Archivio di settembre 1991

Psicoanalisi contro n. 75 – Passi nella notte

domenica, 1 settembre 1991

Quando ero più giovane, avevo l’abitudine di passeggiare a lungo, di notte, insieme con un amico, per le vie delle città in cui mi trovavo a passare periodi più o meno lunghi di lavoro o di vacanza, mantenendo così un’abitudine acquisita fin da ragazzo.
Oggi, purtroppo, non ho più tanto tempo per camminate molto lunghe; ma quando non sono stanco, amo ancora, di notte, percorrere le strade di città, di campagna o di provincia. Ho il tempo di riflettere sulle architetture, sulle soluzioni urbanistiche, di osservare i monumenti; cose tutte che acquistano in quelle ore una caratteristica particolare, come se divenissero più concrete e sensibili; mi sembra di poterle palpare nel loro ergersi e distendersi, guadagnando il proprio spazio con una naturalezza che, alla luce del giorno, sembra venire inebetita ed ottusa dal via vai frenetico del traffico. La facciata di Nòtre Dame di Parigi, le colonne della Casa Biaton, la statua del Gattamelata a Padova, nella loro maggiore o minore bellezza presentano, di notte, un volto inconsueto. Quando posso, mi piace indugiarci sopra con le mani, sentire la pietra, il marmo o il bronzo, valutarne asperità e morbidezze, leggervi la storia di secoli, mentre intorno c’è silenzio. In genere, nel buio, si aggirano poche ombre ed io preferisco allontanarmi se mi capita di ( imbattermi in gruppi clamorosamente vocianti, per tornare a sentire passi leggeri e furtivi. Una figura avanza, sembra una donna, forse un’infermiera, o una prostituta: ( passa rapida; poi un giovinotto con la camicia chiara, le spalle larghe, si guarda intorno; decido di seguirlo, forse essendo maschio non si spaventerà, come si spaventerebbe una donna. Mi accodo alla sua ombra, un po’ a distanza, osservo i suoi movimenti, il cui senso è qualche volta comprensibile: si affretta, entra in una farmacia notturna, ne esce perdendosi nella notte; ma molto spesso è quasi impossibile capire; sembra che mi manchino codici capaci di decifrare certi gesti di cui non colgo la grammatica né la sintassi: il ragazzo cammina fino a raggiungere la facciata di un palazzetto, si addossa ad una parete e resta immobile, come sopra pensiero, poi si sposta ad una chiesetta non troppo distante, dal piccolo frontone e quattro colonne; fa il giro intorno ad una delle colonne, una sola, sembra osservarla, si siede per un attimo sul basamento e poi subito si alza, scomparendo. E solo uno che non riesce a prendere sonno, ma mi domando quali pensieri guidino i suoi passi; quando la curiosità è troppo forte, cerco di provocare un incontro, quasi uno scontro fisico, che mi permetta di iniziare una conversazione in base alla quale tutto dovrebbe essere più chiaro.
Così è talvolta e capisco anche quanto di quel comportamento fosse provocato proprio dal fatto di sentirsi osservato da due persone come me e il mio compagno; ma più spesso di quanto non si crederebbe non viene fuori nessuna spiegazione plausibile, paiono gesti fatti solo «Così…». Non solo queste mancate giustificazioni rendono quei gesti assurdi o apertamente falsi, ma anche paiono alludere a confusioni interiori simili a veri e propri disorientamenti.

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I comportamenti umani, se osservati con attenzione, da vicino, solo raramente sono spiegabili in modo lineare e coerente; molto più spesso di quanto non si immagini, sorgono da spinte interne, che potrei chiamare inconsce, e che sono realmente incomprensibili su basi soltanto razionali, non tanto perché siano assurdi, ma perché le loro motivazioni sono così nascoste da sembrare oscure non solo a chi osserva, ma anche a chi agisce. È persino banale spiegare tutto dicendo che ogni gesto implica necessariamente riflessi automatici inconsapevoli: se ciascuno di noi dovesse riflettere prima di alzare un bicchiere o muovere la mascella oppure avanzare di un passo rischieremmo la paralisi. Invece succede che prima di entrare in una camera ci ravviamo i capelli con un gesto automatico, chissà perché: quella stanza avrebbe dovuto essere vuota, ma invece abbiamo immaginato che ci fosse qualcuno, proprio la persona che dovremo vedere domattina, ma che avremmo voluto incontrare proprio lì; una persona importante per la vita, per il lavoro; così la mano si è mossa compiendo un gesto che ci accattivasse la sua simpatia, che ottenesse la sua approvazione per il nostro aspetto. Se avessimo dovuto fare tutto il ragionamento prima di compiere il gesto saremmo rimasti interi minuti immobili davanti alla soglia di una stanza vuota; se lo stesso
meccanismo applicassimo ad ogni azione del vivere giornaliero non riusciremmo davvero a fare molto. Ogni riflessione sulle motivazioni di un gesto ne richiama un’altra, su su, fino a domandarci cosa ha spinto Eva ad offrire la mela ad Adamo, perché tutti e due si sono poi vergognati di essere nudi, gesti che hanno trovato il loro senso nelle spiegazioni della teologia, ma che probabilmente non sono stati valutati allo stesso modo dai due protagonisti, se no l’umanità sarebbe ancora in contemplazione dell’albero del bene e del male, tra i fiori e i frutti del Paradiso terrestre. Con i «se» non si fa la storia, neppure quella biblica; la mela è sul ramo e bisogna decidere se coglierla o non coglierla, ieri come oggi.
Chi lo fa, ascoltando il diavolo travestito da serpente, sappia che il suo peccato è di disobbedienza e non di lussuria; nulla c’era allora e c’è oggi di male nella nudità dei corpi, ma è peccato disobbedire e convincere gli altri a disobbedire a loro volta.
La disobbedienza e l’orgoglio di pochi sono la rovina di moltitudini di innocenti: questo è giusto? Dio non risponde a questa domanda che gli ho spesso posto, forse vuole che gli sia fedele ed obbediente senza motivazioni.

