Psicoanalisi contro n. 87 – Fratelli

gennaio , 1992

E’ un’osservazione che senza dubbio hanno fatto sia gli psicoanalisti sia le persone comuni che, talvolta, addirittura mi verrebbe da dire spesso, i vegetariani, soprattutto coloro che hanno realmente orrore di mangiare qualunque animale, sono persone profondamente violente, affascinate dalla distruttività e dalla morte.
Non voglio fare di ogni erba un fascio e so che ci sono persone che non si cibano di carne per ragioni strettamente igieniche, poiché le ritengono nocive alla salute; ma spesso dietro le molte teorizzazioni del vegetarianesimo si nasconde un sentimento di orrore-fascino. Neppure mi sento di affermare che tutti i vegetariani siano sadomasochisti repressi; è vero però che ho riscontrato sovente tra loro casi di inconfessata passione necrofila e li ho trovati assai poco inclini al narcisismo autocompiaciuto, ma quando questa coincidenza si è verificata mi sono trovato in presenza di sindromi quasi psicotiche di rilevante gravità, proprio perché evidenziavano situazioni in cui le due difese fondamentali del narcisismo e del sadomasochismo, si chiudevano sull’individuo sovrapponendosi. Da quanto ho detto si può concludere quindi che il vegetariano nasconde in fondo alla propria psiche per lo più spiccate tendenze sadomasochistiche, intrise di fascino per la morte, degli altri, ma anche propria. Questa verità l’ho riscontrata sia nella mia esperienza clinica, sia nella mia vita quotidiana e sono più che convinto dell’opportunità in questi casi di un intervento terapeutico che renda consapevoli dell’aggressività inconscia coloro che a furia di negazioni rischiano di rivolgerla senza più controllo verso gli altri o se stessi, vittime di un’esplosione delirante più o meno improvvisa. Anche in questi casi è bene procedere con estrema cautela: la consapevolezza delle dinamiche inconsce non può mai essere imposta bruscamente dall’esterno, se non si vuole rischiare esplosioni anche peggiori. La storia della terapia a base psicoanalitica è costellata di episodi clamorosi in cui il paziente resta sconvolto da interpretazioni che la presunzione del terapeuta vorrebbe imporre come illuminanti nei momenti sbagliati, e solo raramente lo choc della rivelazione dall’alto, improvvisa e sensazionale, ha avuto l’effetto catartico della guarigione immediata e duratura. I colpi di scena in psicoanalisi possono essere certo anche molto utili, ma a patto che siano sufficientemente tenuti sotto controllo e proposti ad un soggetto che sia stato preparato adeguatamente a subirne l’effetto. La commedia dell’arte ha strutturato il nostro teatro, ma lo spumeggiare dell’invenzione estemporanea si poggiava su caratteri ben definiti e seguendo le trame di canovacci precostituiti per ogni occasione. Non è facile per me definire con precisione dove avvenga la distinzione tra l’improvvisazione che nasce dall’intuizione illuminata e il risultato di una preparazione organizzata con metodo; ritengo si possano accettare entrambe senza pregiudizio purché consapevolmente finalizzate allo stesso scopo che è il vantaggio del paziente.

2
Continuando a prendere in esame il caso del vegetarianesimo e dopo aver affermato come spesso dietro di esso si celino personalità insospettatamente sadomasochiste e distruttive, viene da domandarsi come possa agire praticamente una presa di consapevolezza. Come si evolve il comportamento del vegetariano consapevole? Come si modificano eventualmente i suoi gusti personali? Il vegetariano guarito si butterà voracemente su cosciotti ed insaccati, divorerà ostriche ancora palpitanti? Io non dico che debba essere così, mi limito a sostenere che è bene liberarsi dalle pulsioni distruttive inconsce e non trovo negativo che anche un vegetariano possa tollerare negli altri una natura carnivora. Vi sono alcune popolazioni da noi ritenute primitive che praticano tuttora il cannibalismo che in quelle microculture è giustificato con argomentazioni anche poetiche secondo cui non ci sarebbe miglior tomba per un defunto che lo stomaco dei parenti più cari, che con affetto ed amore si nutrono del corpo ormai senza vita. Sono ragionamenti che in noi causano raccapriccio; ma a parte tutte le considerazioni di carattere igienico, che pure hanno una loro fondamentale importanza, come si dovrebbe considerare un membro di quelle società cannibali che si rifiutasse di cibarsi di carne umana? Sarebbe da considerare un caso patologico che sarebbe giusto curare, oppure un uomo sano che si ribella a pratiche aberranti? Qui entra in ballo il relativismo culturale caro ad Erodoto: quello che è permesso tra i Persiani è invece proibito tra i Greci; quello che fa orrore a noi non fa orrore ad alcuni popoli di continenti extra-europei. Io nutro un profondo rispetto per la specificità delle diverse culture, però mi pongo il problema delle possibili conseguenze della caduta di ogni limitazione. Ci sono limiti oltre i quali non posso andare: se una cultura accetta la schiavitù e l’infanticidio, lo stupro e l’omicidio non per questo noi dobbiamo necessariamente accettarla e rispettarla. Al contrario dobbiamo impegnarci e magari combattere perché quei popoli si adeguino a norme di vita più accettabili dal nostro senso di civiltà. La regola del giusto mezzo non riesce ad impedire che così procedendo si arrivi a distruggere tradizioni antiche, a cancellare il ricordo di remote culture.

