Talvolta anche lo strumento su cui si suona può contribuire alla non brillante riuscita di un concerto. Il pianoforte messo a disposizione di Filippo Gamba per la serata del 9 gennaio al Teatro Olimpico, nell’ambito della stagione dell’Accademia Filarmonica Romana, non ha reso certo al giovane pianista un buon servizio. Il suono usciva freddo, metallico e sgradevole, accentuando in tal modo una caratteristica peculiare dell’esecutore: quella di un’eccessiva durezza. Tutti i brani in programma erano affrontati e resi con buona correttezza dinamica, ma, quando le frasi avrebbero avuto bisogno di abbandono e morbidezza, invece si irrigidivano in un fraseggio alquanto meccanico. Ciò è stato soprattutto evidente nella Sonata in la minore, op. post. 164 D 537 di F. Schubert, composta nel marzo 1817, le cui splendide melodie, teneressime e morbide venivano un po’ maltrattate, anche se l’esecuzione risultava grandemente precisa. Meno pulite forse, ma decisamente più espressive sono riuscite le note delle successive Fantasie di J. Brahms op.l16, composte tra il 1891 e il 1892. Humoreske op. 20 di R. Schumann, che concludeva il programma, è un brano in un unico tempo, articolato però in numerose sezioni, molto varie, diremmo quasi variopinte. Gamba l’ha eseguito correttamente accentuando molto bene le variazioni di tempo, ma come abbiamo già fatto notare, è risultato anche qui un po’ rigido nelle parti cantabili. Inoltre vorremmo consigliare al pianista di stare più attento al pedale di destra, al rilascio del quale talvolta sfuggiva quasi una leggera, ma incontrollata vibrazione.
Archivio di gennaio 1992
79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92
mercoledì, 1 gennaio 1992Psicoanalisi contro n. 87 – Fratelli
mercoledì, 1 gennaio 1992E’ un’osservazione che senza dubbio hanno fatto sia gli psicoanalisti sia le persone comuni che, talvolta, addirittura mi verrebbe da dire spesso, i vegetariani, soprattutto coloro che hanno realmente orrore di mangiare qualunque animale, sono persone profondamente violente, affascinate dalla distruttività e dalla morte.
Non voglio fare di ogni erba un fascio e so che ci sono persone che non si cibano di carne per ragioni strettamente igieniche, poiché le ritengono nocive alla salute; ma spesso dietro le molte teorizzazioni del vegetarianesimo si nasconde un sentimento di orrore-fascino. Neppure mi sento di affermare che tutti i vegetariani siano sadomasochisti repressi; è vero però che ho riscontrato sovente tra loro casi di inconfessata passione necrofila e li ho trovati assai poco inclini al narcisismo autocompiaciuto, ma quando questa coincidenza si è verificata mi sono trovato in presenza di sindromi quasi psicotiche di rilevante gravità, proprio perché evidenziavano situazioni in cui le due difese fondamentali del narcisismo e del sadomasochismo, si chiudevano sull’individuo sovrapponendosi. Da quanto ho detto si può concludere quindi che il vegetariano nasconde in fondo alla propria psiche per lo più spiccate tendenze sadomasochistiche, intrise di fascino per la morte, degli altri, ma anche propria. Questa verità l’ho riscontrata sia nella mia esperienza clinica, sia nella mia vita quotidiana e sono più che convinto dell’opportunità in questi casi di un intervento terapeutico che renda consapevoli dell’aggressività inconscia coloro che a furia di negazioni rischiano di rivolgerla senza più controllo verso gli altri o se stessi, vittime di un’esplosione delirante più o meno improvvisa. Anche in questi casi è bene procedere con estrema cautela: la consapevolezza delle dinamiche inconsce non può mai essere imposta bruscamente dall’esterno, se non si vuole rischiare esplosioni anche peggiori. La storia della terapia a base psicoanalitica è costellata di episodi clamorosi in cui il paziente resta sconvolto da interpretazioni che la presunzione del terapeuta vorrebbe imporre come illuminanti nei momenti sbagliati, e solo raramente lo choc della rivelazione dall’alto, improvvisa e sensazionale, ha avuto l’effetto catartico della guarigione immediata e duratura. I colpi di scena in psicoanalisi possono essere certo anche molto utili, ma a patto che siano sufficientemente tenuti sotto controllo e proposti ad un soggetto che sia stato preparato adeguatamente a subirne l’effetto. La commedia dell’arte ha strutturato il nostro teatro, ma lo spumeggiare dell’invenzione estemporanea si poggiava su caratteri ben definiti e seguendo le trame di canovacci precostituiti per ogni occasione. Non è facile per me definire con precisione dove avvenga la distinzione tra l’improvvisazione che nasce dall’intuizione illuminata e il risultato di una preparazione organizzata con metodo; ritengo si possano accettare entrambe senza pregiudizio purché consapevolmente finalizzate allo stesso scopo che è il vantaggio del paziente.