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Esiste una corrente dell’arte figurativa recente, ancora attiva, anche se leggermente passata di moda, chiamata «iperrealismo». Ricordo che una sera, in casa di un amico gallerista, fui condotto in una sala, dove, d’improvviso, mi trovai a tu per tu, con un motociclista imbalsamato: una vera motocicletta, era cavalcata da un manichino di impressionante realismo, vestito con giubba e calzoni di cuoio, casco «spaziale», la cui mano destra si levava aperta, solo un po’ irrigidita, nel segno di un saluto. Il sorridente e scherzoso padrone di casa, mi fece scendere la mano sulla chiusura lampo dei calzoni, sotto i quali sentii premere la bozza del membro virile di quel centauro: era l’opera d’arte appena giunta da non so quale museo, pronta per una imminente mostra. Oggi non sarei più così esterrefatto, ma alcuni anni fa la novità mi fece sensazione. Assiduo frequentatore di d musei e gallerie quale io sono mi capita ancora oggi di imbattermi in opere di questa corrente artistica: donnone enormi, nude o vestite, scandagliate dal pennello o dall’obbiettivo fotografico fino nelle più intime pieghe, irrimediabilmente realistiche; interni scrupolosamente fissati sulla tela in una miriade di particolari minuti, riprodotti con scrupolosa precisione, nel- n le venature dei legni, nei riflessi vetrosi, s nella trama dei tessuti, nella porosità di è intonaci; un realismo così impressionantemente preciso, quale non può esserlo nessuna realtà oggettiva, tanto che mi pare s giusto considerare questo «iper-realismo» t ~ un aspetto particolare dell’astrattismo. c Quelle forme, osservate con la stessa minuziosa attenzione con cui sono state riprodotte, perdono ogni senso di realtà, come se ripetessero ossessivamente il nome degli oggetti che rappresentano, fino ” a perdere ogni significato, così traboccanti di sé da svuotarsi improvvisamente e totalmente. Subentra allora il disorientamento, per la consapevolezza dell’assurdo. Come si può essere consapevoli dell’assurdo? Così si giunge alla follia: gli artisti d iper-realisti dovrebbero essere condannati s per la loro istigazione al delirio, per la d quantità di crisi di panico che effettivamente provocano. Solo la eufemistica trattazione dei testi psichiatrici sostiene che r dalle crisi di panico si riemerge sempre; ” io che non sono molto consolatorio so che invece non è così.

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L’assurdo si annida ovunque, inseguendo chi passa per strada, di giorno o di notte, nell’impossibilità di dare un senso a quei passi. L’arte iper-realista tenta di far perdere l’orientamento insistendo con un’attenzione ossessiva per i particolari.
La realtà quanto più la si guarda a distanza, con atteggiamento approssimativo, tanto più risulta chiara e comprensibile, mentre, più ci si avvicina ad essa concentrando l’attenzione sui singoli dettagli, più perde di precisione. Ecco spiegato, forse, perché tutti viviamo nell’approssimazione: il mondo è grande, le foreste e le stelle sono tante, così le formiche ed i sassi della spiaggia. Ciascun elemento preso a sé risulta incomprensibile nel suo esistere, nel suo vivere: Croce diceva che anche il sasso ha una sua vita. Ogni cosa, persona, animale esiste, vive, ha una storia:
il pesce come la rana, la pietra come l’albero, come il virus che attacca l’uomo e gli causa grandi malanni. L’esistenza, vista approssimativamente, è più semplice da capire; l’individuo isolato dal contesto diviene una cifra oscura, misteriosa ed anche calda.

