpretata da Rosalia Maggio). Noi non abbiamo veramente più capito se si stava fingendo di insegnare o se veramente in quel momento l’esperta attrice non stesse dando li sulla scena alla giovane Nikki Gaida una lezione. Invitiamo comunque la giovane «allieva» a non dimenticare mai ciò che, nella finzione, le è stato insegnato davvero. Rosalia Maggio è superba, aggressiva e seducente; riesce a scaraventare sul pubblico una girandola di sconcezze, senza diventare mai volgare, ma restando sempre e solo irresistibilmente spiritosa. Certo, qualche volta fa quasi paura: riesce ad esaltare infatti nei maschi profonde e ancestrali fantasie di castrazione; ma, tant’è: il teatro e la vita sono fatti anche di questo. Ad altissimo livello la infaticabile e scoppiettante Anna Canipori (nel personaggio di Tecla, l’affittacamere innamorata del teatro e dell’attore) che, ad ogni istante, esibiva in continuazione piccoli e grandi gioielli di bravura professionale e di intelligenza teatrale. Irresistibile la comicità di Roberto Bencivenga (Dino Doni), ritmico, preciso, dallo sbalorditivo virtuosismo vocale, che egli sa trasformare in attenta comunicazione con il pubblico. Belli ed efficaci anche i personaggi del gerarchetto di Dodo Gagliarde, il Blasetti di Virgilio Quagliato, l’Alessandrini di Alfredo Girard, il bieco custode del teatro di Tiziano Pelanda. Attori questi, impegnati, oltretutto, a sostenere più ruoli.

Spiritose e bravine le segretarie-soubrettine Maria Cioffi e Carla Signoris. Infine, vogliamo parlare di Dino Valdi e Pietro De Vico: la coppia dei due sopravvissuti del vecchio mondo dell’avanspettacolo. Esplosivi in una comicità talvolta astratta, metafisica, alla Jonesco, quasi, ma più calda e mediterranea.
Abbiamo detto che il testo è un canovaccio perché ognuno dei due attori vi si è appoggiato anche per presentare gags e pezzi di bravura dal repertorio accumulato in lunghi anni di vita sulle scene. Il sogno, la realtà, il teatro nel teatro, si mescolano continuamente. L’esplosivo finale dell’avanspettacolo rappresentato non è lo stesso della commedia, che si conclude con una tenerissima scena d’amore tra i due vecchi attori che forse sognano o forse no. Mentre si sente cantare da tutti il gradevole tema della canzonetta conduttrice di tutto lo spettacolo, esplodono le bombe della seconda guerra mondiale. Non c’è retorica, ma solo commozione, che diventa entusiasmo quando si ha la possibilità di liberare l’applauso finale. Splendide sia le musiche originali, sia gli arrangiamenti di Germano Mazzocchetti e Mario Pagano, eseguite dallo stesso Mazzocchetti al pianoforte, da Antonio Schioppa al contrabbasso e Gaetano Di Pietra alla batteria.
Costumi appropriati di Ambra Danon e scene, giustamente povere, di Nicola Rubertelli.
Gli inserti filmati intervengono con efficacia a scandire il tempo della rappresentazione e della Storia.

In via del Collegio Romano n.1, c’è un bello spazio teatrale: le due sale, comode e accoglien ti, precedute da un bell’ingresso, della Scaletta, dove abbiamo visto rappresentare «Due Estati a Vienna» di Carlo Vitali.L’autore è un musicologo bolognese, che conosce indubbiamente bene la storia della musica; ma che proprio non sa dove stia di casa il teatro. Ha tentato di scrivere un copione su di un pezzo della vita di Vivaldi: la sua andata a Vienna nell’illusione di trovare fortuna e la morte. Ne è risultato un testo irrimediabilmente noioso, con Vivaldi che scrive e riceve lettere, e con una giovane nipote che intristisce a fianco del vecchio prete amareggiato e disgustato del mondo. Nel primo atto, arriva una virtuosa cantatrice bolognese che dice un po’ di banalità, nell’intento non riuscito di delineare un carattere; nel secondo tempo giunge un castrato che accudisce e mette a letto il vecchio e fa l’amore con la nipote (e questa è una bizzarria). Don Antonio Vivaldi, detto il «prete rosso», muore, nell’indifferenza di tutti, anche degli spettatori, soprattutto degli spettatori.
Consigliamo al signor Vitali di continuare a fare il musicologo e basta. Stranamente, un musicologo ha avuto bisogno della consulenza musicale di Arnaldo Morelli, non poteva farsela da sé? Si ascoltano splendidi brani di musica: da Bach ad Haendel, da Biber e Vivaldi, ovviamente; ma il tutto con un che di appiccicato, come se si tentasse di far entrare la musica nella vicenda, ma essa vi restasse volutamente, chissà perché, estranea. Un discorso opposto deve essere fatto sulla realizzazione scenica: la regia, con quel testo tra le mani, non poteva fare di più; il regista Luigi Tani, che impersonava anche Vivaldi, ha scelto per sé una recitazione forse un po’ troppo stentorea; nel tentativo, pensiamo, di dare robustezza alle gracili battute del copione. Veramente ottima Ivana Giordan, che impersonava, nel primo tempo, la virtuosa e, nel secondo, il castrato: due personaggi ben riusciti, resi con il corpo, l’intonazione, il volto, la recitazione ben differenziati nei due casi; proterva, ciarlatana, invadente, la virtuosa; sentimentale, appassionato e bizzarro il giovinetto.
Uno spettacolo che, nonostante il testo, non lascia insoddisfatti soltanto.

