12 – Aprile ‘85

aprile , 1985

Si dice che i farfalloni siano cattivissimi, e si dice ancora che siamo particolarmente accaniti contro la ristorazione romana; invece noi, mentre riconosciamo di essere un po’ perfidi quando parliamo di teatro, pittura, musica e altro, ci sentiamo addirittura angelici nei confronti di chi gestisce esercizi in cui si mangia o si beve. Noi, infatti, ci riteniamo assolutamente vittime, talvolta addirittura martiri, del dovere: ci accostiamo ai luoghi di ristoro con l’animo disposto all’indulgenza e alla tolleranza e con l’aspettativa di qualche piacere; ma, in questa città, bella come nessun’altra al mondo, si mangia e si beve male, malissimo. Di chi la colpa? Non certo nostra.
Anche questa volta, in effetti abbiamo avuto esperienze molto negative. In un ristorante che si chiama «l’originale Alfredo all’Augusteo», in piazza Augusto Imperatore, speravamo proprio di divertirci per qualche originalità. Bisogna dire che il posto è alquanto originale appena entrati avete infatti la tremenda certezza di essere entrati in qualche annesso del cimitero monumentale del Verano: in un gelo grigiastro marmi e stucchi, statue e fontane, vegetazione esotica ed ornamenti di latta dorata riempiono gli ampi spazi, sui tavoli coperti dai sudari delle tovaglie i piatti ben colmi e fumanti acquistano un tono da offerte votive, e su tutto sovrasta il monumento equestre di Alfredo in quadriga di stucco con in mano un piatto di fettuccine.
Queste fettuccine sono d’obbligo nel locale e vengono rimestate con le posate d’oro offerte in dono da, un tempo devoti, divi di Hollywood: è un peccato che al gusto si rivelino un vero e proprio preparato di pastine per neonati, troppo cotte e assai unte, oltre che senza sapore. Tra gli altri primi piatti ci sono degli spaghetti sette colli, che sembrano preparati da una mamma distratta, tanto i diversi ingredienti si ritrovano accostati per caso e il tempo di cottura ha passato ogni limite. Ci è parsa meno peggio la zuppa dell’ortolano, non sgradevole anche se mancante di sapidità e le buone verdure non riuscivano a cancellare del tutto l’impressione di minestra troppo acquosa. Un lepido umorismo nasceva all’assaggio dei secondi: una grigliata con broccoli soffocante e incongrua, un tacchino bianco e stopposo assolutamente senza sapore, cotolette di vitello alla bolognese dure come sassi e un fritto misto le cui componenti difficilmente risultavano, al sapore, distinguibili le une dalle altre. La pasta dei profiteroles era di vecchio cartone e il cioccolato lento e gelido che li ricopriva non aiutava a stare allegri. Bevibile un Frascati, fresco e aromatico benché poco tipico mentre il Chianti era senza sapore. Il conto, sostenuto, non ci è parso però alto per le pretese del locale e della clientela che lo frequenta. Mesti siamo tornati a casa, passando davanti alla tomba di Augusto.

A locali molto ampi si contrappongono locali talvolta così angusti che non possono essere frequentati che da gruppi molto esigui. I due Bacaro, quello di Via degli Spagnoli 27 e quello di Via Vittoria 3/b sono accomunati, oltre che dalla stessa gestione, dalla ristrettezza degli ambienti, il primo appena un po’ più ampio, con muri dipinti, diviso in due; il secondo, formato da una sola stanza stretta e lunga, con poca luce e minuscoli tavolini rotondi o rettangolari dal piano di marmo. Tanto in uno quanto nell’altro si ritrova la stessa cucina e si mangia ugualmente male all’insegna della novità. Non ci sono però né scusanti né attenuanti: per inventare nuovi piatti non basta infatti mescolare a casaccio ingredienti eterogenei ed accostare sapori in modo inconsueto; noi non amiamo la nouvelle cuisine del Maestro Bocuse, ma qui la scuola di Lione non ha nulla a che vedere e lo chef manda in tavola piatti che non hanno senso alcuno e i cui sapori stridono da far rizzare i capelli in testa. – Allora siamo davanti a una cucina caratterizzata finalmente da sapori decisi – viene da dire. E invece no. Con vera magia si ottiene che il palato resti scontento e che le pupille irritate abbiano percepito solo un seguito di spiacevoli aggressioni felpate e poco identificabili. Zuppa di rane, tonnarelli neri ai gamberi e arancio, tonnarelli allo zafferano e frutti di mare, tonnarelli agro dolci, per dire dei primi. Spezzatino di vitella alla pera agrodolce, carpaccio al parmigiano e rughetta, carré di cinghiale alla salsa di ginepro, seppie in salsa rosa olive verdi e pinoli, filetto di manzo al cartoccio con salsa di mostarda e coriandolo sono alcuni dei variopinti secondi. E bisogna dar atto della dote di bella fantasia! Si beve però benissimo, spaziando in una gamma di vini molto ampia: Traminer, Pigato, San Polo rosato, Pinot, Ronco dei Roseti dell’Abbazia di Rosasco, Grignolino, Gattinara, Schiava, sono solo alcuni dei vini che ci sono stati proposti con intelligenza, serviti nelle condizioni migliori, con ineccepibili mariages (e questa è la seconda magia, data l’assurdità dei piatti). L’artefice di tanto garbo e talento è una cortese fanciulla che mesce con un sorriso in tavola e al banco, dando anche la possibilità di una degustazione limitata ad un bicchiere. Al momento dei dolci il suggerimento è più limitato, qualche mousse o crème caramel! Il conto è decisamente alto, ma noblesse obliege e lo snobismo costa caro in ogni campo.