Psicoanalisi contro n. 12 – Il ventre del padre

aprile , 1985

Proviamo a partire da adesso. Il mio adesso è colmo dell’attenzione che sto mettendo nello scrivere: scrivo e contemporaneamente penso a me che sto scrivendo; e sto scrivendo di me che penso di scrivere: non è un gioco di parole, è un vortice; un vortice in cui mi potrei smarrire. Altri pensieri sbucano da ogni parte: improvvisamente, ecco una frase dello spettacolo cui ho assistito ieri sera. Da quello spettacolo vado col pensiero a Livorno, o meglio: Livorno entra nei miei pensieri. Dove è andato il mio cane? È qui: ho lasciato cadere la mano ed ho sentito il suo naso fresco. Pisa: la piazza dei Miracoli: era piccolo, piccolo, il mio cane, con il nasino umido; io volevo portare gli amici a vedere la porta di Bonanno, ma era tardi, il Duomo era chiuso ed il portale con quei meravigliosi rilievi era già stato coperto dall’altro portone, anonimo, di legno. La mano sul legno. Io voglio scrivere adesso, del mio adesso. Partiamo da questo adesso che, come ho appena cercato di dimostrare, non è mai un adesso. I pensieri vengono dal passato e dal presente. Oggi mi sono dato una scadenza: devo scrivere quello che ieri sera avevo in mente, quello che pensavo mentre mi coricavo. Il pensiero, di nuovo, ha fatto un balzo indietro, però adesso… adesso tende verso il poi, verso là dove si prolungherà questo mio scrivere, fra dieci minuti, un’ora, due ore. Adesso ho anche sete; forse incomincio ad avere fame; ma è ancora troppo presto, adesso. I pensieri ruotano: per fortuna il vortice non mi ha ingoiato.

Anche chi legge provi a partire dal suo adesso, dal suo adesso colmato dall’attenzione per quello che sta leggendo: senza dubbio, gli si staranno però presentando altri pensieri che, affollando il suo adesso, si sovrappongono alla lettura di queste mie righe. Io adesso penso a colui che leggerà il mio adesso, un adesso che, forse, si realizzerà nel futuro. Scrivo per colui che mi leggerà e il cui adesso sarà ricco di tante cose e, insieme, di questi miei pensieri.
Proviamo a partire da questo sentirci saldamente instabili, in questo momento. È possibile essere consapevoli di più di un pensiero per volta? O non è, invece, un continuo oscillare tra pensieri diversi? Le associazioni si espandono in tutte le direzioni: si va avanti e si ritorna indietro, frammenti di pensiero continui; eppure non ha senso parlare di un solo pensiero, poiché ogni pensiero è sempre la stratificazione di una somma di pensieri.

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Prendiamo la classica idea di cavallo: il cavallo e la cavallinità. Nel cavallo c’è la cavallinità e quando penso al cavallo penso ai cavalli: a un cavallo, a una gualdrappa; la gualdrappa ha un colore e quel colore mi fa pensare a qualcosa che non è inerente al cavallo: la fodera di una poltrona. Ma, allora, stavo pensando al cavallo o a quella poltrona? Non posso certo dire che all’idea di cavallo inerisce quella di poltrona; però, mentre pronunciavo la parola cavallo e pensavo alla cavallinità, ai cavalli, s’era insinuata nella mia mente anche l’immagine della poltrona; me ne accorgo solo adesso: dopo. Adesso è consapevole l’immagine di quella poltrona: la poltrona di una mia casa di campagna, e l’odore del camino, lo sento che mi pizzica dentro il naso; quella poltrona è vicino a un camino. Dove sono andati il cavallo, i cavalli e la cavallinità?

Frammenti di pensiero che si intrecciano, sempre spezzati. Non riesco a capire se sia possibile pensare più pensieri contemporaneamente. Vi è una forma illustre di composizione musicale, chiamata «fuga», che ingioiella la storia della nostra musica: una forma costruita sull’ipotesi che sia possibile seguire, contemporaneamente, più pensieri musicali. Il dubbio, però, che questo non sia possibile è enunciato all’inizio stesso della fuga, che incomincia con un’unica linea melodica, cui, dopo qualche battuta, ne segue un’altra, simile, alla dominante, e poi un’altra, e un’altra ancora, che entrano in successione; le linee melodiche si dipanano e si aggrovigliano; ma sono accordi quelli che sentiamo, o invece riusciamo a seguire tutte queste parti? O, ancora, avviene che ne seguiamo una sola, mentre le altre divengono lo sfondo? Che cosa segue veramente l’orecchio?