3
Io credo di avere la certezza che in ciascuno di noi si ritrovano elementi di razzismo e di xenofobia, per questo provo un moto di irritazione ed un senso di disprezzo per chi con prosopopea afferma di non essere razzista. Questi sentimenti immorali e malati ci appartengono ed è meglio per noi se sappiamo riconoscerli e non ci sforziamo di negarli in omaggio ad una improbabile purezza d’animo che è invece solo presunzione. Soltanto se si è consapevoli di un male e se ne conosce un po’ l’eziologia è possibile isolarlo e curarlo. Io preferisco dire: «Sono contrario ad ogni espressione di razzismo e di xenofobia che individuo in me. Perciò lotto per liberarmene.» Anche coloro che del razzismo e della xenofobia sono le vittime non possono dire di non essere contagiati da questi stessi mali. Cito per tutti il caso letterario del libro di Mohamed Bouchane «Chiamatemi Alì» in cui l’autore che narra in prima persona le esperienze di immigrato in terra straniera, dopo aver conquistato il lettore per la sua natura dolce, simpatica, delicata e sensibile, pure cade preda di un pregiudizio razzistico che si esprime in modo quasi parossistico verso quelli che, lui algerino, chiama con disprezzo «i tunisini» e che considera globalmente una razza di uomini immorali ed infidi. Personalmente mi sono informato ed ho constatato che nel mondo degli extracomunitari che vive nelle nostre città i cittadini tunisini sono considerati quasi generalmente ladri e sfruttatori per eccellenza. Atteggiamenti analoghi ho potuto riscontrare molto spesso indistintamente in cittadini orientali od occidentali, africani od asiatici e di volta in volta cambia solo il nome del popolo più disprezzato dagli altri. Mi si potrebbe obiettare che le cattive reputazioni non nascono per caso, e che qualcosa ci deve essere sotto di vero. Sono d’accordo, ma questi atteggiamenti di rifiuto razzistico mi lasciano ugualmente perplesso.

4
Voglio ora ritornare alla questione del relativismo culturale e morale e all’orrore che alcune tradizioni particolari procurano a me e a molti di coloro che appartengono al mio stesso ambito culturale. Ho addotto prima come esempio la pratica raccapricciante del cannibalismo; ma lasciando da parte l’antropofagia potrei argomentare adducendo esempi meno macabri o anche meno violenti della schiavitù o dell’infanticidio, parlando per esempio di poligamia e poliandria, della pratica dell’immolazione della vedova indiana sul rogo del marito, oppure di certi metodi educativi che prevedono rigide punizioni corporali che possono giungere fino a ledere l’integrità fisica degli educandi, citare certi cruenti ed umilianti riti religiosi e via dicendo. Sopravvivono in tutti i continenti tradizioni antichissime oggetto di sacra celebrazione ed esaltate dalle più diverse forme dell’arte. Un esempio recente dei problemi molteplici ed intrecciantisi che può creare il mantenimento o l’abbandono di una tradizione è stato quelle delle studentesse islamiche di un liceo francese che hanno voluto rivendicare il loro diritto ad indossare anche a scuola il velo.
Aveva senso che in Occidente si accettasse un segno di umiliazione della condizione femminile, secondo i parametri della cultura predominante? Oppure era giusto garantire a quelle ragazze la libertà di esprimere la loro adesione ad una fede e ad una tradizione? Il velo islamico diveniva così di volta in volta segno di libertà personale e di oppressione della condizione femminile. In questo caso non è difficile per me compromettermi affermando che si può benissimo accettare che quelle ragazze, ove non vi siano costrette con la forza, ma lo abbiano accettato liberamente, sia pure subendo un condizionamento culturale molto vicino ad un plagio, si coprano il viso con un velo a difesa della loro pudicizia e del loro onore. L’imposizione del capo scoperto mi sembra una violenza senz’altro meno accettabile. A questi livelli non sembra difficile affrontare i problemi derivanti dal relativismo culturale, magari anche indulgendo alla poeticità del folclore. Non è difficile abbandonarsi al fascino delle tradizioni natalizie del cristianesimo, o a quelle del capodanno islamico celebrati in piccoli villaggi assediati oggi dal consumismo turistico che trasforma troppo rapidamente la tradizione in spettacolo. Non vedo necessariamente il diavolo nel consumismo mercantile, ma ugualmente ricordo con nostalgia tempi in cui il meccanismo non era così frenetico.