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Io sono continuamente a contatto con situazioni di disagio mentale, con casi di cosiddetta follia. Ho sempre sostenuto e ribadisco ancora oggi che la linea di demarcazione tra salute mentale, nevrosi e psicosi è impossibile da tracciare con precisione: la vita è assurda, il fondamento dell’essere è radicato nell’incomprensibilità; tutti viviamo nell’assurdo, in un ambiente nel quale i punti di riferimento sono ambigui e vanno ricostruiti giorno dopo giorno, momento per momento. Insieme con il sociologo Umberto Melotti, ho da poco dato alle stampe un libro, Il mondo delle diversità, che, nella sezione curata da me cela una trappola per i fisici ingenui e poco colti. In essa sviluppo un discorso sull’importanza dei punti di riferimento che, da soli, riescono a rendere comprensibile una realtà significativa come il movimento; uso frasi antiche e concludo che nell’indistinta omogeneità di una pagina bianca è impossibile distinguere un punto bianco qualunque. Questo mio argomentare contro quelli che con presunzione si rifanno alla fisica come scienza oggettiva e precisa è in realtà un discorso strettamente psicologico che però non è stato capito da chi, fisico o psicologo, non si è rivelato capace di distinguere tra i due diversi campi scientifici, dimostrando, in fondo, di non essere né buon fisico, né buono psicologo.
Io sono il primo a riconoscere che fisica, ( psicologia, antropologia, storia, si compenetrano; la divisione settoriale a compartimenti stagni del pensiero culturale è un’assurdità, però il «brodetto» confusionario è altrettanto poco scientifico e inutile alla l ricerca. Nel libro in questione io solo apparentemente parlo di fisica, in realtà sto ( svolgendo un discorso psicologico, che ha tratto in inganno qualche sprovveduto, convinto che io mi appoggiassi ad una fisica forse «antiquata». lo intendo riferir- c mi ad un meccanismo della psiche umana I che non tiene assolutamente conto del r progresso scientifico ed in barba alla «nuova» fisica continua ad aver bisogno dei suoi punti di riferimento, per non perdersi. Voglio forse fare dello psicologismo soltanto? Io so solo che certi meccanismi sono venuti costruendosi evolutivamente e biologicamente nei millenni e che quindi, per ora, questi punti di riferimento sono ineliminabili e tali quali io li ho descritti. Volerli contestare è inutile. Un antico filosofo latino diceva: «Contra facta nullum argumentum». E’ una frase vera e falsa allo stesso tempo che però dovrebbe insegnare qualcosa a quelli che preferiscono teorizzare in astratto piuttosto che verificare in pratica quello che teorizzano.

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Ribadisco quindi che l’essere umano, senza punti di riferimento, non riesce a vivere: il bianco resta bianco e nessuno è capace di identificare un punto bianco su un fondo dello stesso colore; la differenza deve esserci, per quanto cromaticamente minima, perché l’uomo la percepisca. .Non so se questa non sia da considerarsi la sola scienza a tutti gli effetti valida,certo che per me ha il pregio di fondarsi sulla concretezza dell’esistere. A partire da questa realtà si possono costruire mediti diversi, elaborare teoremi, che però possono trovare la loro conferma solo nell’esistente. E’ vero che l’esistente non ha la concretezza senza la parola che lo pronuncia. L’esistente è quello che è, ma anche quello che ha, quello che dimostra di essere. A questo punto mi sembra di avere esaurito le possibilità della speculazione filosofica, mentre forse non ne sono che ai primi iniziali balbettamenti, all’inizio di quello che dovrebbe essere un percorso scientifico. Sono appena reduce da un viaggio nel paese di elezione della scienza contemporanea, gli Stati Uniti d’America, e mi sono sorpreso di aver trovato un paese in via di decomposizione; come se il risultato del progresso scientifico dovessero essere quelle distese di catapecchie del Bronx, la miseria di Harem, le montagne di spazzatura al centro di Manhattan, tra i grattacieli fatiscenti. I regno della scienza si è trasformato nel regno della miseria. Forse ha avuto torto il presidente della confindustria italiana quando ha criticato il monito di Giovanni Paolo II a diffidare dalle lusinghe del capitalismo scientifico e consumistico, altrettanto pernicioso delle illusioni del materialismo materialistico.Purtroppo il Papa aveva ragione: la scienza del capitalismo conosce oggi la stessa sconfitta dell’ideologia pseudo-scientifica comunista.

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La scienza ha bisogno dell’uomo. La matematica ha cercato di farne a meno: basta un computer, che ormai si trova in omaggio acquistando un qualunque fustino di detersivo, per far credere inutile ogni sforzo aritmetico e geometrico, di quel genere che ai tempi di Pitagora sembrava rappresentare tutta la scienza possibile, capace di descrivere il mondo. Oggi una memoria elettronica ed un display di pochi centimetri quadrati rendono inutili tutti i calcoli di Pitagora e superflui tutti i professori di matematica delle scuole dell’obbligo. Non serve più sapere che due più sei fanno otto, che diviso due fanno quattro. L’uomo ha disimparato; non è lontano il giorno in cui ogni essere umano saprà far di conto solo col suo personal computer, che gli servirà anche per un numero imprecisato di funzioni che da solo non saprebbe più svolgere, dimentico addirittura che quelle intelligenze artificiali sono frutto del suo lavoro, che gli restituiscono dati che lui ha immesso in memoria a. suo tempo. Sono discorsi di fantascienza che mi indispettiscono sempre un poco. Una giovane in analisi con me mi racconta che suo padre,. onesto e serio impiegato ora in pensione, ligio ai principi del vivere sociale, dopo aver passato le sue giornate da qualche parte, torna la sera a casa e si mette davanti al suo televisore, cena con spaghetti al sugo e una fettina di carne, senza bere vino, continuando la sua serata intento a guardare tutto quello che passa sul piccolo teleschermo litigando con la moglie, vecchia poco meno di lui, che a sua volta ha passato la giornata nel modo di sempre: rassettando e cucinando un poco e finendo anche lei davanti al televisore.
La giovane figlia ha l’il11pressione che ci sia qualcosa di folle in quella normalità così clamorosa, qualcosa da cui si sente diversa, più bizzarra di loro, ma angosciata: «Perché non amo più mio marito, mio figlio mi è diventato indifferente, perché vorrei… qualcosa, ma non so cosa». Viene dà me perché la curi, cosa che non fanno quei suoi genitori, prigionieri di rituali assurdi. Quale delle due famiglie è folle? Dove sta la vera pazzia?

