12 – Aprile ‘85

aprile , 1985

In quell’orribile postaccio (uno squallido ex-cinematografo, l’altra sera anche gelido) in cui l’Accademia Filarmonica Romana si ostina ad ammannire quel minestrone sconclusionato che è la sua stagione di concerti, il giovane pianista canadese Louis Lortie ha presentato un concerto intorno al quale vale la pena di fare alcune considerazioni. Questo giovanotto non ha problemi nel tradurre sonoramente il suo modo di leggere lo spartito: la scioltezza delle sue mani è sbalorditiva, passaggi ed accordi sono precisi, esposti con sicurezza e, spesso, anche in modo lucido ed accattivante. Nonostante ciò corre, come pianista, il grandissimo rischio di presentare i suoi brani come se fossero uova di Pasqua: nastri di raso troppo variopinti, stagnola luccicante, il tutto posato su base di plastica. E la sorpresa? Eppure, benché sottilissimo, lo strato di cioccolato è buono. Molto gradevole è stato nell’esecuzione dei Tre Capricci (Il lamento, La leggerezza, Un sospiro) di F. Liszt, accattivante e sempre corretto, eccetto forse nell’uso del pedale nel primo brano. Ottimo l’abbiamo trovato nella Sonatina di M. Ravel, in cui si è dimostrato meditativo e persino un po’ contenuto; mentre si è potuto scatenarne La Valse, dello stesso autore, dal semplice e astuto virtuosismo compositivo, di cui Lortie è riuscito a mettere in luce la ricca armonia e l’arguto umorismo; brano questo che consente all’esecutore di gigioneggiare, perché in questa circostanza Ravel stesso ha voluto essere splendido gigione. Nei Dodici studi op. 10, di F. Chopin, Lortie ha lasciato intravedere al meglio la sua buona stoffa e la sua grande sensibilità musicale. Con due difetti: il primo consiste in un’esecuzione sempre troppo rapida, anche se mai squilibrata nei rapporti dinamici interni; il secondo difetto è di eseguire questi «studi» troppo come se fossero studi. Anche se il primo verte sugli arpeggi lati, il secondo sui disegni cromatici, il terzo sul cantabile, etc. tutti e dodici vanno ben oltre la scolastica esposizione di difficoltà tecniche da superare. Tutti gli studi di Chopin, sia dell’op. 10, sia dell’op. 25 raggiungono le vette più alte, in assoluto, della musica. Ciò che è risultato evidente nel concerto del 20 marzo all’Olimpico è la presenza di due tendenze in conflitto: il desiderio di un successo immediato con la musica troppo patinata, che non riesce però ad ottundere la forza e la dolcezza che, se sviluppate, potranno trasformare Louis Lortie in uno splendido esecutore. Gli consiglieremmo di cercarsi un altro maestro, o di innamorarsi. O meglio: di innamorarsi di un altro maestro.