5
Un tempo ero un feroce difensore di tutte le tradizioni. Per lungo tempo ho lavorato «sul campo» ricercando nelle campagne del Piemonte le tracce delle note e dei versi degli antichi canti di quella regione, occupato a ricostruirli con tutto il rispetto, l’amore e la cura di cui ero capace; tuttora conservo, oltre al bel ricordo, molto materiale derivatomi da quell’impegno così entusiasmante, attraverso villaggi e campagne, in chiese ed aie a fissare sul registratore la voce di vecchi contadini o di anziane devote, insieme al canto degli uccelli e ai rumori di una vita di cui si sono perse oggi quasi del tutto le tracce. Solo una parte piccolissima di quel lavoro ho potuto rendere pubblica, il resto giace in fondo a una antica cassapanca, come un vecchio tesoro nascosto. Nonostante abbia significato tanto per me, questo lavoro mi ha però messo anche in guardia contro una facile retorica che tende a prendere per buono tutto quello che è vecchio; debbo infatti riconoscere che fanno parte del patrimonio popolare musiche sciatte, testi volgari, enunciazioni reazionarie e prevaricatorie, oscenità senza grazia, tetre brutalità di cui mi sono reso conto con molti anni di ritardo, solo dopo un dovuto periodo di decantazione. E ovvio, mi si potrebbe replicare, che ogni epoca, ogni cultura, ogni società o gruppo ha avuto modo di esprimere anche volgarità e violenza accanto a sentimenti certamente più nobili, che il mondo è da sempre composto di bene e di male e che è ingenuo accorgersene così in ritardo come mostro di fare io. Queste giuste obiezioni non cancellano il dispiacere che provo nel constatare che sono stato un po’ troppo ingenuo e qualunquista nella mia incondizionata rivalutazione del passato remoto di quelle zone contadine, troppo convinto che tutto quel che vi si trovava fosse poetico e giusto. Non so se faccio oggi più fatica a riconoscere quei miei giovanili errori o a contenere un masochistico gusto autocritico. Eppure in passato ci fu anche chi andò a caccia per procurarsi il cibo, mentre oggi la caccia è appannaggio quasi esclusivo di turpi sciacalli di città che devastano boschi ed inquinano torrenti per massacrare selvaggina che non sono neppure più capaci di cucinare, insensibili al paesaggio come dimostrano le scorie e i rifiuti che seminano ovunque al loro passaggio. Oggi non è dunque meglio di ieri, né ieri fu necessariamente peggio dell’altro ieri: in questi tempi ancora è apparsa sui giornali la notizia di una giovane sposa accusata di adulterio ed esposta nuda dai parenti del marito sul balcone di casa; ancora oggi c’è chi stende le lenzuola insanguinate della prima notte di nozze, e questo solo per rimanere in patria.

6
Io ho la consapevolezza di identificarmi in un modello che è quello dell’occidentale, cristiano; ma faccio fatica a trovare una mia identità nazionale. Mi sento costituito da una somma di elementi che vanno dalle mie origini piemontesi alla mia esperienza romana, ma stento molto a decifrare tutte le componenti che mi paiono aver contribuito significativamente a formarmi quale sono. Oggi è sempre più difficile per chiunque riconoscersi in un gruppo ben identificato immune da influssi estranei. Le nostre città sono popolate da individui provenienti dalle più lontane regioni della terra, le culture più diverse vivono a stretto contatto l’una dell’altra e gli scambi sono continui. L’inconscio sociale dei diversi popoli si fonde in un nuovo inconscio, sempre mutante che sfuma le differenze e non permette più di distinguere il presunto mondo selvaggio dal presunto mondo civile. Ciononostante non siamo tutti uguali e non abbiamo gli stessi gusti ed io difendo i miei gusti gastronomici e le mie scelte culturali. Sono dunque un razzista addirittura consapevole?

