Per chi scrive, parole come Croazia e Slovenia hanno finora significato assai poco e della Serbia restava una reminiscenza scolastica legata all’inizio di una tra le tante tragedie che hanno colpito il mondo, che un po’ buffamente ha avuto il privilegio di essere da quasi tutti chiamata «la prima guerra mondiale», espressione ridicola e che svuota di gran parte del suo senso la drammaticità della storia dell’uomo sulla terra, segnata da sempre dalla guerra come forma quasi esclusiva di sopravvivenza. La Jugoslavia, per quanto vicina è sempre apparsa alonata da luci strane proiettate sulla sua storia e sulle intersezioni che ha avuto sulle nostrane vicende. Trieste irredenta, Istria italiana… Un cinema pseudo-realista ed in realtà di propaganda che sciorinava drammi e lacrime intorno ad un confine che divideva in due le città, spaccava a metà le case. Ancora una parola misteriosa, proprio più tremenda perché non davvero afferrabile concretamente: le «foibe». Tito poi apparve come l’astro dominante di un socialismo non pauroso, capace addirittura di essere perno di uno schieramento di «paesi non allineati» che pareva una chimera in una realtà così inesorabilmente divisa tra blocchi, in ogni momento a rischio di essere divorata dal capitalismo americano o dal totalitarismo sovietico. Poco più che flash di conformistica e fasulla parvenza di informazione su qualcosa che non riusciva ad interessare davvero. Forse fu soltanto l’accenno pudico che seppe fare Pier Paolo Pasolini della vicenda personale che lo coinvolse con l’oscura morte del fratello che incominciò a suscitare inquietanti riflessioni sulla contraddittorietà di realtà che non si debbono mai leggere in una chiave soltanto. Poco incise comunque quel campanello d’allarme quando la Jugoslavia prese ai nostri occhi l’aspetto ameno del paese delle vacanze. Una terra, la Dalmazia, dolce di boschi che s’adagiano sul mare calmo come un lago. Paesi che, a pochi chilometri dai monumenti di sontuose civiltà veneto-turche e di resti romani, vivevano una loro dignitosa laboriosità, ricchi di sole, ospitali, poveri senza disperazione. Discorsi di ragazzi convinti di avere un domani migliore dello ieri da cui avevano visto i loro vecchi emergere con fatica. Oggi Jugoslavia significa morte, distruzione, nuove disperazioni. Ancora, una propaganda addita in qualcuno che sta di fronte un nemico, nella morte un senso. «Libertà va cercando…» dice il Poeta. Il diritto alla libertà e alla sovranità di ogni popolo resta. Gli uomini però sono importanti finché sono vivi e disarmati.
Archivio di novembre 1991
77 – Novembre ‘91
venerdì, 1 novembre 199177 – Novembre ‘91
venerdì, 1 novembre 1991La stagione di musica da camera dell’ Accademia Nazionale di Santa Cecilia si è inaugurata mercoledì 23 ottobre con un concerto tutto dedicato ad Haendel, diretto da Franco Petracchi, con l’orchestra da camera e i solisti dell’ Accademia e che ha visto la partecipazione del soprano veronese Cecilia Gasdia. Il primo brano in programma: la Sonata in sol minore per due violoncelli e archi, è una trascrizione abbastanza recente (1959) di Feuillard e Tortelier che tenta una ricostruzione filologica dell’originale barocco, sostituendo agli oboi due violoncelli: un’operazione musicalmente squallida, priva di qualunque capacità filologica. Il tutto è risultato opaco e dolciastro, con una direzione assonnata che ha coinvolto anche i due violoncelli: Alfredo Stengel e Luigi Bossoni. L’atmosfera di piattezza si è prolungata anche nella Cantata dei pensieri notturni di Filli, per soprano, violino e basso continuo, opera astuta se pure non eccelsa. Ma già alla Cantata di Agrippina condotta a morire abbiamo ritrovato le belle melodie haendeliane, tornite e sensuali, che il soprano ha interpretato con virtuosistica bravura e bella espressione e che Petracchi ha diretto con maggiore attenzione, specialmente ai coloriti. Nella cantata Delirio amoroso, per soprano e orchestra, Haendel si rivela in tutto il suo splendore, fino dall’ouverture orchestrale. Poi il discorso si articola attraverso un bel dialogo continuo tra la voce e gli strumenti, tutto pervaso di poesia e maestria. Ottima la Gasdia nei passaggi virtuosistici e anche nel canto lirico spiegato. Perfetto il primo violino Angelo Stefanato che ha contribuito anche a ridare smalto ad orchestra e direttore, riportati a nuova vita.