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Venne da me una signora straniera, angosciata, perché non ritrovava da noi quel senso della casa al quale era stata abituata nel suo nordico paese d’origine. Mi parlò del marito, equilibrato e dignitoso professore, uno scrittore, che commentò la sua decisione di iniziare una terapia con la frase: «Fai benissimo, sei proprio pazza». Parlando, tempo dopo, durante una seduta venne fuori che suo marito aveva l’abitudine di orientare tutti i numerosi orologi di casa, nello stesso verso, rivolti verso un punto (forse la Mecca?), si nutriva solo di spaghetti al sugo e l’unica verdura che sopportava erano i carciofi; naturalmente, poiché era una persona che si considerava «normale», vinceva con qualche sforzo le sue manie perché non risultassero clamorose, non gli era perciò mai passato per la mente di farsi curare in qualche modo.

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Un ragazzo «di sinistra» venne da me perché lo liberassi dall’innamoramento che lo aveva preso per una ragazzotta, brutta e sciocca, reazionaria e violenta; si sentiva malato e voleva che lo guarissi da quella che lui considerava una inaccettabile patologia. Ero d’accordo con lui; ma mi stupii quando mi parlò di sua madre, una donnetta tranquilla che viveva della pensione lasciatale dal marito morto pochi anni prima, cui si aggiungevano i proventi degli affitti degli appartamenti di un piccolo sta-

bile di sua proprietà. La donna era terrorizzata dal timore che il palazzo prendesse fuoco, non parlava d’altro che di questa sua paura, rammendando calzini, chiusa in una stanza da cui non usciva quasi mai.
Quel ragazzo un giorno ebbe una crisi di dolori addominali violenti, mentre stava tranquillamente sdraiato in un parco; ricoverato d’urgenza fu operato di ulcera con un procedimento oggi a dire il vero piuttosto inusuale.

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Un’altra mia giovane paziente mi raccontava della perfetta armonia che da sempre univa i suoi genitori. Una coppia senza amici, che passava le vacanze solo e sempre coi figli; con scarsi rapporti con qualche parente. Chiusi nella loro casa, senza mai litigare, in una tranquilla vita di pensionati senza particolari problemi: lei religiosa, lui attento a ciò che succede, che si tiene informato leggendo i giornali. Una vita scivolata da sempre con grande tranquillità.
La ragazza ricorda che fin da piccola il padre e la madre, d’accordo tra loro, avevano abituato i tre figli a mangiare sempre tutto, perché «se viene la guerra, c’è il rischio di dover mangiare quello che si trova». Così lei mangiava i peperoni che detestava e i suoi due fratelli facevano anche loro buon viso a cattivo gioco quando qualcosa in tavola non era di loro gradimento. Quello però che la mia paziente non poteva mandare giù era la parte grassa dei pezzi di carne, ma il giorno dopo si vedeva ripresentare nel piatto quegli orrendi pezzetti di grasso che aveva cercato di non mangiare il giorno prima; così si era abituata ad ingoiare anche quelli, correndo subito dopo a vomitare in bagno. Quei due genitori erano convinti di essere una coppia assolutamente normale e si sarebbero stupiti se qualcuno avesse fatto notare loro che erano dei perfetti nazisti, dementi e allucinati, che avevano distrutto una figlia. Un giorno la ragazza aveva osato obiettare che in caso di guerra avrebbe avuto un senso che lei si sforzasse, ma che era folle pretendere che lo facesse in condizioni di normale vita quotidiana: in casa ci fu una tragedia ed il padre giunse a darle un ceffone, davanti alla madre in lacrime. Oggi la mia paziente mi assicura che non obbligherà mai i suoi figli a mangiare qualcosa che non piaccia loro, sembra aver superato; ma allora perché mi ha chiesto di intervenire con un trattamento psicoanalitico? È pazza come i suoi genitori o loro sono più pazzi di lei?