7
Io non voglio rinunciare al mio diritto di critica; so di avere alle mie spalle Platone e Kant, dai quali ho imparato i miei metodi di indagine e grazie ai quali oso dichiarare quello che credo di sapere.
Allo stesso modo sono convinto che altri di cultura diversa avranno le loro certezze, basate su altri parametri, portatrici di eredità etniche specifiche; ma sbaglieremmo io e loro se oggi volessimo accettare acriticamente e nella totalità il valori cosiddetti tradizionali. Dopo essermi ribellato al nazismo e al fascismo, ho provato disgusto anche per il comunismo reale, forme altrettanto aberranti di oppressione si trovano nel passato mio e dei cittadini di popoli molto lontani. Come non tutto ciò che è remoto nel tempo ha valore, lo stesso si può dire per ciò che è lontano nello spazio; non è vero che necessariamente ciò che è diverso è sempre bello e buono.

8
Può darsi che l’umanità che abita questa terra, intesa come un unico brulicante agglomerato di individui stia omologandosi: un mestolo gigantesco sta rimestando il calderone; tuttavia oggi ancora predominano le differenze sulle uguaglianze. Gli individui ancora si portano appresso il patrimonio dell’inconscio comune delle loro terre d’origine, per quanto lontani ne siano. Questo loro inconscio si scontra nelle terre d’approdo con un altro inconscio sociale, basato su altri valori, portatore di altri messaggi e la contaminazione è inevitabile. Inutilmente qualche popolo come quello degli ebrei si illude di poter difendere una sua purezza, orgoglioso delle proprie specificità culturali e razziali, presumendo di vantare una integrità unica ed irripetibile di spirito e di sangue. Sento molto vicina a me la religione ebraica eppure sono a disagio di fronte alle manifestazioni di una ritualità così ossessiva e me ne difendo. Forse è questa mia una espressione di razzismo antisemita, ma preferisco correre questo rischio che dichiarare un gradimento che non provo.

9
Sembrerebbe utile a questo punto cercare di approfondire l’analisi del concetto di razzismo e di xenofobia. Mi pare di poter dire senza doverlo giustificare troppo che le ragioni sociali ed economiche sono ovviamente determinanti; non voglio essere il solito psicoanalista che legge la realtà solo in chiave psicologistica, individuale ed intimistica. I comportamenti umani non sono determinati solo dall’effetto delle fantasie pulsionali o dai messaggi ereditari. C’è una realtà politica che provoca la cacciata o la fuga in massa per sottrarsi a questo o a quel tipo di predominio politico. L’arrivo massiccio di nuove popolazioni su di un territorio causa conflitti tra la cultura indigena e quella di importazione ed inoltre sconvolge il mercato della domanda e dell’offerta tanto di lavoro come di servizi; tutti questi elementi si aggiungono agli attriti provocati nella vita quotidiana da abitudini come quelle sessuali e religiose profondamente diverse. La somma di ciò contribuisce a creare un clima propenso a sfruttare quei diversi che sono oggettivamente anche i più poveri e i meno protetti legislativamente. È importante, detto ciò, non trascurare però gli altri aspetti determinanti dell’atteggiamento razzistico e xenofobo in rispetto di un pluralismo che non può che allargare la prospettiva critica. Affrontiamo dunque il punto di vista della psicoanalisi tradizionale e poi della mia teoria psicoanalitica in particolare, della cui unilateralità e problematicità mi faccio carico.
L’importante è che nessuno voglia leggervi una dogmaticità che non mi appartiene.