77 – Novembre ‘91
venerdì, 1 novembre 1991In Italia l’arte di Lncien Freud, figlio di Ernst, ultimogenito di Sigmund, non è molto nota. Eppure si tratta di un pittore di altissimo livello. La panoramica che della sua opera permette di cogliere la mostra dedicatagli a Palazzo Ruspoli dalla fondazione Memmo, con la supervisione di Bruno Mantura, può essere ritenuta esauriente (se pure non è ovviamente completa), in quanto permette di vedere opere pittoriche e grafiche cha vanno dai primi anni quaranta ai nostri giorni. Lucien Freud nacque a Berlino nel 1922 e nel 1933 si trasferì con la famiglia in Inghilterra dove vive e lavora a tutt’oggi. Ci troviamo di fronte ad un artista che, secondo noi, ha saputo assimilare l’arte del suo tempo e anche quella del passato, senza però mai soggiacere alle «mode»: saldamente impegnato nel parlare chiaro. Come tutti i discorsi senza veli, anche i suoi raggiungono profondità che gli sperimentalismi del passato e i frivoli ripescamenti del presente sono ben lungi dal raggiungere. Il termine «inquietante» è ormai consunto, rimane però molto usato; indubbiamente l’arte di Freud inquieta nel senso che non lascia in pace chi guarda, ma ne provoca la riflessione; allo stesso modo in cui risulta provocante nei confronti di chi narcisisticamente si compiace della più banale stravaganza. Ogni tela è composta di più strati: davanti c’è l’immagine principale, dietro alla quale si sentono continui richiami, però, se si cambia atteggiamento psichico, ecco che quello che sembrava stare dietro si sovrappone a quello che stava davanti. In questo continuo gioco di rimandi la sua arte ha un che di inesauribile. Il soggetto privilegiato è sempre, in primo piano o sullo sfondo, la figura umana: ritratti che ammiccano anche ai grandi esempi di fine ottocento; donne nude che si esibiscono impudicamente e nudi virili teneri, talora sfacciati e talvolta quasi timidi. Naturalmente in un lungo spazio di tempo le tecniche e le suggestioni mutano e si sviluppano gli argomenti. A questo proposito sono significative due vicende ritrattistiche che si inseguono quasi nel corso degli anni: gli autoritratti e le tavole dedicate alla madre. La prima volta incontriamo il pittore che si ritrae come Uomo con piuma (1943) caratterizzato dalla fissità di un manichino magrittiano, ma con esuberanze fauve ed espressioniste; nel 1949 l’autoritratto è pervaso di compiacimento post-romantico, idealizzato e morbidamente naturalistico. Dopo l’autoritratto definito come Testa maschile del 1963, dalla prospettiva forzata e dalla pennellata spessa e nervosa, con piani di luce e deformazioni che preludono all’espressionismo drammatico, la sua figura appare non più come protagonista solitaria: ora è in primo piano nel Riflesso con due bambini 619657, ora fa capolino con la mano all’orecchio, seminudo, nascosto da una pianta da appartamento che assume per l’occasione valenza di foresta, fino ad essere poco più di uno sgorbio riflesso allo specchio nel Piccolo interno 619727. Infine riemerge con tutto il patrimonio dell’esistenza, evidenziato da una sintesi che supera l’espressionismo alla ricerca di una verità psicologicamente plausibile, nell’Autoritratto del 1983-85, in forma di uomo maturo che non vuole più nascondere o camuffare nulla. Valore di narrazione assume una serie di ritratti della madre. Dapprima ci appare una nobile figura di donna mentre legge (1975) e l’intento descrittivo è evidente nei particolari che ne connotano la buona posizione sociale, l’aderenza al ruolo, coi bei piani di luce che animano la fisionomia nonostante gli occhi socchiusi e volti verso il basso, impenetrabili a chi osserva; ben diversa da quella testa affondata nel cuscino che fissa con espressione stranita, quasi strabica per l’occhio destro socchiuso, gonfia nei lineamenti che il carboncino su carta del 1984 sembra analizzare con una certa spietatezza. Fino al grande olio del 1982-84 che la ritrae a figura intera, macchia bianca stesa sopra le coperte grigiastre d’un letto d’ospedale (?) fissamente rivolta altrove, ma si direbbe al di là. Quasi sempre è possibile a nostro avviso leggere nella pittura di Freud l’ansia di raccontare interamente un’esperienza esistenziale e culturale nel suo divenire; per questo ci pare di aver ritrovato sempre gli stessi personaggi ritornanti anche là dove la dichiarazione non si fa esplicita.