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Un giorno mi telefonò un ragazzo; mi disse: «Mi chiamo Sandro come te. Mio fratello maggiore sta molto male, mi hanno detto che tu sei bravo soprattutto coi casi gravissimi; posso mandartelo?» Gli risposi che poteva, anche perché la sua voce mi era sembrata simpatica.
Venne da me un uomo quasi cinquantenne, rattrappito, sudicio, diffidente, spaventato e disperato, con scoppi di allegria sinistra e distruttiva. Si rannicchiò sul divano e mi disse: «lo la psicoanalisi la conosco; ho già fatto sette anni di cura con…
». Il nome che mi disse era di un clinico famoso. «lo non credo che servirà a niente quello che lei tenterà di fare con me, sono venuto perché mia moglie, mia madre e mio fratello Sandro – dopo una pausa ripeté il nome – Sandro, hanno insistito. Non capiscono che io ho trovato la felicità e la verità. Un giorno alla stazione ho incontrato un ragazzo che mi ha parlato, apparteneva ai testimoni di Geova, mi ha dato un appuntamento ed io ci sono andato. Era un posto grande come un negozio, fatto allo stesso modo. Lì incominciai a capire, ma poi sono andato oltre.
Una sera, seduto alla finestra, in un palazzo fra gli altri di Centocelle, guardavo il sole che tramontava. Allora i figli di Dio hanno incominciato a percorrermi dalla testa ai piedi. Erano vibranti, incandescenti, mi facevano male. Compresi che mia madre, mia moglie, ma non mio fratello Sandro – ripeté il nome un’altra volta – Sandro no, mi volevano avvelenare. Da allora mangio solo uova e il pane che mi compro da me dal fornaio e bevo l’acqua che prendo alla cannella in strada, lontanissimo da casa mia. Dio mi ha anche parlato, mi ha detto di stare in guardia da mia moglie e da mia madre, perché vogliono uccidermi; invece mio fratello Sandro – dopo una pausa ripeté – Sandro no. Non so perché mi hanno obbligato a venire qui.
Cosa può fare lei contro Dio?» Risposi: «Contro Dio io non posso fare nulla…».

75 – Settembre ‘91

domenica, 1 settembre 1991

Se non fosse che di questa stagione non ci sono molti film di cui parlare e il film Merci la vie viene (falsamente) presentato come un anticipo della nuova stagione, non sarebbe certo il caso di riferire di una simile stupidaggine; però, proprio buttar via due ore del nostro tempo senza trame utile alcuno ci dispiace. Con un po’ di vergogna ci accingiamo quindi ad insultare questo guazzabuglio insulso firmato dal regista Bertrand Blier, poiché è imbarazzante persino parlare male di cose tanto insignificanti. Il soggetto non lo ha scritto neppure l’intelligenza limitata di un computer, poiché quasi certamente qualche spunto più originale una qualunque macchina sarebbe stata capace di trovarlo; invece il succedersi delle immagini e dei dialoghi si rifà alla più squallida banalità e povertà di pensiero. Vorrebbe questo pasticcio essere cinema surreal-astratto, filosoficheggiante e moralistico. Una ragazzetta di strada ed una fanciulla di buona famiglia cretineggiano vestite da sposa e portando a spasso gabbiani. Una o due troupes cinematografiche vorrebbero girare un film e il piano del film si confonde con la vita che si confonde col cinema; lo spettatore è supposto domandarsi, profondamente turbato se la realtà sia finzione o viceversa. Qualche. coito e un paio di nudità affiorano tentando di suscitare risvegli di attenzione, ma la mente è irresistibilmente rivolta al lavoro che ancora dovremo fare domani, alla telefonata che abbiamo appena fatto. Per un’alchimia dei giochi di produzione accanto alle due insignificanti protagoniste: una Charlotte Gainsbourg, inespressiva come un’adolescente afflitta da un perenne mal di denti e Anouk Grinberg, tarda emula delle veneri tascabili del cinemino francese figurano in ruoli quasi di contorno: Gerard Dèpardieu, sfigato come non mai, cinico dottore e partigiano in lotta contro i tedeschi e a favore dell’AIDS; Jean-Louis Trintignant, feldmaresciallo cinico e stupratore; Annie Girardot, madre supplente, ferocemente esibizionista di reticoli di rughe, dalla testa ai piedi. Gli altri sciagurati complici rispondono ai nomi di Michel Blanc, Jean Carmet, Catherine Jacob, Thierry Fremont. Il regista è convinto di aver sovvertito l’ordine del mondo con la trovata di girare il film in tre colorazioni: un seppia anni quaranta, un bianco e nero anni cinquanta e un technicolor anni sessanta-novanta, avvicendantisi a sorpresa. Le musiche comprendono un repertorio che va da Chopin a Dean Martin, passando da Philip Glass e Puccini. Forse per qualche ragione profondamente simbolica si dà particolare rilievo ad una inqualificabile interpretazione della ninna-nanna di Brahms.