10
Io non penso che i traumi all’origine del disagio psichico più o meno grave debbano necessariamente risalire tutti all’età infantile; ritengo che si possano trovare con le stesse probabilità addirittura prima o molto dopo. Credo infatti nella ereditarietà: i messaggi genetici hanno secondo me una loro fondamentale importanza. Pur senza voler con questo salvare o condannare qualcuno prima ancora che venga al mondo, sono convinto che da molto lontano, attraverso la trasmissione di complicatissimi messaggi genetici, ogni individuo si strutturi anche come frutto delle esperienze dei suoi antenati e dei gruppi sociali da cui questi derivano. L’uomo non è molto diverso dagli animali e neppure dai vegetali. L’istinto è in noi e in loro; meccanismi stereotipi ed ereditari si ritrovano negli uomini, nelle bestie e nelle piante. Non è però vero che questi istinti non subiscano modificazioni nel divenire delle specie e degli individui; penso che persino la tecnica di fabbricazione del nido delle rondini oggi sia diversa da quella del più lontano passato, senz’altro le mutate condizioni ambientali hanno modificato i procedimenti originari. La storia cambia e determina i cambiamenti delle generazioni che si succedono, l’ereditarietà resta però un principio valido assolutamente: ogni individuo nasce già come frutto della storia dei suoi antecedenti; da lontano gli derivano le prime motivazioni di comportamento e persino i primi contenuti mentali. Non possiamo per ora ripercorrere a ritroso la trafila filogenetica, però possiamo essere sufficientemente sicuri (a meno che non intervengano in futuro possibili smentite clamorose a cui la scienza ci ha da sempre abituati) che il passato influenzi il presente. Ciascuno di noi è costituito da una pluralità di componenti ed anche l’inconscio – che non è mai solo racchiuso nel singolo individuo, ma è situato nel suo rapporto con gli altri – è una costruzione estremamente complessa articolata in tre istanze.
Una prima istanza è quella che potremmo definire inconscio individuale, determinato dall’esperienza di ciascuno, fatta di traumi, fantasie, passioni, desideri, eccetera. La seconda istanza la voglio chiamare inconscio sociale, fondato sui valori che preesistono all’individuo e che però lo costituiscono fin dal concepimento. La terza istanza è l’istinto, costituitosi nell’avvicendarsi delle generazioni della specie e che fornisce i criteri di comportamento e di reazione immediata agli stimoli, per lo più senza consapevolezza e proprio perciò legittima parte costituente della realtà inconscia. L’inconscio di ogni essere umano è così articolato universalmente.

11
Generalmente diffusa pare essere la componente razzistica e xenofoba degli esseri umani per cui una causa altrettanto universale deve essere reperibile.
Ci sono traumi che hanno per la vita di ogni uomo un’importanza fondamentale e sono quelli che io chiamo traumi significativi e non sono legati ad una particolare età e tanto meno soltanto all’infanzia, anzi le stesse probabilità di subire un trauma significante le ha un vecchio quanto un bambino, un adolescente quanto una persona matura. Questi traumi significativi sono cause di patologie psichiche piuttosto gravi. Dopo aver chiarito, credo a sufficienza, come io non privilegi un’età piuttosto che un’altra per quello che riguarda la produzione di quelli che ho chiamato “traumi significativi”, voglio ribadire che sono consapevole di quanti di questi traumi siano possibili già nella vita pre-natale e poi nella prima infanzia e condizionino la vita successiva, per cui lo psicoterapeuta ha sempre il dovere di far risalire la sua indagine fino ai primissimi momenti di vita, per quanto questo non lo autorizzi ad interrompere mai l’indagine di tutte le fasi successive.

12
Quello che io ho verificato riguarda in modo particolare un’esperienza traumatica significativa subita dai bambini della società occidentale ed è causata dalla nascita di un fratello minore da cui si sentono espropriati. Allora per richiamare l’attenzione su di sé i fratelli maggiori non solo mettono in atto comportamenti regressivi, enuresi, inappetenza o altre forme di accentuato infantilismo patologico, ma possono giungere a veri atti di aggressione verso il nuovo nato, spesso addirittura tendenti all’omicidio vero e proprio. Questa realtà è tenuta vergognosamente nascosta dalla cultura del senso comune, per cui questi atti sono minimizzati da una sorridente indulgenza degli adulti che quasi scusano quelle aggressioni come giustificato risarcimento di un bisogno d’amore frustrato, permettendo così l’espressione di una distruttività pericolosa. Il tentativo di fratricidio nei confronti dell’ultimo nato viene così perpetrato quasi quotidianamente. Un mio paziente padre da pochi giorni di una seconda figlia mi raccontava che la maggiore dopo qualche esitazione lo aveva affrontato dicendogli esplicitamente. “Finora l’ho sopportata, ma ora mi vuoi dire quando la porterai via?” Qui siamo ben al di là delle fantasticherie: chi è nato prima teme di essere espropriato dai fratelli che sopraggiungono dell’amore della famiglia. E lo stesso sentimento è provato dall’ultimo venuto che tollera male di non essere l’unico oggetto d’amore. L’inconscio sociale veicola poi questi messaggi anche a chi non ha avuto l’esperienza di condividere con fratelli o sorelle l’attenzione dell’ambiente famigliare. Il figlio unico, inserito in una società in cui tutti percepiscono come propria l’angoscia di espropriazione e l’ansia che spinge a lottare contro ogni possibile espropriatore, prova su di sé la stessa ansia come sentimento originario che lo inserisce nel meccanismo di lotta, anche se non ha provato direttamente quell’esperienza. Credo che sia un meccanismo abbastanza strettamente collegato a quella che è la struttura famigliare occidentale, dalla quale derivano messaggi veicolati dagli adulti ai più giovani. Non so se lo stesso accada nell’inconscio sociale di altre culture in cui la famiglia sia strutturata in modi radicalmente diversi. Ma ho l’impressione che questo sia un meccanismo quasi universale.