Abbiamo notato poi, con tenerezza, che, insieme con la priorità data alla figura umana, l’altro soggetto quasi sempre presente è il divano o il lettino. Chissà perché.
77 – Novembre ‘91
venerdì, 1 novembre 1991Piergiorgio Paterlini afferma nell’introduzione al suo volumetto, Ragazzi che amano ragazzi (Feltrinelli, 1991, pagg. 125, Lit. 20000): «Storie tutte rigorosamente vere. Nelle quali non compaiono – per una volta – soldi, lampioni e signori che si fermano con la macchina. Storie che dicono come sono oggi i ragazzi omosessuali in Italia. Ma prima ancora che essi ci sono, esistono, anche se non ci accorgiamo quasi mai di loro.»
Noi non abbiamo elementi per non ritenere rigorosamente vere queste quindici storie raccontate direttamente dai protagonisti adolescenti; però è una nostra soggettiva impressione che ce le fa sembrare tutte inventate.
Se non ci sono gli elementi e i personaggi tipici della prostituzione, è altrettanto vero che i pochissimi elementi costitutivi di ogni storia sembrano essere sempre gli stessi, estratti di volta in volta a caso, come i bussolotti da un sacchetto. Padre e madre comprensivi, padre e madre infuriati, amici che accettano, amici che provano ribrezzo, sorelle più o meno alleate o sconvolte. Su tutto una pioggia di giornaletti pornografici. Questi «checchini» parlano tutti lo stesso linguaggio, stereotipo, misero e abbastanza corretto. Noi ci rifiutiamo di credere che i ragazzi che desiderano altri ragazzi (e noi siamo convinti che lo siano tutti) siano solo o proterve marchette oppure esili e vuoti signorinetti che fantasticano il bell’amante muscoloso per impostare una vita da telenovela. Per fortuna la nostra esperienza clinica non ci dà lo stesso quadro desolante e banale: la psiche e la sessualità sia dei giovani sia degli anziani è molto più articolata, drammatica e allegra. Le storie di Paterlini sono invece solo diversi modi di raccontare la stessa storia e non possono quindi essere rappresentative di un mondo come quello adolescenziale, senz’altro molto più variegato, sfumato, profondo, entusiasta e tragico.
Se l’intenzione è quella di isolare l’aspetto della normalità di questi giovani, allora però è il concetto di normalità come l’intende l’autore che noi critichiamo con molta durezza.
