12 – Aprile ‘85

aprile , 1985

Antonio Donghi, Sessanta dipinti, dal 1922 al 1961. Palazzo Braschi.
Ogni artista si proietta nella sua arte, poi vi si identifica, e, nuovamente si riproietta in produzioni successive. Egli stesso, come tutti gli esseri umani, vive nella continua altalena di proiezioni e identificazioni. Questo vale anche per i pittori e gli scultori, di qualunque corrente artistica facciano parte. Anche una ipsilon viola su di una tela bianca è una proiezione ed è l’origine di una identificazione. È stato molto interessante seguire l’itinerario delle proiezioni e identificazioni, per tutta la vita, di questo buon pittore romano. Non è un «grande» artista; non si esce dalla mostra che raccoglie opere che vanno nell’arco di tempo di tutta la sua vita, esaltati, commossi, e neppure rinnovati; ma si è certamente guadagnato qualcosa in comprensione del mondo e dell’altro. Donghi è stato, essenzialmente, un artista che ha avuto paura; non la paura eroica, ma la piccola paura, un po’ meschina, di chi teme di darlo a vedere che è un pauroso. Il suo mondo è un mondo un po’ banale; la sua analisi psicologica è ovvia, la sua cultura è mediocre; la sua abilità manuale non è straordinaria. – Ma allora questo è una schifezza di pittore! – Invece, no! Stranamente, in questa rattrappita mediocrità, tra avarizia e perbenismi, la frigidità è vinta dalla avidità. – Avidità di che cosa? – Della vita, di cui il pittore non vuole lasciarsi sfuggire niente. Ecco allora un amore ambivalente per Roma, scoperta nella sua prevedibilità, ma anche il prevedibile talvolta folgora. Ecco le donne, né troppo amate, né troppo odiate: esseri che possono farti spendere, è meglio osservarle con cautela e attenzione. Ecco i cacciatori, retorici nella loro dimessa quotidianità.

Si scoprono influenze dei nostri Maestri passati e della Francia del tempo. Il Novecento si insinua appena, poi prende piede, senza schiacciare però la personalità dell’artista.
Vogliamo parlare di un solo quadro: La cocottina, del 1927, quando Donghi aveva solo trent’anni. Seduta al tavolino di un caffè, con le gambe accavallate, un corpo non bello avvolto nella morbidità ocra di un abituccio, ha l’occhio nero e le labbra rosse, una ciocca di capelli scuri che fuoriesce dalla cloche di panno marrone che porta sul capo, brilla il biancore di un orecchino; questi accenni vivaci di intenzioni e di colori, sono immersi nella luce opaca di una stanza gialla e nebbiosa; sul tavolino rotondo di marmo grigio, sono posate sul vassoio di metallo una tazza bianca e le precise e vitree trasparenze del bicchiere e della bottiglia; una connotazione quasi moralistica fa risaltare il gesto con cui il piede si poggia sul ferro nero del tavolo, le cui gambe precise e filiformi contrastano con le gambe tozze e malcelate della cocottina. Guardare questo quadro procura disagio e tenerezza, nella mente si forma la domanda: – A cosa pensa la cocottina? – Qui ci pare di cogliere il senso della pittura di Donghi, un significato che accettiamo con riserva.

Giuseppe Modica, Galleria Incontro d’Arte, via del Vantaggio 17/A.
Modica è un giovane pittore, nato a Mazara del Vallo nel 1953, espone qui un buon numero di sue opere, acrilici, oli, chine, graffiti, tecniche miste, tutte concentrate negli ultimi tre-quattro anni. Sono veramente affascinanti, superfici piene di idee, fantasie, divertimenti e molte, moltissime variazioni sul tema. Abbiamo detto «variazioni» perché, non sono ripetizioni. Si segue questa mostra come se si ascoltasse una sinfonia, i temi principali e molti altri soggetti, che si susseguono e si intrecciano, con sviluppi ampi, riprese limpide e chiare, poi il discorso pare andare lontano. La simbologia di Modica è facile, quasi trasparente, talvolta; altre volte, più nascosta, sfuma nell’allegoria. Questo è un po’ il rischio di questo pittore che pare eccedere nell’allegorico, anche se quasi sempre riesce a riprendere il controllo. Il maschio e la femmina talvolta raffigurati, sono comunque sempre presenti in proiezioni e proiezioni di proiezioni: ciotole, limoni, alberi, revolver, la contrapposizione continua di liquidi e di solidi; le grandi muraglie di pietra o di mattoni, scogli o mura di Babilonia sorgono da immense profondità marine, immote e specchianti, rese più grandi dalla solitudine di bagnanti isolati, piccole barche a vela, tuffatori, tori metafisici; architetture di archi, reminiscenze di colonne e di terme, pareti di vetro; l’aria che talvolta diventa concreta colonna di luce spessa e aleatoria. In ogni opera sembra che qualcosa debba ancora succedere e il significato metafisico si carica di un thrilling un po’ facile, se pure non sgradevole.