13
Nel divenire dell’esistenza, lentamente il timore dell’espropriazione viene superato e i fratelli diventano una sorgente di affetto che può anche riscaldare col proprio calore. L’amore intenso che lega tra loro i fratelli serve a vincere le aggressività reciproche; è un sentimento complessivo, anche fatto di desiderio fisico, che trasforma il primitivo rifiuto in accettazione almeno parziale. L’aggressività però che viene superata se pur non totalmente all’interno del gruppo famigliare, spesso ha bisogno di trovare altre valvole di sfogo e continua ad agire patologicamente nell’inconscio come timore della possibile espropriazione. Xenofobi e razzisti sono l’espressione più clamorosa di questa patologia, individuale o collettiva, che si esprime in bande organizzate o in comportamenti allargati, giustificata o meno da ideologie e proclami statutari. Spesso prende anche la forma del perbenismo diffuso dei ben pensanti che fanno discorsi basati sul buon senso e sulle necessità prioritarie, alla soddisfazione delle quali sembra opporsi l’esigenza di quanto di “nuovo” si viene profilando all’orizzonte, portatore di esigenze altre, di persone in qualche modo straniere ed estranee al tessuto sociale costituito. Questa paura del nuovo venuto, come dell’espropriazione da parte del fratello, esprime i sentimenti di individui malati, che non sono riusciti ad elaborare quell’originario timore.

14
Io sono convinto che l’aggressività che in questi casi si manifesta verso il fratello, come verso lo straniero, non è realmente originaria. Il desiderio originario, percepito ancora prima della nascita, trasmesso geneticamente, è sempre desiderio dell’altro, desiderio di amore e di calore, senza i quali nessun embrione, feto o neonato è neppure in grado di sopravvivere. L’uomo per esistere ha bisogno dell’altro e la ricerca di questo altro è immediata. Io non credo nel narcisismo primario, non credo che si nasca chiusi in se stessi, ma sono certo che l’essere umano sia aperto al rapporto con gli altri fin dal momento del suo concepimento, disponibile fin da subito all’amore, di cui ha bisogno e del quale va subito alla ricerca. Certo questa pulsione conosce immediatamente ostacoli che la frustrano e allo stesso tempo mitigano la fantasia di potenza assoluta che si oppone alla realizzazione fantastica del sentimento di volere e potere tutto e a cui deve necessariamente succedere la nuova convinzione che non tutto è possibile, che il desiderio non riuscirà ad avere totale soddisfazione. L’embrione fin da subito chiede al mondo amore e cura, il percorso successivo dell’essere umano frustra questo assoluto bisogno fino all’estremo della rivalità del fratello percepito anch’esso come ostacolo alla piena soddisfazione dei propri desideri e bisogni. La rivalità verso il fratello con facilità viene trasferita sullo straniero, visto come la replica di quel primo espropriatore, uno che viene di lontano a contenderci qualcosa a cui noi soli crediamo di avere diritto, sia nutrimento, affetto, o ricchezza. Solo i più sani rispondono positivamente alle esigenze della nuova realtà e dividono con l’altro ciò di cui dispongono; i malati non ne sono capaci e reagiscono parossisticamente con l’intolleranza razzista e xenofoba, una replica di quell’aggressione originaria le cui tracce sono nell’inconscio sociale di tutti. Questa che ho cercato di fornire è un’interpretazione psicodinamica del razzismo, penso che possa avere un suo valore, a patto che sia inserita nella più ampia analisi socio-politica e culturale capace di tenere conto della complessità di un fenomeno che comunque resta patologico.