L’analisi della lingua parlata non è certo una scoperta dell’Ottocento; oggi la linguistica è diventata un aspetto della ricerca scientifica, quasi autonomo. I linguisti, da De Saussure in avanti, hanno detto cose più o meno intelligenti e utili, molto spesso anche proficue ed interessanti. Il fatto è che gli studiosi della lingua verbale, hanno sempre fatto confusione tra linguaggio, parola, linguaggi, conscio, inconscio. Per cui questa scienza, per il momento, non è che un guazzabuglio impreciso; anche perché molti linguisti usano i termini lingua e linguaggio, dando per scontato di parlare sempre di comunicazione verbale; non rendendosi spesso conto che le strutture linguistiche sono moltissime: dai gesti delle mani ai movimenti degli occhi, dall’uso dei colori e dei suoni, fino alle più varie forme di espressione. Quando un filosofo della lingua è anche tronfio e sussiegoso, non sa scrivere ed è immerso in una confusione mentale quasi delirante, vengono fuori libri come quello di Juergens Habermas Il pensiero post-metafisico, (Laterza, 1991, pagg.301, Lit. 30000). Pensiamo che parte del problema sia anche dovuto alle difficoltà di traduzione incontrate da Marina Calloni, la quale forse non è in grado di padroneggiare del tutto gli elementi di filosofia e linguistica. Le scorrettezze filosofiche e metodologiche di Habermas sono in ogni caso innumerevoli, così che non ci pare possibile impostare con lui alcun dibattito, tanto quello che dice risulta essere un balbettio con i termini usati a vanvera. Ad esempio analizza molte espressioni verbali ed il loro uso, contestuale e non, confondendo tra struttura e funzione. Inoltre sembra non rendersi conto che esistono i lapsus. Affronta anche il problema della metafisica e della post-metafisica dicendo che il fondamento della metafisica tradizionale sarebbe tutto circoscritto nel rapporto tra l’uno e il molteplice: «Unità e pluralità denota il tema sotto il cui segno la metafisica è esistita fin dal principio. La metafisica vuole ricondurre tutto ad uno; sin da Platone essa si presenta nei suoi tratti determinanti, come la dottrina del Tutto-unità…» (pag. 151); dimostrando di non tenere conto della discussione sulla questione tanto dibattuta della mobilità e immobilità, da cui scaturisce il concetto di spazio-tempo. Habermas ha un terrore folle ed a nostro avviso ingiustificato della parola «ragione», ma ancora più della parola «irrazionale»; per questo cerca di tenere i piedi in due staffe, in uno sforzo di equilibrio inconcepibile. Un certo interesse ha destato in noi il capitolo ottavo che dibatte il problema del rapporto tra linguaggio scientifico e linguaggio letterario: «Non si dà alcuna rottura innovativa con forme e abitudini scientifiche convalidate, senza un’innovazione linguistica: questa connessione non pare controversa. Freud era anche un grande scrittore» (pag. 237). Ci siamo resi conto di aver commentato il libro in modo disorganico e forse addirittura poco comprensibile; ma abbiamo veramente fatto fatica a trovare qualcosa su cui dibattere in quell’insalata di parole. Potrebbe essere questo un invito a leggere il volume, per cercare di capire di più; ma noi diciamo drasticamente che non ne vale la pena: ci siamo già annoiati a sufficienza noi.
77 – Novembre ‘91
venerdì, 1 novembre 1991I gestori del ristorante La lampada da Tonino di via Quintino Sella, specializzato in funghi e tartufi, probabilmente sono sadomasochisti. Perché sulla carta denunciano anche ben tre primi piatti di pasta o riso con panna. L’avventore che non conosca ancora il locale, ma che sia persona di buon gusto, resterebbe terrorizzato e avrebbe voglia di fuggire, temendo che con chissà quale incompetenza ci si muova in cucina. Invece basta non scegliere le delittuose proposte per vedersi capitare sul tavolo una serie di preparazioni, eccellenti, con ingredienti di primissima qualità, trattati con sapienza gastronomica. Tutto è saporitissimo ed accurato, i funghi porcini ed i tartufi sono esaltati al massimo grado; però anche tutto il resto è cucinato a dovere. Lo chef Michele sa davvero il fatto suo. L’accoglienza è cordiale, timida e un po’ all’antica. Dalla cantina arrivano anche ottime bottiglie di vino.