Quando la eseguo, con le mie dita, su di una tastiera: due mani, quattro voci e tanti meravigliosi artifizi, ogni tanto, una voce deve essere abbandonata, e rimane sospesa nell’aria, poi viene ripresa e ancora sospesa; ma è sospesa davvero? Quattro voci o sempre soltanto una successione di accordi?
Quando guardo un quadro che cosa guardo: un occhio? E il castello, dietro le spalle di quella figura femminile, bianca e azzurra, rosa, verde e marrone? Un occhio, eppure dietro le spalle della persona ritratta c’è una finestra, e oltre la finestra le colline senesi, e là un castello. Che cosa guardo: le palpebre o l’iride, o quel puntino nero, o quel bagliore? Forse che non vedo quel castello, non vedo la finestra e il cielo? Il quadro lo vedo tutto, e vedo anche la cornice, la parete: tutto questo entra nel mio sguardo. Inoltre, a ciò che vedo guardando il quadro, si aggiunge il ricordo: guardare e ascoltare, forse, sono solo due aspetti del ricordare; ricordare di aver guardato, di aver ascoltato.
Ma, se non si guarda e si ascolta nel momento in cui si guarda e si ascolta, quando poi si ricorda, che cosa si ricorda?
Nel momento in cui si guarda e si ascolta, si guarda dunque e si ascolta veramente qualcosa, non solo si ricorda. Eppure è anche un continuo ricordare. L’orecchio prende e abbandona le voci della fuga. Lo sguardo prende e abbandona le varie parti del quadro. Sempre c’è anche il ricordo di aver visto e udito: per un momento però è stato necessario attualizzare il gesto di guardare o di ascoltare. Lo sfondo, forse, è un’illusione. Probabilmente gli sfondi non esistono. Esistono frammenti di pensieri, di sensazioni, di percezioni, che roteano. Un solo pensiero, in un solo istante e, dietro, attorno, tutto il resto.

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Il fatto è che la consapevolezza non è mai consapevolezza. Si crede di potersi concentrare solo sulla consapevolezza dello scrivere; ma non è possibile scrivere essendo solo consapevoli di scrivere. Lo scrivere è anche altro: è scrivere della consapevolezza. E ricomincia la folla dei pensieri; o meglio: non ricomincia un bel niente, perché è sempre un tutto continuo.
Pensare è sempre anche ricordare e scegliere alcuni tra i ricordi, deformarli, attualizzandoli, per poi nuovamente lasciarli cadere nell’inconsapevolezza.
Il momento della coscienza è un momento intriso di inconsapevolezza. La coscienza è un’astrazione, l’autocoscienza un’illusione.
Si dice che, in psicoanalisi, si prenda coscienza. La terapia psicoanalitica consiste nel districare un po’ il cumulo dei ricordi; ma soprattutto nel ricordare in modo diverso. L’inconscio non è l’inconsapevolezza; l’inconscio è definibile soltanto negativamente: è ciò che non è conscio. Così pure la coscienza è definibile soltanto come ciò che non è inconscio.

L’inconsapevolezza è un fluire continuo tra il conscio e l’inconscio. Si è sempre inconsapevoli, perché si vede sempre soltanto una piccola parte di un tutto, che affonda le proprie radici non si sa dove. Prendere coscienza non significa superare l’inconsapevolezza, non è soltanto far diventare conscio ciò che prima era inconscio. Prendere coscienza vuol dire ristrutturare il campo, darsi nuove ragioni, che non sono certo le ragioni prime su cui basiamo il nostro agire e il nostro essere, ma sono ragioni che ci sono sfuggite e che però hanno continuato ad avere effetto. Ogni gesto ha motivazioni consapevoli e motivazioni inconsce. Uso il termine inconsapevolezza per definire quel continuo smarrimento che prende quando si pensa al proprio inconscio e alla propria coscienza e ci si accorge di non possedere né l’uno né l’altro, ma di essere l’uno e l’altro.