La stessa Compagnia Teatro d’Arte ha messo in scena al Teatro Eliseo Uno sguardo dal ponte, di Arthur Miller: un ampio dramma, dalla solida struttura, scritto con magistrale abilità di artigiano, ricco di idee teatrali e di effetti sicuri, anche quando sono un po’ facili. Lo spettatore
rimane coinvolto dal testo e da quello che il regista Antonio Calenda riesce a farne, con la solita magistrale capacità. Le scene si susseguono precise con ritmica concretezza e interna poesia, niente risulta ovvio o banale. Il commento sonoro di Mario Pagano, sebbene scarno, coagula suoni tra il metafisico e il realistico, di eco dal porto e di ansia sospesa. I costumi diAmbra Danon hanno la preziosità di una Ambra Danon hanno la preziosità di una ricostruzione filologica mentre le scene di Nicola Rubertelli sintetizzano in uno stesso spazio i luoghi e i momenti della storia. Eddie Carbone, portuale di origine italiana che vive a Brooklyn, si trova a lottare contro tutti per difendere un disperato amore per la giovane nipote, che ha allevato in casa come una figlia. Contro la moglie e contro il giovano lavoratore clandestino che vuole sposare la ragazza, contro il buon senso e contro la legge, ma soprattutto contro se stesso. Tanto che arriva a tradire, denunciando il giovane, insieme con il fratello, all’ufficio immigrazione. Con la denuncia scatta il meccanismo della vergogna e della vendetta: Eddie muore in una specie di duello rusticano, ucciso dal fratello del ragazzo. Tutto ruota intorno a tre splendidi personaggi: Eddie e i due fratelli italiani, Marco e Rodolfo. E per tutto il tempo ci si chiede: di chi è veramente innamorato Eddie? Della giovane nipote o del ragazzino biondo che gliela vuole portare via, i quali sono entrambi innamorati di lui? L’autore, il regista e gli interpreti sono consapevoli di questo non detto per il quale la storia acquista il suo senso più profondo, che culmina nella scena dei due baci: Eddie si butta prima sulla nipote e la bacia, e poi, fingendo di voler dimostrare l’anormalità sessuale di Rodolfo lo bacia a sua volta, stringendolo in un abbraccio sensuale e appassionato. Un amore impossibile che deve portare al sacrificio. Gastone Moschin è un Eddie superbo, virilmente protervo, di una mascolinità ostentata e, sotto sotto, tenera e smarrita, nei momenti della disperazione raggiunge l’intensità degli eroi classici della tragedia. Eccellente l’interpretazione di Marco Maltauro nella parte di Rodolfo: malizioso e tenero, il più stupefatto e il più consapevole di tutti, con un segno di gradevole modernità nell’impostazione del personaggio. Bellissimo il Marco di Luciano Bartoli, pieno di ombre, come i suoi capelli neri. Forse un po’ dimessa l’interpretazione delle due donne: Palla Pavese nella parte della moglie Bea, ed Emanuela Moschin nella parte di Cathy, anche se, nel secondo atto, sanno trovare accenti giustamente drammatici. Il ruolo dell’avvocato Alfieri, che ha la funzione di coro, è tratteggiato con correttezza da Graziano Giusti, sempre in bilico tra l’uomo di legge e il prete. Vorremmo dargli un consiglio: cerchi di trovare il tono giusto al momento dell’ultima bellissima battuta, che deve riuscire a creare un’atmosfera completamente diversa. In essa è racchiusa la forza di una storia e la grandezza del teatro.