Fuori c’è la solita notte romana di questo marzo, piove, ma c’è un lontano sentore di primavera; dentro alla stanza appannata dal fumo e dalla penombra suona: uno/due/quattro strumenti, rock/folk/ jazz, bene/male: non lo vogliamo dire. Perché questa volta i farfalloni sono così misteriosi? Perché sono un po’ stravaganti, e poi perché ci ha accolto un ragazzo dolce e simpatico e anche gli altri ci sono parsi persone un po’ sperdute, inesperti e non imbroglioni, non abbiamo colto alcuna tracotanza. Magari sono stati meravigliosi mistificatori che hanno saputo bene infinocchiarci; ma noi, che siamo anche fini scrutatori di anime, abbiamo l’impressione di non esserci sbagliati. Nelle nostre peregrinazioni notturne siamo continuamente alla ricerca di posti e posticini in cui si possa ascoltare un po’ di musica di qualunque genere e mangiare o bere qualcosa di gradevole e semplice; ma troppo spesso si è ripetuta, con variazioni anche meno simpatiche, questa situazione in cui tutto è sbagliato: la musica lascia a desiderare e in tavola si rovesciavano disastri. Non è soltanto il mezzo litro di panna in ogni salsa (si sa che i farfalloni sono nemici giurati di questo derivato del latte, quando entra in cucina), ma è il fatto che si aggiunge al vino bianco non tenuto al fresco, mentre quello rosso viene dal frigorifero (come la frittata di zucchine) e non è nemmeno un giovane lambrusco; i secondi poi sono uniformi pezzi di stopposa carne, tutti uguali nel sapore, nonostante i piatti abbiano nomi diversi. È vero che il conto non è alto, ma è assurdo che non si abbia diritto di mangiare bene se non si spendono centomila lire a persona. Perché i giovani debbono imbrogliarsi a vicenda? O essere insensibili e cretini come quei quattro del tavolo a fianco? Sono due maschi e due femmine, il Nasone parla con l’altro maschietto di arte figurativa e di architettura: Bauhaus, Kenzo Tange, Brasilia, il maschietto tenta di dire la sua, ma il Nasone non permette che le idiozie dell’altro tolgano spazio ai suoi sproloqui; le due ragazze, molto belle, molto vestite giuste squittiscono tra loro, più sottovoce, e ogni tanto sgranano gli occhioni in doveroso, reverente tributo alle argomentazioni con cui i maschi sostengono le proprie tesi. Tutti e quattro fumano mentre mangiano e non solo tra un piatto e l’altro, il Nasone addirittura non toglie la cicca di bocca nemmeno quando ingurgita un boccone o tracanna un sorso. Sembrano i soliti che non capiscono niente di quello che mangiano e bevono; ma ad un certo punto il soggetto della discussione si sposta: ora Nasone indottrina il maschietto su quali sono i vini genuini e quali no, sommando una sull’altra mille ovvietà da intenditore. Allora è giusto che i locali siano così, che nessuno si sforzi in cucina e in cantina, se a nessuno importa riappriopriarsi del diritto elementare di mangiare buono e sano al giusto prezzo.

Una sera, passeggiando dopo uno spettacolo finito troppo presto, entrammo per caso al Mississipi Jazz Club, in Borgo Angelico 16. Un locale stile anni sessanta, frequentato da gente con gli anni in «anta», dove fa atmosfera anche un simpatico «vecchio Sam» che serve birra alla spina. Volevamo ascoltare un po’ di jazz, né ci importava molto che fosse di un tipo piuttosto che di un altro; fummo fortunati: si stava esibendo un quartetto composto da Gianni Sangiusti al clarino, Carlo Loffredo al contrabbasso, Francesco Forti al saxofono e Sante Isgrò alla batteria, cui più tardi si unirono il trombone di Roberto Nicolai e il basso-tuba di Gilberto Debbi.
Una musica pastosa e gradevole, retta da una precisa logica armonica del contrabbasso. Ci ha subito incantato il sax di Forti, e su di lui si è incentrata la nostra attenzione per gran parte del tempo: sensuale e preciso, anche quando, se pur timidamente, ha usato la voce. Dal rimpasto degli esecutori e dalle aggiunte di Nicolai e Debbi, con Loffredo passato al banjo, è scaturito un jazz franco-italiano, senza la sciatteria del casareccio; intelligente e seduttorio, talvolta un po’ facile, ma sufficientemente preciso e abbastanza immune da tentennamenti ritmici e slabbrature armoniche, come troppo spesso accade invece nel jazz di qualunque tendenza, quando è eseguito da bianchi. Avevamo fame e sete: abbiamo cominciato con alcuni cocktail aperitivi: Affinity, Bobby Burns, Negroni, tutti decisamente sbagliati, ma non sgradevoli. Non ci aspettavamo di mangiare bene e in effetti alcune cose erano decisamente cattive: hamburger surgelati, crostini tristi e salse da supermercato; però abbiamo avuto una gradevolissima sorpresa quando abbiamo assaggiato alcuni piatti di pasta, preparati con perizia: penne Hot, oppure ai piselli e funghi, ottime e stupefacentemente senza panna. La birra alla spina e in bottiglia buona sempre, mentre i vini, bianchi e rossi, ci sono parsi banali e troppo cari.