Non siamo in grado di controllare né il conscio né l’inconscio, possiamo soltanto indagare e, attraverso questa indagine, appropriarci un po’ dell’uno e dell’altro. Con questa appropriazione, che è anche una riappropriazione, non giungiamo al possesso di noi, ma giungiamo ad un maggior controllo, che non deve essere però il controllo sterile, gravido di sofferenze, del rituale ossessivo; ma deve essere un controllo che coincide il più possibile con l’abbandono.
Controllare per potersi abbandonare, sapersi abbandonare soltanto se si è in grado di controllare anche l’abbandono; non è una contraddizione, è un’armonia.
Il controllo ossessivo è una prigionia; il controllo di chi si sa abbandonare è una rilassata serenità. L’abbandono scomposto è delirio e depressione; l’abbandono è una consapevolezza piacevole di sentirsi fluire con il tempo e nel tempo.

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La psicoanalisi non soltanto serve a gettare luce su alcune motivazioni del nostro agire presente, ma serve anche a riappropriarci di un po’ di passato. L’uomo, vivendo, si spreca: si spreca perché non sa e soprattutto perché non vuole sapere. Fantasie e desideri continuamente agiscono, si intrecciano e si sciolgono. Nessuno è sincero quando racconta la propria vita, neppure quando la racconta a se stesso. Per capire noi stessi dobbiamo, prima di tutto, capire le motivazioni che muovono gli esseri umani; che muovono coloro che vivono insieme con noi.
Se non si capisce l’inconscio sociale, non si capisce l’inconscio individuale. La psicoanalisi non è mai solo una terapia individuale; proprio per questo gli imbecilli e i vili ne hanno paura e l’accusano di non essere scienza, di essere metafisica, di essere una cialtroneria.
Il mondo dell’uomo trova invece, nell’atteggiamento psicoanalitico, una chiave di lettura insostituibile. Ovviamente non basta dire: «atteggiamento psicoanalitico», bisogna poi anche determinare quale psicoanalisi si intenda usare come strumento; ma al di là della posizione di chiusura assunta da molti di coloro che stanno arroccati entro i dogmi della loro scuola, le diverse correnti psicoanalitiche, mettono a punto, nonostante tutto, con il loro stesso scontrarsi ed opporsi, strumenti validi per la ricerca e la comprensione delle dinamiche sociali.

Non intendo parlare qui di un ecumenismo psicoanalitico, al contrario, io penso anzi che, attraverso gli scontri, si possono chiarire molti problemi. L’inconscio sociale viene in questo modo frugato e il riduzionismo di vecchie chiavi di lettura è smascherato.
Se è facile il moralismo, anche in politica, che pure suscita tanta ammirazione nel Poeta:

«…Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande,
che temprando lo scettro a’ regnatori,
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;…» (U. Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 154﷓158),

meno facile è affrontare dinamiche che si nascondono dietro consuetudini morali e slogan collettivi, introiettati, sul sesso, sull’amore, sulla famiglia, sul maschio e sulla femmina, sul lavoro e sulla sincerità. Ciò che, per secoli, è stato venduto come bene o come bello può rivelare, se ci si mette da un altro punto di vista, malvagità e brutture. Bello e brutto, buono e cattivo; lo scetticismo è sempre in agguato; ma lo scetticismo è un atteggiamento utile soltanto quando è superato.
L’inconscio comune si fonda su valori che lo trascendono; ma questi valori, a loro volta, hanno formato l’inconscio di una collettività.
I valori non possono essere distinti dai desideri, che si esprimono attraverso i bisogni, i quali stanno a fondamento dei valori. Il fondamento sta proprio in questa circolarità; importante è sentire l’esigenza del fondamento, che non deve però restare immutabile e inamovibile. Ecco perché io ribadisco il valore della lotta: la lotta per porre le nuove fondamenta. Dare un fondamento alla società può sembrare opera bizzarra e inutile, la società ha comunque un suo fondamento.