75 – Settembre ‘91

domenica, 1 settembre 1991

L’ Associazione dei Concerti del Tempietto, è sulla piazza ormai da molto tempo, prima nella sede di S. Nicola in Carcere, ora anche all’aperto sotto il Teatro di Marcello. Le cose che questa organizzazione propone sono interessanti per un verso, soprattutto se si pensa alla quantità di iniziative, ma per l’altro verso, tutto ha un sapore vagamente dilettantesco e stentato: gli addetti al servizio di sala non sono proprio cortesi, gli ambienti sono. scomodi o trascurati, nella quantità abbonda la paccottiglia e scarseggia il buon gusto. La rassegna che si intitola prolissamente: «Un Tocco di classica», «Musica viva ogni sera» e anche chissà perché «Festival musicale delle Nazioni», propone concerti dal primo luglio di quest’anno e dovrebbe proseguire per tutto settembre. Noi abbiamo scelto, a caso, una serata tra le molte. In una calda notte, per l’esattezza, di
mercoledì 4 settembre, ci siamo così trovati in uno spazio bello e un po’ angoscioso allo stesso tempo: una lunga pedana era addossata alle vetuste pareti del Teatro di Marcello, davanti alla quale, nella polvere erano sistemate su due lati alcune sedie di plastica grigiastra. La poetica visione dei ruderi sembrava suggestiva, ma allo stesso tempo un sensazione di abbandono ci prendeva in tanto contrasto.
Una signorinetta al microfono descriveva ai presenti, per lo più turisti stranieri, la storia dei monumenti con l’indulgenza distratta di una professoressa di lettere alle medie inferiori. Dopo di che si avvicendavano sul palco ragazzette timide o forse tristi a suonare così così, con l’aria da collegiali in famiglia, alla fine delle suonate a volte sì e a volte no scoppiettavano scarni applausi. Consapevole della situazione la signorinetta ci confortava col racconto di trascorse serate, ricche, di folla, di entusiasmo, di musica. Tutto questo quasi di nascosto in un luogo al centro di Roma, ma lontano dal mondo come l’oasi di un deserto. Che dire delle interpreti della serata?
Alessandra Celletti ha eseguito orrendamente la Fantasia in do minore K. 475 di W.A. Mozart: le sue mani erano pesanti e rigide ed il suono risultava totalmente inespressivo, più correttamente ha affrontato anche un Andante di Galuppi e una Mazurca di E. Bossi.
Due altre fanciulle: Anna Rita Sanapo al flauto e Stefania Canneti al pianoforte si sono cimentate con due brani di autori a noi sconosciuti: P. Taffanel e C. Chaminade, del primo abbiamo ascoltato un Andante Pastorale Hongroise op. 26, di onesta fattura, non difficile, molto scolastico, vera acqua fresca che però non ha evitato alle due di fare qualche pasticcetto. Il diminutivo del titolo Concertino op. 107 ben si addice al secondo brano, ed anche alle due simpatiche esecutrici. Per la defezione di un previsto duo pianistico all’ultimo momento la volenterosa Celletti ha ripetuto il programma che già aveva eseguito la sera precendente: Debussy, Satie e Ravel; col repertorio impressionistico la pianista ha saputo mostrare maggior grinta e rivelare una tecnica adeguata.
Purtroppo il pianoforte aveva un’accordatura molto incerta.

75 – Settembre ‘91

domenica, 1 settembre 1991

La mostra antologica di Luigi Faccioli organizzata a Palazzo Braschi dall’archivio Faccioli, l’A.C. «Il Cinabro» e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Roma, comprende settanta opere che coprono un periodo che va dal 1955 agli ultimi giorni dell’artista scomparso quest’anno.
La pittura di Faccioli ha la caratteristica di un discorso ampio, e complesso. Il linguaggio agli inizi è solidamente posseduto, articolato ed euritmico; poi, nel desiderio di andare oltre il pittore si smarrisce: gli stilemi si rattrappiscono e le frasi diventano balbettii appena accennati affogati in un astrattismo di necessità. L’articolazione di un linguaggio di nuovo comunicante ritorna, dopo la crisi informale e questa volta tutta la storia della pittura novecentesca viene ricordata. Lo sguardo si fa attento: scruta il mondo con passione. Colori e forme fanno quasi a gomitate sui quadri, per trovare il loro spazio espressivo. Purtroppo all’improvviso, il racconto di una così ricca avventura artistica viene interrotto, proprio quando quasi certamente stava per dire qualcosa di molto importante. Qualcosa che di sicuro ci avrebbe aiutato a capire le ragioni di un così violento ritorno della forma, della narrazione e anche della descrizione accurata dei dettagli. Esemplare ci pare a questo proposito il modo in cui viene affrontata la tematica della coppia in due periodi tra loro molto lontani: Gli amanti del 1959 e il Bacio, dello stesso anno, con le figure dell’uomo e della donna abbozzate, fuse ed immerse quasi in un monocromatismo appena spezzato in masse più chiare o più scure in un silenzio essenziale e compatto; due quadri che sono quasi l’antitesi poetica, ma anche estetica della tela del 1990 Fidanzati con cucciolo, in cui ogni pennellata ha una storia a sé, dove le ombre e le luci sui due volti disegnano carattere e pensieri, ed ogni particolare è occasione di pittura sonoramente cromatica, gli abiti e lo sfondo non sono secondari al resto ed il cagnolino in grembo alla donna ha anche lui qualcosa da esprimere, col segno che gli dà espressione, col colore che lo mette in rapporto con gli altri personaggi, sulla stessa scena, in quel preciso momento, per una comune ragione. Quasi quarant’anni di lavoro non sono bastati ad evitare che il discorso di Faccioli venisse stroncato all’improvviso, ma neppure a spegnere in lui l’entusiasmo per un mestiere da svolgere con tutta la passione di cui è capace l’uomo, quando è un artista.