79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92
mercoledì, 1 gennaio 1992Le Mille e una Notte è il titolo di una raccolta di novelle, stratificate nel tempo della tradizione islamica, unificate dall’uso della lingua araba. Anche la cultura occidentale ha sempre sentito il fascino di questi racconti fantasiosi, sensuali, ironici e terribili. Basti in proposito pensare a Rimskij Korsakov o Pasolini. Ciò che l’occidente ha però di rado colto in queste saghe orientali è l’odio furibondo per la donna che in esse la cultura araba ha sempre espresso. In effetti nucleo e pretesto di queste narrazioni sono le astuzie escogitate da Sherazade per evitare di essere uccisa dal re persiano Shariyhar, misogino e persecutore delle donne dopo che ha conosciuto il tradimento della prima moglie. Ogni notte la fanciulla riesce a tenere avvinto coi suoi racconti l’uomo che, desideroso ogni volta di sapere come la storia andrà a finire, rinvia l’esecuzione all’alba successiva. Quella di Sherazade non è però una vittoria per amore, nonostante l’astuzia femminile permetta il finale hollywoodiano col fastoso matrimonio di prammatica. Ovviamente dietro alla misoginia così sbandierata si nasconde anche il fascino per la donna. Ugualmente è accaduto a Marco Rossati che in questa bellissima mostra alla Galleria Apollodoro di piazza Mignanelli esplicita, tela dopo tela, tutto l’orrore e la fascinazione che, come maschio, prova per la femmina che è anche in lui, oltre che per le donne del mondo circostante. Questo si intuisce anche dalla scelta che il pittore ha operato di non «illustrare» il racconto stesso, ma di riscriverlo a modo suo. Noi qui cederemo alla tentazione, che è quasi una sua proposta di identificare l’artista col navigatore che a bordo della sua barca sfiora i palazzi emergenti dall’acqua, guardando altrove per non restare vittima del fascino di «grazie» e «cariatidi» affacciantesi dalla «torre», languide bagnanti nella «darsena» o naufraghe terrificate dalla «loggia» sprofondante nel mare agitato. Rossati sfoga la sensualità nella pienezza dei colori, nella moltiplicazione delle architetture indiane e rinascimentali ad un tempo, nella carnosità di forme muliebri clamorosamente eccessive, nella costruzione di macchine fantastiche, che diventano «veicolo arcano» del mistero. Amina, Fathuma, Zobeida ed Aladino sono i fanciulli e le fanciulle seducenti col loro misterioso corredo di specchi, cetre, maschere e lampade dorate. Il «Grande tappeto volante» infine si leva col suo carico fantasioso sospeso tra il cielo e la terra, misteri non risolti, racconti interminati ed interminabili.
79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92
mercoledì, 1 gennaio 1992I due farfalloni detestano il Giappone senza esserci mai stati: quindi, probabilmente la loro avversione è priva di fondamento, e si è potuta costituire perché anche noi siamo vittime di un cliché di lacche, paraventi e ventagli trasmessoci dalla convenzione folcloristica; però non ci piacciono neppure i tintinnanti pianoforti, i monotoni compositori e l’imperversante squallida pseudo-anti-retorica dello scomparso ed osannato Mishima. Ancora noi proviamo avversione per quell’orda di formiche che invadono Roma coi loro torpedoni e la fotografano senza neppure guardarla. Ma quello che massimamente detestiamo è la cucina giapponese che ci pare cadaverica ed insapore, sempre con le stesse tristi caratteristiche sia che venga preparata nei grandi e piccoli ristoranti, sia che venga fatta in casa da «autentici» giapponesi. Può darsi che se un giorno, con un gesto masochistico, andremo in quella lontana terra, riusciremo a mettere fine ad un razzismo così preconcetto e potremo così cambiare finalmente idea. Per questo il nostro giudizio sul libro di Banana Yoshimoto, Kitchen è quanto di meno obiettivo si possa immaginare, ma qualche volta è necessario esprimere anche il peggio di sé. Non riusciamo proprio a capire perché i racconti che compomgono questo volumetto siano diventati così famosi: la scrittura è minuziosa e rileccata, le descrizioni sono prive di interesse. Le sensazioni soggettive sono descritte con minuzia iper-realistica, come i colori, gli odori e gli ambienti. Due sono i temi che esplicitamente vogliono essere proposti in parallelo alla riflessione di chi legge: la cucina (intesa sia come arte della preparazione dei cibi, sia come spazio in cui queste operazioni avvengono e in cui si svolge una parte della vita) e la morte. L’elaborata descrizione delle ricette e della loro preparazione è però assolutamente asettica e non stimola in chi legge più appetito di quanto non lo stimoli la reiterata riflessione sulla morte dei più diversi personaggi: giovani e vecchi, uomini, donne o transessuali. La riflessione in prima persona sembra quella di una creatura che non prova sentimenti se non in funzione della descrizione degli stessi, con il risultato di allontanare dal lettore ogni interesse per una realtà che è palesemente solo di carta.