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L’inconscio del gruppo sociale è simile ad una caverna ripiena di cose meravigliose, le cui profondità non potranno mai essere del tutto esplorate; però non bisogna, per timore, rinunciare a portare alla luce tutto ciò che è possibile.
Ho parlato di una caverna, quindi di un ventre, il ventre di una madre e di un padre. Il ventre del padre è ancora più misterioso del ventre della madre, che si spalanca nelle contrazioni del parto. I padri partoriscono nel mistero. Il mistero dei padri si presenta senza veli, come la nudità delle antiche divinità maschili. Il maschio è prima del padre.
Su che cosa si fonda il maschio? Anche qui la circolarità.
Non bisogna però smettere di scrutare, di sforzarsi di capire.
Le intuizioni, anche geniali, se troppo ripetute, diventano banalità, sciocche formulette che cullano i vili e gli imbecilli.
Un popolo, un gruppo sociale, come formano il proprio inconscio? Su cosa fondano le loro dinamiche? Perché quel colore di capelli, quegli occhi, quel corpo; perché quella lingua, quelle abitudini, quei sogni? Perché quella morale, quella scienza, quella filosofia e quell’arte? Perché nel cielo, tra gli alberi e nelle fonti, quel dio o quegli dèi, anch’essi con un volto, una lingua, un carattere e, probabilmente, dei sogni?
Quel popolo, con la sua morale, i suoi dèi, il suo corpo, ha scelto qualcosa di ciò che è, oppure tutto gli è stato dato? Dato da chi e quando?
Ritorna qui il problema dell’espropriazione: un gruppo sociale è espropriato di ogni possibilità di scelta?
Pensieri, valori, lotte non sono che il frutto di un meccanico divenire, che si fonda su un’opaca fattualità.
Esisteva un tempo il mondo, esistevano condizioni climatiche, caratteristiche del suolo, della vegetazione, le acque, il sole. L’uomo, unendosi ad altri uomini, ha imparato a vivere in quel mondo, con quelle risorse, le ha manipolate, si è forgiato in un ambiente talvolta ostile; ma, dentro di lui, esistevano già misteriose pulsioni, desideri.
Ha guardato l’amico e l’amante: qualcuno aveva di più e qualcuno di meno; ha sentito il bisogno di controllare e guidare sé e l’altro.
L’altro si è ribellato o ha accettato.
La lotta non è mai stata soltanto per la sopravvivenza, questa è un’ingenua favola evoluzionistica.
Si lotta per vivere, non per sopravvivere. Anche nelle situazioni più disastrate l’uomo desidera ed ha sempre qualcosa di più che la semplice sopravvivenza. Può essere una fantasia, un sogno, un gioco, un gioiello o una danza.
La pura sopravvivenza non si sa bene che cosa sia: la vita è sempre caratterizzata da molte più possibilità di quante ne siano necessarie.
Questo vale anche per la sessualità: sesso e procreazione non coincidono; un’altra ingenuità evoluzionistica è quella che riduce la sessualità alla esigenza della conservazione della specie.
Il sesso è ben altro che il coito procreativo.
I baci e le carezze vanno oltre la dialettica dei due sessi; la sessualità naturale non è, probabilmente, mai esistita; certo non esiste più da molti millenni.
La sessualità è un piacere che si esprime attraverso un rituale, basato su gesti permessi e gesti proibiti; il piacere che la permea è un piacere oscuro, continuamente contraddetto dal senso di colpa e dai tabù; ma non per questo è meno un piacere. Il comportamento sessuale non è un dato di fatto: è forse l’acquisizione più artificiale e più contronatura dell’uomo.
Questa mia affermazione avrebbe un senso, però, solo se io fossi convinto dell’esistenza della natura. Ma, se neppure la natura ha fondamento, dove è e cosa è il fondamento?
Una società non sceglie perché non può scegliere: costruisce i propri valori adeguando i propri desideri, che sorgono, a loro volta, da un’adeguazione precedente. Eppure i capi, i preti, i filosofi, i genitori, i vecchi e i giovani parlano dei valori del loro gruppo sociale e disquisiscono; talvolta si oppongono a valori antichi con nuove ragioni, su cui fondano nuovi valori. I rivoluzionari, i ribelli, i riformatori, i geni esprimono la coscienza sociale di un gruppo; ma, come per l’individuo, la coscienza è sempre mescolata all’inconsapevolezza e affonda nell’inconscio. La fattualità è un meccanismo, questo meccanismo può chiamarsi destino oppure divinità.
Ma è utile lasciarsi così andare a questa espropriazione?