75 – Settembre ‘91

domenica, 1 settembre 1991

Di buona famiglia, di Isabella Bossi Fedrigotti (Longanesi 1991, pagg. 203, Lit. 24.000), Premio Selezione Campiello, è un romanzo di grande efficacia narrativa e di intensa poeticità. Si legge tutto d’un fiato: paesaggi, atmosfere, personaggi sono descritti ed analizzati con grande sapienza. Non c’è mai un momento di stanchezza nella scrittura pulita e schietta.
Una soffusa malinconia permea tutte le pagine; però è anche presente un graffiante realismo, unito ad una buona dose di ironia. Il racconto si articola in due sezioni che illustrano la vita di due sorelle: una, Clara, è l’interlocutrice di un lo narrante che la porta a ripassare come per un esame la lunga vita di occasioni mancate e di opportunità colte al volo:
« … Contavi i giorni ma insieme li assaporavi, contenta che passassero piano, in modo da avere il tempo di costruire e ricostruire la scena. e rivederla. domandandoti perché non eri riuscita à prendere l’unica decisione buona … ».
L’altra, Virginia, in prima persona, racconta le insicurezze, i timori e le disillusioni, celate sotto l’apparenza di una esistenza di bella donna vincente, sicura e profumata, capace di destare l’invidia: « … ma la loro non mi sembra premura verso una vecchia, piuttosto volontà di sottolineare la differenza che c’è tra me e loro, io ci tengo ai bei vestiti, ai gioielli, ai capelli in ordine, io viziata, incapace di fare qualcosa di utile … ».
Le due vite parallele sono colte nel momento in cui si avviano alla fine, percepita come imminente, e per successivi viaggi all’indietro ricompongono un mosaico le cui tessere sono viste da due diverse prospettive, fino a completare il quadro di una «buona famiglia» di una volta, austriacante, con un padre tartufesco, lascivo e disperatamente malinconico; una madre petulante, inibita e subdolamente tirannica. Bella la figura della serva Beppina, carattere da romanzo classico; e poi i fidanzati, i balli, il paese veneto e i brandelli di storia.
Tutto passa sullo sfondo dell’antica casa avita: « … anch’io mi sentivo più sicura se il paesaggio di casa non cambiava troppo, se ogni cosa rimaneva dove ero stata abituata a vederla. lo che un tempo avrei buttato tutto, sostituito ciascuno di quei venerati pezzi…».
Due guerre scuotono tanta ansia di tranquillità, sconvolgendo quello che vorrebbe passare indenne. L’autrice riesce poi anche ad inserire piccoli colpi di effetto drammatico che si concludono con una «rivelazione che sorprende anche il lettore».

Spesso è molto difficile distinguere, in un’opera d’arte o ritenuta tale, non tanto la forma dal contenuto, che per noi sono indistinguibili, ma i vari aspetti che la compongono. Ad esempio nel romanzo di Antonio Debenedetti, Premio Viareggio, Se la vita non è vita Rizzoli 1991, pagg. 141, Lit. 27.000) non siamo bene riusciti a capire se l’impressione profondamente sgradevole e a tratti di repulsione sia stata frutto di incapacità letteraria, di rifiuto di tanta ambiguità morale, o dell’indiscutibile capacità dell’autore di riuscire a dire brutalmente realtà tanto spiacevoli.
L’intenzione è senza dubbio. quella di raccontare gli aspetti di una vita talmente anonima da essere spiritualmente miserabile, ma il risultato è così impressionante da destare il sospetto che tanta miseria e tanto squallore siano l’anima vera dello scrittore.
Quello che viene narrato corrisponde purtroppo alla realtà parziale di troppe vite vissute, ma manca ogni spiraglio, ogni possibilità di umana solidarietà, ogni pietà; tanto che le pagine sembrano raccogliere della vita solo la spazzatura.
La spazzatura è senz’altro ineliminabile da ogni contesto umano, ma sembra che l’autore non sia capace di percepire altro che questo.
Il protagonista mezzo ebreo, la moglie scolorita, l’amante disillusa, la figlia lesbica non travalicano mai i limiti dei loro rispettivi squallori esistenziali, non c’è amore, non c’è sensualità, non c’è speranza, tutto si riduce ad un polveroso andirivieni senza scopo, reso più angusto dall’avarizia, che accentua la povertà dei sentimenti.
Il giudizio negativo è anche una presa di posizione contro quello che noi giudichiamo oltre che una disonestà morale un limite: la vita, che pure contiene tutto il peggio, non contiene soltanto il peggio, come vuole farci credere l’autore, che a tal fine adopera un fraseggiare squallido e mortalmente noioso.

