77 – Novembre ‘91

novembre , 1991

In Italia l’arte di Lncien Freud, figlio di Ernst, ultimogenito di Sigmund, non è molto nota. Eppure si tratta di un pittore di altissimo livello. La panoramica che della sua opera permette di cogliere la mostra dedicatagli a Palazzo Ruspoli dalla fondazione Memmo, con la supervisione di Bruno Mantura, può essere ritenuta esauriente (se pure non è ovviamente completa), in quanto permette di vedere opere pittoriche e grafiche cha vanno dai primi anni quaranta ai nostri giorni. Lucien Freud nacque a Berlino nel 1922 e nel 1933 si trasferì con la famiglia in Inghilterra dove vive e lavora a tutt’oggi. Ci troviamo di fronte ad un artista che, secondo noi, ha saputo assimilare l’arte del suo tempo e anche quella del passato, senza però mai soggiacere alle «mode»: saldamente impegnato nel parlare chiaro. Come tutti i discorsi senza veli, anche i suoi raggiungono profondità che gli sperimentalismi del passato e i frivoli ripescamenti del presente sono ben lungi dal raggiungere. Il termine «inquietante» è ormai consunto, rimane però molto usato; indubbiamente l’arte di Freud inquieta nel senso che non lascia in pace chi guarda, ma ne provoca la riflessione; allo stesso modo in cui risulta provocante nei confronti di chi narcisisticamente si compiace della più banale stravaganza. Ogni tela è composta di più strati: davanti c’è l’immagine principale, dietro alla quale si sentono continui richiami, però, se si cambia atteggiamento psichico, ecco che quello che sembrava stare dietro si sovrappone a quello che stava davanti. In questo continuo gioco di rimandi la sua arte ha un che di inesauribile. Il soggetto privilegiato è sempre, in primo piano o sullo sfondo, la figura umana: ritratti che ammiccano anche ai grandi esempi di fine ottocento; donne nude che si esibiscono impudicamente e nudi virili teneri, talora sfacciati e talvolta quasi timidi. Naturalmente in un lungo spazio di tempo le tecniche e le suggestioni mutano e si sviluppano gli argomenti. A questo proposito sono significative due vicende ritrattistiche che si inseguono quasi nel corso degli anni: gli autoritratti e le tavole dedicate alla madre. La prima volta incontriamo il pittore che si ritrae come Uomo con piuma (1943) caratterizzato dalla fissità di un manichino magrittiano, ma con esuberanze fauve ed espressioniste; nel 1949 l’autoritratto è pervaso di compiacimento post-romantico, idealizzato e morbidamente naturalistico. Dopo l’autoritratto definito come Testa maschile del 1963, dalla prospettiva forzata e dalla pennellata spessa e nervosa, con piani di luce e deformazioni che preludono all’espressionismo drammatico, la sua figura appare non più come protagonista solitaria: ora è in primo piano nel Riflesso con due bambini 619657, ora fa capolino con la mano all’orecchio, seminudo, nascosto da una pianta da appartamento che assume per l’occasione valenza di foresta, fino ad essere poco più di uno sgorbio riflesso allo specchio nel Piccolo interno 619727. Infine riemerge con tutto il patrimonio dell’esistenza, evidenziato da una sintesi che supera l’espressionismo alla ricerca di una verità psicologicamente plausibile, nell’Autoritratto del 1983-85, in forma di uomo maturo che non vuole più nascondere o camuffare nulla. Valore di narrazione assume una serie di ritratti della madre. Dapprima ci appare una nobile figura di donna mentre legge (1975) e l’intento descrittivo è evidente nei particolari che ne connotano la buona posizione sociale, l’aderenza al ruolo, coi bei piani di luce che animano la fisionomia nonostante gli occhi socchiusi e volti verso il basso, impenetrabili a chi osserva; ben diversa da quella testa affondata nel cuscino che fissa con espressione stranita, quasi strabica per l’occhio destro socchiuso, gonfia nei lineamenti che il carboncino su carta del 1984 sembra analizzare con una certa spietatezza. Fino al grande olio del 1982-84 che la ritrae a figura intera, macchia bianca stesa sopra le coperte grigiastre d’un letto d’ospedale (?) fissamente rivolta altrove, ma si direbbe al di là. Quasi sempre è possibile a nostro avviso leggere nella pittura di Freud l’ansia di raccontare interamente un’esperienza esistenziale e culturale nel suo divenire; per questo ci pare di aver ritrovato sempre gli stessi personaggi ritornanti anche là dove la dichiarazione non si fa esplicita.
Abbiamo notato poi, con tenerezza, che, insieme con la priorità data alla figura umana, l’altro soggetto quasi sempre presente è il divano o il lettino. Chissà perché.