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Prima ho parlato della profondità misteriosa del ventre del maschio e anche della sua spudorata ed esibita nudità. Sento, nel maschio un fondamento che mi inquieta e mi affascina: so di dire questo anche perché io sono maschio e cerco in me il mio fondamento.
Proietto me stesso nel mondo e mi identifico: con la donna, con gli animali, con la natura; e poi ritorno a me, maschio continuamente contraddetto, e trovo in fondo al mio ventre anche la madre, anche la femmina; sebbene io rifiuti come una semplificazione blasfema e pseudoscientifica la favoletta della bisessualità. La bisessualità non è che una leggera contraddizione dell’anatomia del corpo umano: il maschio e la femmina hanno la loro origine in qualcosa di più nascosto e sacro. Io sono partito da me ed ho scoperto gli altri, li ho trovati intorno a me e dentro di me: maschi e femmine; ed ho trovato anche il mondo, con i suoi movimenti, i suoi rumori e i suoi colori che hanno contribuito a costituirmi. Mi ha costituito la storia del ventre di mia madre, la mia storia in quel ventre, le prime carezze, le prime paure, i primi momenti di gioia.

Io, adesso, sono il frutto del mio passato: il mio inconscio e la mia claudicante coscienza non hanno realmente un inizio, mi sono stati dati.
Se mi sono stati dati, anch’io, come persona, sono espropriato di ogni possibilità di scelta: sono quello che sono e diverrò quello che mi sarà concesso di diventare.
Se però sono costituito dagli altri e dal mondo, e se il mondo si basa su di un fondamento che non è una scelta del gruppo in cui sono nato, come posso scegliere me stesso?
Io, che sono lo specchio del mondo, rispecchio un mondo senza libertà di scelta. Questo mondo si rispecchia in me ed io sono il contenuto di questo specchio. Ma, se sono soltanto uno specchio, non sono: mi perdo negli altri e nell’altro da me.
Sento che questa è un’affermazione assurda: gli altri e il mondo sono perché li riconosco e dico loro: «Voi siete! ».
Il mio riconoscimento è anche creazione: il mondo e gli altri si fondano in me. Ritorna la circolarità.

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Non è soltanto il problema della prevedibilità scientifica; non si tratta solo di decidere se lo scienziato della psiche, potendo prevedere il comportamento dell’uomo, annulli la sua libertà. Il problema sta nel sapere se esista un gesto primo, su cui si fondano gli altri gesti, e se quel primo gesto è scelto o è dato; ma ciò va al di là delle possibilità della scienza. La risposta non si può trovare nei manuali di biologia, antropologia, psichiatria e psicoanalisi. I manuali si fondano sui trattati e i trattati si fondano sugli esseri umani, i quali hanno appreso queste cose dalla loro vita e dai gesti degli altri; ma i gesti degli altri sono anche frutto della povertà dei manuali. Le possibilità sarebbero tante, ma i manuali, scritti o recitati a memoria dalla tradizione, privano l’uomo della possibilità di molti gesti. I manuali sono utili e pericolosi allo stesso tempo; senza manuali non si legge il mondo; ma il mondo imprigionato nei manuali è privato di molte possibilità, che lo renderebbero più ricco, più bello e più interessante.
Bisogna contraddire i manuali, non il mondo.

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Io non so se scelgo la mia vita, i miei pensieri, i miei desideri. So che me li trovo addosso, dentro di me e dentro agli altri. Molti psicologi del passato si sono posti il problema della scelta della malattia psichica. Il disagio psichico è frutto di uno scontro e incontro di situazioni esistenziali, pulsioni interne, traumi esterni.
È importante credere che l’esistenza di una persona sia anche frutto di una scelta.
Ogni malato ha un suo stile, perché ogni essere umano ha una storia con una sua peculiare architettura.
Ho fatto confusione fra stile e scelta: un gesto può essere inserito nello stile di una persona ed essere frutto di una struttura coerente, che però può non dipendere minimamente da una scelta. Se la scelta fosse libera contraddirebbe addirittura la possibilità di uno stile, che, invece, pretende una certa costanza.

Eppure, secondo me, scelta e stile si compenetrano: sono come la parte interna e quella esterna di una maschera, la parte concava e la parte convessa; non sono separabili, ma sono diverse; non sono soltanto opposte, sono diverse, che è molto di più.
Io sto a guardare la maschera, davanti e poi dietro, per cercare di capirne il significato.