Peschiamo nella memoria qualche manicaretto che abbiamo particolarmente apprezzato: le prelibate ovoline al tartufo nero, la eccezionale insalata di porcini alla lampada, con parmigiano e un buon olio toscano di giusta freschezza e morbidezza; la saporitissima zuppa ai funghi di bosco, assaggiando la quale ci si compiace di una terrina colma di fragranti funghetti, leggermente piccanti, con i due crostini che non sono lì per far volume, ma per completare come è giusto il piatto. Noi troviamo superlativi gli spaghetti al tartufo bianco di Acqualagna, cotti alla perfezione, conditi senza risparmio, senza sospetti di panna. Un piatto ben riuscito sono anche le scamorze ai tartufi; maestoso ed allettante è il fritto di porcini. Le più semplici scaloppe al Madera non sfigurano di fronte al regale filetto con porcini arrosto. Ottimo è il tiramisù davvero fatto in casa; mentre non troviamo senza difetti la pastiera napoletana, in cui si percepisce, forse, troppo la sugna. Noi abbiamo conosciuto qui un vino apprezzabile: il Selenard di Colutta, derivato da uve refosco, cabernet e pinot, che è bevibile anche dopo un discreto invecchiamento, dalla buona stoffa e profumato di frutti di bosco. Vista la grande abbondanza di miceti e spore pregiatissime, il prezzo non può risultare modesto. Ma è praticabile in alternativa una linea tutta napoletana, che noi riteniamo interessante e a costi contenutissimi.
77 – Novembre ‘91
venerdì, 1 novembre 1991Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea De Chirico) fu un artista dai molti interessi.
Noi abbiamo letto – mai ascoltato – alcune sue romanze, costruite con garbo e cura, niente di più. Conosciamo i suoi lavori teatrali arguti e pungenti, ma niente di più. Come pittore è invece riuscito ad essere una personalità significativa: il suo uso della fantasia e del colore è sapiente, il suo segno graffiante e profondo, esprime giochi della mente ed ambiguità surreali; sotto le sue mani la realtà si trasfigura, assumendo forme inconsuete.
Al teatro Flaiano è andato in scena un suo testo: La famiglia Mastinu; un’opera che in sé non è né bella né brutta, soprattutto è satura di un convenzionalismo antiborghese, ovvio e scontato. In una famiglia squallida, in cui nessuno ha rapporto con gli altri, la vecchia nonna muore e tutti si divertono finalmente un poco nell’adempimento dei rituali convenzionali; ma, passata l’euforia momentanea, tutto riprende monotonamente uguale, in attesa della prossima funerea occasione. Il copione ha il pregio di essere costruito in modo di offrire molte possibilità teatrali a chi sia capace di sfruttarle. La realizzazione del Teatro della Tosse ha saputo cogliere l’occasione’ anche per il determinante contributo della scenografia di Emanuele Luzzati che, parodiando i moduli grafici saviniani, ha preparato un terreno fertile e ricco di connotazioni psicologiche. La regia di Egisto Marcucci ha guidato tutta la compagnia con estrema sapienza: il ritmo era inappuntabile, le invenzioni continue, la gestualità appropriata; tutto ha fatto sì che lo spettacolo risultasse estremamente godibile. Gli attori sono stati bravissimi, eroici anche nella loro capacità di emergere, facendole proprie, dalle pesanti maschere di gomma che mutavano in mostri gli esseri umani; la loro bravura rendeva accettabile un genere di teatro che, preso in sé, non andrebbe al di là di una passabile routine.
I nomi da ricordare sono: Enrico Campanati, Aldo Amoroso, Carla Peirolero, Francesca Corso, Dario Manera, Bruno Cereseto, Gaddo Bagnoli, Giulia Del Monte, Veronica Rocca, Daniele Sulewic, Nicholas Brandon, Lorenzo Anelli, Giuliano Fossati, Enrica Carini. Le gradevoli musiche erano di Bruno Coli.
Noi siamo arrivati in teatro molto presto e ci siamo messi ad ascoltare le chiacchiere del pubblico in attesa; forse era una serata particolare, però abbiamo solo sentito le idiozie banali che venivano poi stigmatizzate dalla vicenda scenica: ci trovavamo in mezzo ad un mucchio di borghesi imbecilli, persino inconsapevoli di essere l’oggetto biasimato dall’autore, appagati per di più dall’impressione di partecipare ad un rito che li caratterizzava fortemente come «intellettuali». Uscendo ci siamo detti con terrore: «E noi?»