Paolo Volponi scrisse questa sua opera, La strada per Roma (Einaudi, 1991, pagg. 420, Lit. 30.000) circa trenta anni fa, poi il romanzo non pubblicato per svariate ragioni giacque nel cassetto, fino a questo anno quando con pochi ritocchi fu consegnato alle stampe proprio in tempo per risultare vincitore del premio Strega della appena trascorsa estate.
E questo un romanzo che ha un procedere lento, minuzioso e persino un poco assonnato, proprio come la vita di provincia che descrive.
Guido è un ragazzo molto «normale», figlio unico di una famiglia piccolo borghese di Urbino, ha però una caratteristica che lo differenzia dagli altri suoi compagni, quella di essere molto bello. Non è troppo intelligente, o sensibile, è un ventenne qualunque, che porta addosso, con una buona dose di ottusità, la sua bellezza. Ha anche un sogno piccolo, piccolo, quello di andarsene dal «natio borgo selvaggio» per fare una piccola fortuna a Roma. La abilissima penna di V 01poni descrive la vita di provincia con dolente poesia. La splendida città in rovina, dominata dal castello dei Montefeltro vede e sente scivolare giorni e notti, estati ed inverni, gli amici passeggiano, discutendo di politica e di donne. La sensualità del bel corpo del giovinotto si insinua in ogni riga, ne è soggiogato l’autore, ne sono soggiogati gli amici e le donne e ne sono soggiogati anche i lettori. Le atmosfere di Urbino sono cosi tangibili che talvolta danno un leggero capogiro tanto sono concrete, immediate e metafisiche.
Guido dopo la laurea riuscirà a raggiungere Roma e qualche volta avrà modo di fare ritorno in rapidi viaggi di malinconia; tutto è distillato da Volponi con finezza. Magistralmente però il romanzo si conclude con una scena terribile di violenza, astutissima quanto imprevedibile:
«Guido (…) sentì che una mano di Venanzi aveva abbandonato la ascella e cercava un altro posto lungo il suo costato, dentro la giacca.
Lo schifo e l’ira, lo slancio stesso del suo corpo che scattava dalla piega che il vomito gli aveva imposto, come la terra bianca del mercatale e l’ombra del Palazzo, lo buttarono su quell’uomo che lo soccorreva ed egli lo inchiodò sulla pianta: con un manrovescio gli aveva segnato il viso e i labbri e con un pugno lo colpì allo zigomo».

75 – Settembre ‘91

domenica, 1 settembre 1991

La piccola Irpinia, Via Cavallini 25.
Piccoli borghesi con crisi di suicidio sono avvolti da cornici squinternate e ventilatori di ottone, in una atmosfera da «domani sarà ancora così».
Si può bere Coda di Volpe 1990, cantine De Palma, un vinaccio miserando anche se tollerabile. Antipasti alla credenza, comprendono insalata di mare, vongole veraci, gamberetti, fasolari, verdure al gratin, funghi trifolati: è la greppia, è il truogolo.
Tutte le paste sono orrende e di cartone: fettucine ai funghi porcini, in una ciotola di latte gonfiavano viscidi orribili funghi su nastrini di gomma. Orecchiette al gorgonzola, i meno peggio, che nella demenziale ovvietà, ostentavano la fragranza di un gorgonzola di pessima qualità mal stemperato. Spaghetti alle vongole: in un groviglio informe e verdeggiante e dal forte sentore di aglio bruciato dubbi grumi di mitili si vergognavano.
Il prezzo è l’ultima sconcezza.

In via Antonino di San Giuliano, al Ministero degli Esteri, tra ponte Milvio e la Farnesina, si consuma il rito estivo di Cineporto ‘91. Sotto le stelle, in uno spiazzo all’aperto tra i pochi alberi sopravvissuti i giovani superstiti delle migrazioni vacanziere ed i vecchi abitudinari della defunta Estate Romana, si danno convegno per vedere nelle peggiori condizioni possibili i più banali prodotti dell industria cinematografica passata e recente. In una cornice che rende la stupidità un obbligo sociale, oltre ai due film ammanniti ogni sera, orchestrine ambigue e sgraziate spernacchiano blues e musica salsa ad un prezzo astronomicamente esoso:
si pagano ottomila lire solo per il diritto di ingresso ad un baraccone in cui poi ogni cosa deve essere comprata a caro prezzo, si tratti dell’ultimo ritrovato macrobiotico-integrale, o dei soliti consumisticissimi gadget pseudo artigianali. L’abisso del ribrezzo e dell’estorsione lo raggiunge il settore della ristorazione veloce: attraverso un bancone vengono passati in contenitori di plastica sbobbe informi di volta in volta denominate insalata di pollo, crespelle con funghi porcini, chili con carne, pasta fredda con salmone e rughetta, panino alla caprese; per fortuna le porzioni sono minuscole. Noi abbiamo dovuto assaggiare un boccone di tutto per non sembrare affrettati nel giudicare, ma se avessimo seguito il primo impulso ce ne saremmo andati via alla sola visione di tanta indecenza. Seguendo una naturale propensione ai super alcolici, abbiamo pensato di consolarci assaggiando tutti i cocktail disponibili. Nostro malgrado, poiché ci dispiace dire bene di qualunque cosa che nasca in ambienti simili, dobbiamo dichiarare che colui che ha in mano il bar è riuscito a pianificare in modo che vengano servite bevande miscelate almeno dignitose, anche se ognuno di quei bicchieri di plasticaccia viene a costare più di quanto non costi la stessa bevanda servita in cristalli ai grandi alberghi del mondo. Ci dispiace essere decisamente impopolari con certi nostri giudizi, ma noi pensiamo che nessun progetto di evasione estiva possa giustificare una combinazione tanto massiccia di incultura e brutalità: i più o meno squattrinati giovani della ex sinistra, convertiti oggi all’ecologia debbono essere rispettati maggiormente anche se dimostrano così scarso senso critico.