79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92
mercoledì, 1 gennaio 1992Gino Coppedé, l’architetto dell’omonimo fantasioso quartiere romano, c’entra ben poco col ristorante Le Coppedé in via Taro, il quale, malgrado il nome erroneamente francesizzante (l’architetto era fiorentino), è un ristorante prevalentemente di cucina pugliese. L’ambiente, che ingenuamente riecheggia lo Jugendstil e l’art-nouveau, è spazioso ed accogliente, coi tavoli ben distanziati. Il servizio è sollecito e non protocollare. Chi è in cucina sa combinare piatti della tradizione gastronomica pugliese, non solo quella più ovviamente «popolaresca», con una creatività poco stravagante, molto attenta alle combinazioni dei sapori e all’organizzazione del menu. Cenando (è aperto solo la sera) si può trascorrere una serata molto divertente anche apprezzando la varietà delle proposte, tutte stimolanti e così poco simili alle sfilze ripetitive alle quali ci ha abituato la peggiore ristorazione romana, che ormai domina in città. Due esempi di menu pugliesi, rispettivamente di carne e di pesce, sono costituiti da: Puré di fave con cicoriella e lambacioni, Strascinati al ragù di agnello con ricotta dura di Conversano e Agnello al calderotto con patate e verdure selvatiche; oppure Cozze raganate, Zuppa di frutti di mare con cavatelli e Tortiera di alici e patate. Tutti piatti molto equilibrati e saporitissimi. Tra le altre proposte ricordiamo un’insalata di gamberi con sedano, rape e fagioli, gradevole e molto originale; un piatto di gnocchetti all’ortica con pomodoro e gorgonzola dolce, di eccezionale bontà (non solo perché senza traccia di panna), un filetto di anatra al barbera con pere rosate, delicatissimo, ma di sapore decisamente «alto». La scelta di dolci, tutti realizzati nella cucina della casa, è ampia e ghiotta, citiamo una panna cotta all’arancia e un tiramisù davvero inusuale e squisito, oltre a un’ottima meringa col coulis di pera. La carta dei vini mette in evidenza un buon assortimento di vini pugliesi, come è giusto che in questo caso sia, oltre a una varietà di bottiglie italiane e francesi di buon livello. Il prezzo non è particolarmente basso, ma è adeguato alla qualità dell’insieme.
79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92
mercoledì, 1 gennaio 1992Eduardo De Filippo è stato come tutti sanno, un grandissimo autore di teatro. I suoi drammi (ed è proprio giusto, secondo noi, usare questo termine romantico, che all’origine stava a designare un testo in cui si compenetravano momenti tragici ed altri schiettamente umoristici) dipingono con intensa poeticità la vita disperata, eroica ed allegra della società napoletana. Anche l’uso della lingua diviene teatrale: un napoletano gustoso, attento e sensuale. Tutti ricordano certamente anche la sua grandezza e smisurata perizia di attore. Se nei suoi testi affiora talvolta il sospetto di eccessivo moralismo e qualche smagliatura demagogica, la sua recitazione rimetteva tutto a posto rendendo ogni esibizione un’opera perfetta. Recitava anche con le sopracciglia, con le orecchie, con i silenzi. Il suo virtuosismo non diventava però mai fine a se stesso, trasformandosi sempre in splendida poesia. La Compagnia diretta da Carlo Giuffré, ha allestito in questa stagione un testo eduardiano del 1948: Le voci di dentro, in scena a Roma al Teatro Eliseo. Non è facile sintetizzarne la trama, che in realtà è poco più che un pretesto per una serie di ritratti a tutto tondo di alcuni personaggi e di un ambiente, apparentemente bonari e ridanciani, che però basta il sospetto sollevato da un sogno a rivelare in tutta la cinica durezza e bassezza morale; apparentemente queste marionette sono capaci di giungere al delitto per coprire colpe proprie anche solo presunte. Carlo Giuffré interpreta il ruolo del protagonista che con la sua confusione tra sogno e realtà è il motore di tutta la vicenda con bravura magistrale: intenso, accorato, umoristico e terribile. Se qualcuno non avesse mai visto recitare Eduardo sarebbe rimasto assolutamente estasiato; ma per chi questa esperienza l’ha avuta, la realizzazione ha il suo neo: tenta di riprodurre troppo fedelmente l’impostazione di De Filippo. Il giudizio in proposito può oscillare tra l’apprezzamento per la fedeltà e la perplessità per la mancata occasione di essere originali.
Lo stesso discorso vale anche per l’eccellente regia di Giuffré. Gli altri attori sono tutti di notevole calibro: da Mario Scarpetta a Linda Moretti, veri comprimari; fino a tutti gli altri: Teresa Del Vecchio, Aldo De Martino, Tullio Del Matto, Maria Basile, Eduardo Cuomo, Anna Maria Giannone, Claudio Veneziano, Massimiliano Esposito, Piero Pepe, Barbara Pieruccetti, Mario Carelli, fino ad Antonio Russo, Luigi Fortunato ed Emanuele Martino. Le scene e i costumi di Aldo Buti sono di un pittoresco e ironico realismo. Molto belle le musiche originali di Romolo Grano: costruite con grande sapienza sottolineano efficacemente le situazioni emotive.